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domenica 28 ottobre 2018

Che la corsa sia con me - 3:24:07 a Francoforte!

Ciao a tutti!
È andata ma non è andata come auspicavo. All'arrivo nella Festhalle ho fermato il cronometro dopo tre ore, ventiquattro minuti e sette secondi. Molto lontano dalle 3h15' che pensavo possibili.
Seppure in condizioni meteo diverse, questa maratona ricalca molto nello sviluppo del passo di corsa quella di oltre due anni fa a Berlino. Tanti chilometri corsi ad un ottimo passo, il lento decadimento prestazionale tra i venticinque e i trenta chilometri, dunque il crollo, già a dieci chilometri dalla fine.
Non ci sono scusanti, neanche le violente raffiche di vento che a tratti hanno sferzato il percorso della maratona. Non avevo le gambe per raggiungere le 3h15', o le ho consumate troppo in fretta. Per questo, in parte, merito questa medaglia. Frutto di un (a mio parere) buon allenamento che non ha fruttato come sperato, ma soprattutto di dieci chilometri - quelli finali - allucinanti. 

Che fatica, ma anche io ho una medaglia e...un podio

Me la godo, e ora...riposo!
Bis bald!
Stefano

martedì 2 gennaio 2018

Tutti i colori delle maratone

Dieci maratone. Dieci volte i 42,195 chilometri. Dieci medaglie sudatissime. Dieci preparazioni. Dieci emozioni diverse, dieci storie che si possono riassumere in modo molto semplice.
Con un colore.

Dieci colori per dieci maratone

Il bianco è indubbiamente il colore della mia prima maratona, nel 2012 a Torino. Perché è stata la mia prima esperienza con questa distanza. Il bianco è il colore della prima pagina da riempire di ricordi. E chi l'avrebbe mai detto, che poi di ricordi ce ne furono ancora così tanti...
Alla mia seconda maratona, a Barcellona nel 2013, associo il rosa. Un colore lieto e pieno di speranza, al quale collego il bel ricordo di una settimana catalana ma soprattutto i giorni in cui poi mi stavo innamorando... di colei che poco più di tre anni dopo sarebbe diventata mia moglie.
L'azzurro è il colore della mia prima maratona a Venezia, sempre nel 2013. L'azzurro è colore di positività (e come non esserlo dopo aver migliorato il mio personale di oltre quattro minuti?), ma è il colore del cielo di Venezia dopo aver sfondato il muro di nebbia della pianura, è il colore delle acque del Canal Grande, un momento per il quale vale la pena essere un maratoneta.
Il grigio è il colore della mia seconda maratona a Torino, nel 2013. La sintesi del bianco e nero che indossai quel giorno, ma soprattutto è la giornata plumbea, un esito di certo non brillante (rimane tuttora la peggior performance) e molti episodi che mi hanno deluso - mi riferisco alla scadente organizzazione e ahimè, mi duole ammetterlo, ai torinesi stessi. Episodi che mi hanno allontanato da quella maratona che dovrebbe essere "di casa".
La mia seconda volta a Venezia, nel 2014, in cui sono fortissimamente voluto tornare dopo la bella esperienza dell'anno precedente, è quella che senza dubbio alcuno lego al colore rosso. Il colore dell'amore per una maratona, in cui sì, limai di un minutino il mio personale, ma che io ricordo solamente per aver chiesto a Giulia se voleva sposarmi...
La mia prima volta all'estero è stata nel 2015, ad Amburgo: la maratona che io abbino al colore verde. Per un percorso, per l'appunto, ricco di verde, ma soprattutto per l'equilibrio che mantenni per tutta la corsa. Per una speranza concretizzatisi nel nuovo personale e finalmente, per la prima volta, in una maratona completata in 3h15' (e qualcosina).
Dunque è il turno del viola, il colore della sofferenza. E mai come nel 2015 a Firenze sperimentai questa sensazione negli ultimi cinque chilometri. Quelli che furono i chilometri molto probabilmente più lenti che abbia mai corso in una maratona.
Anno 2016, maratona di Berlino. Una chance di miglioramento sfruttata male, per una preparazione troppo lunga, un allenamento svoltosi in un caldo fuori dalla norma, la sfiga. E soprattutto il ritorno a casa con un piede rotto. C'è poco da aggiungere, il colore che associo a questa maratona è certamente il marrone.
La maratona che a livello di risultati ritengo la più bella di sempre la lego al colore arancio. Parlo della maratona di Roma, nel 2017: un percorso duro scelto per ritornare sui 42,195 chilometri dopo mesi per rimettermi in forma dopo la frattura al piede, convinto di non poter mai e poi mai migliorare il mio miglior tempo. E invece, in una giornata tetra, dopo due acquazzoni (e un terzo evitato per questione di minuti) e sampietrini che diventano saponette, arrivo ai Fori Imperiali con il miglior tempo di sempre. Nelle gambe, quel giorno, avevo il fuoco.
Il giallo, che per me è sinonimo di maturità, lo voglio associare alla mia decima maratona, la terza a Venezia. Decima maratona che corsi più per romanticismo che per vera volontà: era la decima, e avrei desiderato tanto che fosse a Venezia. Per innumerevoli ragioni. Ma le gambe non sempre vanno di pari passo con la testa. E se manca quella, non si va lontano. Solo con l'esperienza di dieci maratone sono arrivato al traguardo senza massacrarmi. Già proiettato verso la prossima volta...
Bis bald!
Stefano

