sabato 4 agosto 2018

Bücher: Una vita come tante

"Una relazione non può mai darti tutto ciò di cui hai bisogno. Può darti qualcosa. Di tutte le cose che puoi volere da una persona – l'alchimia sessuale, diciamo, o una conversazione brillante, un sostegno economico, compatibilità intellettuale, gentilezza, lealtà – puoi sceglierne al massimo tre. Tre, capisci? Forse quattro, se sei molto fortunata. Il resto devi cercarlo altrove. Solo nei film puoi trovare una persona che ti dia tutto ciò di cui hai bisogno. Ma qui non siamo al cinema. Nel mondo reale, devi scegliere quali sono le tre qualità con le quali vuoi trascorrere la tua vita, dopodiché puoi cominciare a cercarle. La vita è così. Non ti rendi conto che stai per cadere in una trappola? Se continui a pretendere di trovare tutto, finirai per rimanere senza niente."
Hanya Yanagihara, Una vita come tante


Una vita come tante di Hanya Yanagihara è uno di quei romanzi di cui ho tanto sentito parlare e discutere poco dopo la sua uscita. Recensioni entusiastiche, lettori estasiati, rapiti da questo libro che - a detta di molti - è da considerare alla stregua dei più grandi capolavori. Personalmente, mi dissocio da queste opinioni. Non perché voglia andare controcorrente, o perché sia insensibile - mi è già capitato di piangere leggendo un libro, o guardando un film. Il libro di Yanagihara, nonostante il tanto tempo utilizzato per portarlo a termine, mi è piaciuto. Si, mi è piaciuto. O forse no.
Una vita come tante narra la storia di una profonda amicizia tra quattro amici in una New York totalmente decontestualizzata. Jude, Malcolm, Willem e JB sono quattro squattrinati compagni di college che, affrontando percorsi ben diversi, raggiungono il successo nel loro campo. JB, l'artista, Willem, l'attore, Malcolm, l'architetto hanno come loro fulcro la controversa figura di Jude, un avvocato che nasconde un passato fatto di disperazione e di violenza, la cui vita è in costante bilico tra la speranza e il desiderio di autodistruzione. Intorno al fragile Jude si scatena un turbinio di sentimenti emotivamente variegati (e mi fermo qui, per non fare dello spoiler).
Perché leggere Una vita come tante? Beh, innanzitutto perché è una bellissima storia di amicizia che dura nel tempo: nel corso dei decenni, la loro amicizia sopravvive, nonostante i litigi, la tossicodipendenza di JB e i comportamenti ambigui di Jude. Perché Una vita come tante ridisegna completamente il concetto di genere e orientamento sessuale a livello letterario. Per la sua prosa, godibile nonostante le oltre mille pagine del volume: in fondo, una volta che si scopre quale sia stato il passato di Jude, costellato di abusi e di violenze, si vuole sapere come va a finire. Perché è perfetto nel raccontare quanto l'abuso in età infantile possa avere effetti devastanti (palese è l'incapacità di Jude di lasciarsi andare ad un amore incondizionato). Perché è stato bello affezionarsi ai personaggi – personalmente sono entrato subito in empatia con Willem e Harold, uno dei professori di Jude.
Va però anche detto che Una vita come tante è un romanzo che affronta questioni morali e basta, senza un benché minimo tentativo di contestualizzazione storica: si può dedurre che sia ambientato nel XXI secolo, ma poco altro, sebbene i riferimenti al cinema di Willem, all'arte di JB o ai progetti di Malcolm sarebbero un punto di partenza per descrivere il mondo che li circonda; un mondo dai contorni decisamente snob, che non può essere ovattato, in cui eventi come l'11 settembre o la crisi globale non sembrano giocare alcun ruolo. Forse tutto il libro andrebbe riletto come una favola urbana, mettendo da parte la pur consistente dose di realismo ivi contenuta. E poi c'è una sorta di fastidioso buonismo di fondo nei confronti del personaggio di Jude: perché è così amato? Forse “solo” perché è stato violentato da piccolo? Molti degli atteggiamenti assunti dai protagonisti sembrano incomprensibili – e per me rimangono tali tuttora.
C'è qualcosa di difficile da spiegare una volta terminato questo romanzo: nonostante questo intenso e poderoso viaggio nell'abisso di un uomo, rimane un po' di amaro in bocca nel constatare durante tutta la lettura una sorta di autocompiacimento dell'autore nel raccontare così tali esperienze dolorose, come se si volesse infierire sul malcapitato. Era proprio necessario?
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 7/10 