domenica 22 ottobre 2017

La decima da pagare - 3:44:16 a Venezia!

Sapevo di non essere in grossa forma, considerati gli ultimi due mesi in cui è successo molto - di tutto, di più - ma speravo in qualcosa di più. Le gambe lontane sono state - e su questo invece non avevo dubbi - lontane parenti di quelle brillanti ed esplosive di sei mesi fa a Roma. Ho dovuto gestirle dall'inizio alla fine per evitare di arrivare a Venezia camminando. Ho sempre corso, non mi sono mai fermato, non ho mai gettato la spugna, arrivando sulla linea del traguardo esausto. Condizione nella quale è giusto ritrovarsi alla fine di una competizione in cui si dà tutto nel giro di tre (quasi quattro, oggi) ore.
Lontano dalla migliore condizione, lontano dai tempi che ero solito correre, ma ugualmente felice. Felice di esserci, felice di essermi emozionato correndo a Venezia. La terza volta, ma è come se fosse la prima. Un privilegio, correre qui, un'esperienza che auguro a tutti nella vita. E poi, questa è la decima volta sul traguardo di una maratona. Un traguardo nel traguardo, un'enorme soddisfazione che solo cinque anni fa, quando stavo allenandomi per la mia prima maratona, non potevo proprio pronosticare. E invece eccone dieci. Torino, Barcellona, Venezia, Torino, Venezia, Amburgo, Firenze, Berlino, Roma, Venezia.
Ora riposo, reset fisico e mentale (necessario), una lunga pausa e poi si vedrà. Dopo dieci maratone, un piccolo ciclo si è chiuso. Qualcosa cambierà, ma se ne riparlerà nel 2018.

Passaggio in Piazza San Marco, chilometro 41

Bis bald!
Stefano

sabato 2 settembre 2017

Fulmini sulla capitale - Il racconto della mia maratona di Roma 2017

Dopo un piede rotto, un mese di totale inattività, e settimane di recupero, si dovrebbe badare a ritornare a correre, invece di pensare a ritornare a correre più forte. Proprio per questo avevo scelto di correre a Roma: è una maratona dura, sulla quale non nutrivo ambizioni particolari, ideale per un rientro su questa distanza. Quello che voleva essere per me un viatico primaverile in vista di un bel miglioramento in autunno, si è trasformato in una maratona indimenticabile, perché in condizioni climatiche non ideali e su un percorso tosto, ho chiuso la maratona di Roma con un tempo che rappresenta il mio attuale miglior tempo sui 42,195 chilometri: 3:13:06, oltre un minuto dal vecchio record stabilito a Firenze. Un tempo tutto da raccontare.

Tutti dietro!

Fino al venerdì pomeriggio antecedente la domenica di gara, avrei immaginato di soffrire il caldo della capitale. A Roma, ad inizio aprile, il clima può essere già rovente per un maratoneta. Ma venerdì sera - ricordo bene quel momento, ero sotto il colonnato di San Pietro - ecco il pesce d'aprile: cambio repentino delle previsioni e temporali previsti per domenica mattina. Cerco di consolarmi dalla sconfortante notizia pensando che sì, in fondo è meglio una maratona bagnata che una maratona afosa, se si vuole puntare alla prestazione pura.
Eppure quando mi sveglio e lancio un'occhiata dalla finestra, sembra ancora tutto asciutto. E fresco. Inizio a nutrire qualche speranza per una maratona in condizioni perfette. Non ci voglio pensare, e col mio passo svogliato ed addormentato scendo alla reception per prelevare un non troppo ricco pacco-colazione (è troppo presto per l'albergo per servire la colazione) che integro con altre provviste acquistate nei giorni precedenti, in modo da fare il pieno di nutrienti che dovranno alimentare le mie gambe di lì a tre ore, il momento della partenza. Prima di uscire controllo di avere tutto ciò che mi può servire prima dell'ingresso nella gabbia, e fisso il pettorale alla mia canotta, con rigoroso scrupolo. Dunque si esce: la Via Nomentana è viva solo grazie alle luci dei negozi e di bar che iniziano ad accendere la loro domenica di lavoro. Nel sottopassaggio della stazione Nomentana i barboni dormono ancora.

L'ora della partenza si avvicina (fonte: facebook.com/maratonadiroma)

Alla stazione Libia della metropolitana, c'è già un capannello di maratoneti. Avvicinandosi alla fermata del Circo Massimo, da dove usciranno tutti gli atleti che raggiungono la zona di partenza in metropolitana, il vagone nel quale sono seduto anch'io si riempie progressivamente di alcuni tra le migliaia di maratoneti che calcheranno Via dei Fori Imperiali nel giro di qualche decina di minuti. Ci sono tante lingue, tante bandiere e soprattutto i tanti colori - maglie, scarpe e accessori (alcuni veramente discutibili, trattandosi di una corsa su strada). Nello spazio di mezz'ora, trascorso nelle viscere della metropolitana di Roma, il giorno sorge sulla Città Eterna e, di fronte alla spianata del Circo Massimo, si rivela per ciò che sarà durante tutta la giornata: coperto da nubi plumbee.
Per raggiungere la zona di partenza, c'è da scarpinare e non poco. Un pre-riscaldamento leggero, lo si potrebbe definire. La splendida Via di San Gregorio è il portale di accesso al Colosseo, attorno al quale sono stati parcheggiati i camion messi a disposizione dall'organizzazione per contenere le borse con gli effetti personali dei maratoneti. Di fronte al Colosseo sono stati parcheggiati anche i bagni mobili, scelta che ha fatto molto scalpore tra i turisti e sui social network: ma ci si rende conto che stiamo parlando di un evento che dura un giorno, uno? Prima di entrare nell'area riservata ai maratoneti, dalle quali famiglie si devono ora separare, mi incontro con il mio compagno di squadra Maurilio, il quale sarà di non indifferente aiuto. Infatti, nella fretta di lasciare l'albergo mi sono completamente dimenticato di portare con me la vaselina che spalmo sui capezzoli prima di ogni corsa superiore ai 25 chilometri, onde evitare il loro insopportabile sanguinamento. Mi faccio prestare un po' di crema e anche questo pericolo è scampato. Ora si può entrare nel mondo della maratona di Roma.