giovedì 2 agosto 2018

Parigi, venti anni dopo

Stump. Questa storia inizia con uno schianto e tante lacrime: respinto dalla traversa, il pallone calciato da Gigi Di Biagio scappa nel cielo di Parigi, portandosi dietro le speranze di vittoria azzurra al Mondiale 1998. I tifosi italiani piangono e imprecano contro quella che è diventata una maledizione: dopo il 1990 e il 1994, ancora i rigori sbarrano la strada alla Nazionale. Anche Marco Pantani è triste, ma per motivi diversi. Otto giorni prima, il 26 giugno, ha perso la sua guida, l'uomo che nel 1995 aveva creduto in lui nonostante la gamba maciullata, tenuta insieme dal ferro impiantato dai dottori del CTO torinese.
Luciano Pezzi, prima partigiano poi una vita da gregario di Fausto Coppi e un'altra da direttore sportivo iniziata alla grande con Felice Gimondi, era andato a prendersi il Pirata direttamente in ospedale: «Lascia la Carrera e vieni con noi: ti costruisco la squadra intorno. Sei il più forte, vincerai Giro e Tour». Sembravano parole al vento, azzardo destinato al fallimento. E invece il grande saggio aveva visto giusto: nel 1997 Pantani rimesso a nuovo ritrova scatti micidiali e sensazioni giuste sulle salite francesi con una maglia destinata a fare la storia: Mercatone Uno. Sale sul podio, come nel 1994. È il preludio al trionfo in Rosa: arriva nel giugno 1998 dopo un duello all'ultimo respiro col russo Pavel Tonkov. C'è una fotografia che ferma il tempo e restituisce la felicità di quei momenti: Pezzi tiene stretto Marco, lo abbraccia. E il romagnolo sorride, un sorriso bello come quello di un bimbo. C'è di più: il Panta indossa una mantellina gialla, un segno premonitore.
In quel luglio 1998 gli italiani vanno in vacanza scornati per la delusione Mondiale: Zidane trionfa su Ronaldo e alza la Coppa. Il giorno prima, sabato 11, il Tour parte da Dublino. C'è pure il Pirata e non era scontato. Anzi, per tutto il mese precedente sembrava che dovesse accadere il contrario. «Sono scarico mentalmente, dopo la vittoria del Giro ho fatto aldoria per una settimana. Che ci vado a fare in Francia?», ripeteva a tutti il cpaitano della Mercatone. E tutti gli davano ragione, tutti tranne uno: Pezzi, «Marco, dimentica pure sella e pedali per 15 giorni, ma lì devi andarci. Ho studiato il percorso, ci sono le pendenze per fare l'impresa e spezzare la maledizione gialla». Eh già, non ci sono solo i rigori a disturbare il sonno degli sportivi italiani. Per chi vive a pane e bicicletta, il Tour è una ossessione: dal 1965 l'inno di Mameli non fa da ninna nanna all'Arc de Triomphe. Trentatré anni dalla zampata di Gimondi, un'eternità. Pezzi punta tutto sul romagnolo, ma il destino suona alla sua porta: il cuore del vecchio leone smette all'improvviso di battere. Pantani è in Spagna con la squadra, una telefonata gli oscura l'alba: versa lacrime su lacrime. Nei giorni successivi in testa gli rimbombano le parole del suo mentore: «Devi andare al Tour, devi andare al Tour, devi andare al Tour...». E Marco gli rispinde al funerale, mettendo una mano sulla bara: «Ci vado, Luciano. Ci vado». Il resto non lo dice, ma lo pensa: «Ci vado e vinco, Luciano». Anche queste sembrano parole al vento.