Davanti a San Pietro, sotto la pioggia battente

Cerco il camion al quale è destinato il mio zaino. Consegnare i propri effetti personali è un momento topico della domenica di corsa, perché da quel momento si è da soli contro la maratona. Dentro quello zaino c'è una piccola parte di te. Soprattutto, dopo la consegna non ho più conforto alcuno da amici, familiari, moglie. Solo un corpo al vento per oltre tre ore.
Guardo il cielo color cobalto e cerco di rimanere fiducioso: concretamente, rinuncio a indossare il visore che utilizzo normalmente negli allenamenti sotto la pioggia. I camion sono stipati attorno al Colosseo. Sono tantissimi, serve tempo per superarli e immettersi in Via dei Fori Imperiali, dove si trova la zona di partenza. Non entro subito nella gabbia a me destinata (la più veloce, professionisti esclusi!). Eseguo un quarto d'ora di riscaldamento vero e proprio, seguito da stretching, tra altri atleti pronti a dare il massimo sui sampietrini di Roma. Di certo, non una sessione lunga, perché l'innata paura di fare tardi alle gabbie alla fine prende il sopravvento.
La partenza è quasi alla fine di Via dei Fori Imperiali. Bisogna percorrerla tutta per raggiungere la propria gabbia - ovviamente dopo aver lasciato gli ultimi liquidi nei vari bagni chimici dislocati lungo l'area di partenza (in alternativa, ci sono i muri di quelli che mi sono apparsi come uffici del turismo). Una volta dentro la gabbia, si prega che le lancette possano scorrere velocemente, che il momento del via arrivi in fretta. Il batticuore si fa insostenibile, e le musiche de Il gladiatore non aiutano certo ad attenuarlo. I dolorini escono all'improvviso, tutti quanti insieme, quasi come un monito: "fra tre ore, sentirai ben altro!". Alzo lo sguardo al cielo per qualche secondo, come faccio sempre prima della partenza di una maratona. Sono secondi in cui ripenso a mesi di allenamento, iniziati con il gelo sull'asfalto e terminati con i primi fiori tra i ciuffi d'erba, di fatiche, di gambe stanche. Mi riportano sulla terra le poche parole del sindaco di Roma, in procinto di sparare il colpo che darà il via alla corsa. Sì, sono a Roma, nella città eterna, e tra le sue meraviglie fra pochi secondi correrò una maratona...

Primo passaggio davanti al Vittoriano (fonte: facebook.com/maratonadiroma)

VIA! La maratona di Roma inizia sotto un cielo che fa paura ma intanto, nelle prime centinaia di metri, bisogna trovare i varchi giusti per non rimanere intrappolati nella bolgia della partenza. Cosa che puntualmente mi accade dopo pochissimi metri, dietro a due sudafricani che partono come se fossero in una scampagnata primaverile, sobbarcandosi gli insulti (meritati, si) di un paio di maratoneti romani. L'andatura è abbastanza ridotta nei primi cinquecento chilometri, dove si assaggia il primo tratto di sampietrini. Bisogna arrivare in Via Petroselli per trovare quell'ampiezza di carreggiata che permette di poter allargarsi e correre più comodamente senza un continuo rallentare e accelerare. Mi tengo sulla sinistra nel chiudere il primo chilometro (4'34"/km), perché so che la curva che conduce alla prima salita, quella del Circo Massimo svolta proprio sul lato mancino. Una salita di riscaldamento, perché arriverà molto di meglio nel corso della maratona. Ma non è la salita il problema.

Piazza Navona, inizia l'ultimo tratto nel centro più centro

Una curva a destra collega Via dei Cerchi (il viale che costeggia l'area del Circo Massimo) e il Viale Aventino. Proprio qui, sento sulla pelle la prima goccia di pioggia. Pochi metri dopo, quando ormai il percorso punta dritto verso il quartiere Ostiense, ecco i primi tuoni che arrivano da sud. Le gocce di pioggia si intensificano sempre di più, ma se tutto rimanesse così proprio non ci si potrebbe lamentare. Anzi, meglio correre al fresco che nell'afa. I primi chilometri li prendo proprio tranquillamente, forse un po' spaventato da cosa potrei incontrare: pioggia? salite? Il ritmo tra 4'30" e 4'40"/km, è comunque positivo, perché sicuramente non è lento e altrettanto non è eccessivo. Premere sull'acceleratore già dalle prime battute è un problema di tanti maratoneti, e anche mio. Perché quando si ha benzina, la si vuole usare, dimenticando che il distributore per un maratoneta compare solo due giorni dopo la corsa.

Via!

Sul Ponte Settimia Spizzichino incontro le prime avvisaglie di ciò che sarà: un vento fortissimo che sposta tutti gli atleti sulla destra della carreggiata. Curva a sinistra per immettersi sulla Via Ostiense e, poco prima di intravedere la Basilica di San Paolo fuori le Mura, inizia a piovere copiosamente. E in pochi secondi diventa diluvio. Questo è un vero e proprio temporale, verso il quale mi sto avvicinando. Da esso mi riparo per qualche decina di metri, trovando conforto sotto i folti alberi tra i due sensi di marcia di Viale San Paolo, ma poi il percorso prevede una curva a sinistra per ricongiungersi nuovamente con Via Ostiense. E la sento tutta.
In pochi secondi la maglietta è un tutt'uno con il mio corpo e anche le scarpe sono presto fradicie. Schivare le pozzanghere già è attività complessa normalmente, farlo in Italia, dove le strade sono normalmente in condizioni pietose, è praticamente impossibile. Canottiera bagnata, pantaloncini bagnati, scarpe bagnate. "Coraggio, stavolta ti tocca andare in fondo così, sotto il diluvio". Poco prima del Ponte Marconi, inciampo in un'altra pozzanghera che sì, mi fa imprecare, e cerco positività nelle parole della mia amica Margherita, che Roma la conosce bene, e che il giorno prima mi aveva indicato (potrei quasi dire che fu un monito) come nella capitale i temporali sono tanto improvvisi quanto veloci nell'estinguersi. Infatti, appena arrivati sulla riva destra del Tevere, tutto si placa: quindici minuti di ira del cielo, dunque la calma. La pioggia continua a scendere ma con ben altra intensità.

Piazza del Popolo

Il primo tratto sulla sponda destra del Tevere è quello più brutto, non tanto per l'intensità e la qualità di corsa (stabile tra 4'35" e 4'40"/km), ma per le zone attraversate dal percorso. Devo attendere qualche chilometro per oltrepassare nuovamente il Tevere, al Ponte Testaccio. Qui il percorso ritrova un'altra Roma, una Roma più consona alle mie aspettative. Ma il ritmo non cambia - e questo è un bene, perché mantenere un passo costante per molti chilometri è una delle chiavi per riuscire nell'intento di non crollare negli ultimi chilometri. C'è pure qualche piccola nota positiva: un po' di sole si affaccia tra le nuvole, e mi accompagna per i chilometri lungo il tratto alberato del tratto di Lungotevere tra il Ponte Sublicio e il Ponte Cavour. Nulla di serio, ma la presenza di qualche pavido raggio di sole mi conforta e mi dà vigore per provare ad incrementare leggermente il ritmo di corsa fino alla soglia dei 4'30"/km. Non è un accelerazione importante, ma un piccolo" colpetto" alla media di corsa.

La prima salita, verso il Circo Massimo (fonte: facebook.com/maratonadiroma)

Superato per la terza volta il Tevere, mi ritrovo a fare i conti nuovamente con la pioggia. Mi trovo in Piazza Cavour quando ricomincia a piovere. Qui mi rendo conto appieno di come i sampietrini siano un terreno insidioso reso ancora più infido dalla pioggia. I piedi lo percepiscono appena, ma quanto basta per capire che sui sampietrini bagnati bisogna correre con cautela. Se volessi trovare una formula che spieghi cosa significa correre su un sampietrino bagnato direi che è quasi come correre sul sapone, soprattutto quando la pioggia non è intensa.
Via Crescenzio, Via di Porta Castello, una curva a destra ed eccoci in Via della Conciliazione. Il passaggio alle porte di Piazza San Pietro avviene sotto la pioggia battente, ma non per questo è un momento meno emozionante. Vedo i maratoneti che mi precedono, e nonostante stiano tutti facendo qualcosa di grande, sembrano così piccoli di fronte alla maestosità della Basilica di San Pietro, minuscole particelle nell'imponenza di Roma.