Circondato dalla folla sul Galibier (fonte: couleur.cc)

Ma dal quel 26 giugno le cose cambiano: i gregari vedono negli occhi del capitano la scintilla che conoscono bene. Macinano chilometri su chilometri per recuperare il tempo perduto e arrivare alla partenza nelle condizioni migliori. La sfida è a Jan Ullrich, astro nascente e vincitore nel 1997. Il Mondiale viene in soccorso del Panta: la Grande Boucle, per non disturbare il tifo calcistico, posticipa il via di circa una settimana. Ossigeno e allenamenti in più per i muscoli del romagnolo. Ma il gap sembra lo stesso incolmabile: quando il 18 luglio la locomotiva tedesca della Telekom stravince la cronometro a Correze, si prende la maglia gialla e rifila 4' e 21" al Pirata, gli italiani spengono la tv e si concentrano sui bagni al mare. La spiaggia chiama, non ci saranno sorprese.
La Grande Boucle intanto si inerpica sui Pirenei, montagne che infilzano il cielo. Il Panta attacca a ogni tappa: inanella un secondo e un primo posto. Vuoi vedere...? Ullrich è in affanno, le gote sempre più rosse. Il giorno  del giudizio è il 27 luglio, sulle Alpi: da scalare il gigante Galibier, poi picchiata e risalita a Les Deux Alpes. È un pomeriggio estivo che più bugiardo non si può: pioggia gelata, vento, foschia e nuvoloni neri. Ai -4 chilometri da quota 2642 e a circa 50 dal traguardo, il Pirata di alza sui pedali e va all'arrembaggio con la pelata protetta da insolita bandana celeste. La ruota gialla della sua Bianchi solca l'acqua, lascia una scia nell'asfalto banato. E va su ancora, va su canterebbe Gino Paoli. Mezza Italia è incollata alla tv: salta sul divano, grida e scatta in ciabatte tra giardini e salotti. Come per magia quei momenti vivono in una bolla temporale, non vanno più via. Basta chiudere gli occhi per ritrovarsi indietro di 20 anni, ascoltare la voce amica di Adriano De Zan, annusare gli odori, rivivere le emozioni, i battiti del cuore sempre più accelerati. E lo scalatore arrivato dal mare ora va giù, va giù ancora. Poi, dopo la picchiata, di nuovo salita: l'arrivo è vicino, Ullrich sempre più lontano. Vince, il Pirata. Taglia il traguardo con gli occhi chiusi, braccia aperte come ali e il viso che è un matrimonio di sofferenza e gioia.
Sembra un novello Cristo, l'opera madonnara di un artista di strada. È "solo" Marco Pantani. Indossa la maglia gialla mentre il tedesco sbuffa ancora verso Les Deux Alpes: becca quasi 9 minuti dall'italiano. Non rimonta più, non ci sono rigori, gatti neri, macchine in contromano e altre diavolerie. La maledizione del Tour è spezzata, Gimondi alza il braccio del Pirata mentre risuona forte Fratelli d'Italia. «Quel 1998 ha cambiato tutto, facevo piadine e non capivo nulla di ciclismo», ricorda Tonina, la mamma di Marco. «Dopo sembravano tutti impazziti, ma se potessi ridarei indietro coppe e Tour per riavere il mio Antonio Inoki, come chiamavo Marco da piccino. In questi lunghissimi anni ho combattuto per ridare dignità a mio figlio, continuerò a farlo fino all'ultimo respiro. È stato maciullato e abbandonato dopo Madonna di Campiglio. Cosa inimmaginabile solo qualche mese prima». Già, nell'agosto 1998 Cesenatico diventa l'ombelico del mondo: alla festa in piazza arrivano da tutta Italia, c'è pure il premier Romano Prodi e Dario Fo, futuro Nobel, manda un quadro per celebrare l'impresa del romagnolo. Il 199 si tinge di rosa e giallo, è l'"anno di Pantani", è una goduria nazionale. Così, non ci sarà più.
Francesco Ceniti, Sportweek, 7 luglio 2018

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