Meno di un chilometro, so già bene che è stata una grande maratona

Superato il Passetto di Borgo, il percorso punta verso nord, dove si vanno ad incontrare ampi e lunghi viali raccordati da curve ad angolo retto. Questo lungo tratto, che separa San Pietro dai chilometri che precedono lo Stadio Olimpico, sono forse i più difficili, perché vissuti nell'incertezza. L'unico conforto arriva dal cielo, che smette di scaricare acqua pochi minuti dopo aver lasciato alle spalle il Vaticano. Per il resto, sono chilometri di titubanze e di tentennamenti. Mi sono sentito palesemente in difficoltà nel leggere i segnali che arrivano dalle gambe. Mille domande attraversano la mia mente. Fin dove posso spingermi in questa maratona? Posso provare ad incrementare il ritmo senza andare fuorigiri? O è meglio puntare a mantenere un ritmo accettabile per arrivare in condizioni accettabili fino al chilometro 37/38 e dunque scaricare tutto il serbatoio nel finale? Sono domande che non trovano immediatamente risposta, perché è anche dal cronometro - che registra più metri di quelli effettivamente percorsi - che non trovo aiuto. Nell'indecisione, tuttavia, registro alcuni chilometri corsi ad un passo relativamente veloce. Tra il chilometro 18 (appena dopo Piazza San Pietro) e il chilometro 23 (dove il percorso riabbraccia il corso del Tevere) registro una accelerazione nel passo gara che mi mantiene costantemente sotto i 4'30"/km - una soglia importante, perché correre sotto i 4'30"/km significa chiudere una maratona in 3h10'.
Non è il mio obiettivo chiudere in 3h10', so che è troppo ambizioso in un percorso duro come quello della maratona di Roma, per di più affrontato con la pioggia e dopo un ciclo di allenamento affrontato al termine di un lungo stop dalla corsa. Però non voglio avere rimpianti al traguardo, non voglio guardarmi indietro e dover constatare che potevo fare di più. In questi chilometri mi chiedo cosa è meglio fare, se attendere a dare tutto oppure iniziare il forcing. Mancano ancora tanti chilometri e già tanti ne ho percorsi, questo è il momento delle decisioni più complicate. Quello che succede nella realtà (senza che io lo volessi appositamente) è che accelero, ma senza strafare, mantenendo sempre un po' di margine per un ulteriore cambio di passo.

I più forti hanno già fatto il vuoto in pochi metri (fonte: facebook.com/maratonadiroma)

Quando arrivo nella zona del Foro Italico e dello Stadio Olimpico, mi trovo intorno al chilometro 25 e i dubbi mi tormentano. Interpretare i dati che arrivano dal cronometro diventa qualcosa di cervellotico, perché bisogna considerare anche l'errore di misurazione (ampio). Questo è il momento in cui mi sento le energie iniziare a calare. Non un crollo repentino, ma piccoli segnali di cedimento. E non so perché, attorno a me, ci sono tanti maratoneti che mi superano con vigoria. Appena superato il Ponte Duca d'Aosta - l'ultimo ponte sul Tevere - mi supera a velocità tripla un maratoneta che secondo me è partito con la seconda ondata. Cazzo, quanta benzina aveva nelle gambe. Questo è il momento più difficile della mia maratona.
Da quel momento, faccio fatica ad ingranare. Sento le mie gambe come addormentate e incapaci di svegliarsi dal torpore. Non mi sento stanco, bensì come sotto l'effetto di un sonnifero. Dopo quel sorpasso, dico a me stesso "basta, dopo la salita, molli tutto ciò che c'è da mollare". So bene, avendo cercato i punti più critici del percorso, che dopo aver abbandonato il Tevere c'è la salita di Via della Moschea. Non è una salita durissima ma è piuttosto lunga. Arriva al chilometro 28, dopo esattamente due terzi di corsa: quello è il momento giusto per sfruttare quel che rimane dell'energia migliore a disposizione. La salita non va affrontata a perdifiato ma con cognizione: rallentare è obbligatorio ma sempre cercando di mantenere un ritmo buono (la affronterò a 4'45"/km) dal quale ritornare ad accelerare una volta tornati sul piano. La salita di Via della Moschea è la svolta della mia maratona, in quanto al termine di essa mi rendo conto di poter imprimere più forza alla mia corsa. Da quel momento, i riferimenti cronometrici saranno sempre (esclusa una giustificata eccezione) sotto la media di corsa. Il quartiere Parioli lo supero senza problemi, ma è quando entro nel Flaminio, ed è il chilometro 31, che inizia la cavalcata finale. Stavolta non ci sono muri, le mie gambe sembrano ancora fresche.

Ultimissimi metri di fatica

Sul Lungotevere Flaminio succede un fatto decisivo. Il viale è ampio, così esteso che la “cordata” di maratoneti tende ad allargarsi dando quasi la sensazione di sfilacciarsi. Il temporale ormai è passato, anzi, si affaccia un timido sole, tiepido quanto basta ad asciugare la canotta: la visibilità è ottima. Nonostante il viale curvi costantemente verso sinistra, vedo in fondo dei palloncini. Sono le "lepri" delle 3h15'. Sono indietro, ma non indietrissimo. Nulla e nessuno, peraltro, può negare che le lepri stiano correndo anche più forte di 3h15'. Quel riferimento visivo, però, è un valore aggiunto importante. Il Lungotevere Flaminio segna l'inizio della rimonta. Qualche numero per chiarire meglio il concetto di rimonta: dal trentesimo al trentacinquesimo chilometro ho superato 132 atleti. Un atleta superato ogni 37 metri di corsa. Oppure, poco meno di tre atleti raggiunti e superati ogni cento metri. Quando si corre così, sulle ali dell'entusiasmo e sospinti da grande forza e convinzione morale, si può raggiungere qualcosa di importante.
Sarei molto probabilmente sceso sotto le 3h15' e altrettanto presumibilmente avrei anche stabilito il nuovo record personale, ma resto convinto che quello che è successo sul Lungotevere Flaminio sia stata la scintilla decisiva per realizzare questo tempo, un crono che ritenevo quasi impossibile potessi realizzare ora, a Roma.

Il vincitore 2017 della maratona di Roma, l'etiope Tola

Il chilometro 35 è posto sul Lungotevere Arnaldo da Brescia. Qui inizia un sottopasso che dà ulteriore slancio alla mia azione, e quando si esce per imboccare la stretta Passeggiata di Ripetta, vedo molto bene le ultime lepri delle 3h15'. Sono ad un passo. Tutta benzina che ritrovo improvvisamente nelle gambe, benzina che fa in fretta ad incendiarsi, perché l'arrivo alla Passeggiata di Ripetta significa essere rientrati nel centro storico di Roma. Ancora un po' di Lungotevere, poi una curva a destra, prima di concludere il chilometro numero 37, di lì a breve si entra in Piazza Navona e di fianco alla Fontana dei Quattro Fiumi. Da qui in avanti, nonostante il maltempo, siamo accompagnati costantemente da due ali di folla più o meno folte. Supero l'angusto passaggio per entrare in Corso del Risorgimento e dunque in Corso Vittorio Emanuele II. Lo supero in grande scioltezza, perché mi sento ancora molto bene. Infatti, questi chilometri in centro tra Piazza Navona e Piazza del Popolo risulteranno essere tra i più veloci dell'intera maratona, con un ritmo che varia tra 4'18" e 4'21"/km. I primi cenni di cedimento arrivano solamente in Via del Corso, una via dal fondo difficile e soprattutto che sembra essere infinita. Stretta e lunghissima, Via del Corso collega Piazza Venezia a Piazza del Popolo ed è l'arteria che inaugura l'ultimo ed insidioso settore della maratona di Roma. Mancano pochi chilometri, tuttavia i segnali sempre più inequivocabili non sono quelli di un crollo verticale, come spesso mi è capitato in maratona. I muscoli sono sempre più rigidi e meno reattivi ma hanno ancora il carburante per mantenere un ritmo mai corso prima d’ora negli ultimi chilometri: inizio Via del Corso dopo 2 ore, 52 minuti e 20 secondi di corsa, ne esco dopo 2 ore, 59 minuti e 24 secondi. Sette minuti per percorrere 1600 metri circa vuol dire che corro, alla soglia del completamento del quarantesimo chilometro, in 4'22"/km. È un ritmo che mi pare impossibile poter sostenere dopo così già tanti chilometri incamerati nei muscoli. Eppure, so di correre spinto da gambe ben allenate, una forza morale che non può che attestarsi ai massimi livelli – sono conscio che sto correndo alla grande! – e da tanto tifo sui marciapiedi di Via del Corso. Tanti turisti che, spesso nell'attesa di poter attraversare la via per recarsi dalla Fontana di Trevi a Montecitorio, applaudono e incitano i maratoneti. Tra di loro anche tanti bambini, e ai bambini, un cinque con la mano non glielo neghi mai. Perché è bello, perché loro ne saranno felici, perché noi maratoneti ne trarremo nuovo vigore.

Chilometro 40

Piazza del Popolo è un passaggio da prendere con le molle, perché i sampietrini sono ancora umidi e se ne esce solamente girando attorno all'Obelisco Flaminio, un lungo curvone che porta in Via del Babuino. Purtroppo davanti a me incontro alcuni atleti più lenti, in una più che probabile fase di calo fisico, e sono costretto a spendere risorse per superarli. Via del Babuino è invece un'impercettibile salita che porta la maratona di Roma in Piazza di Spagna. La affronto ancora con un ottimo ritmo, perché copro i 530 metri di Via del Babuino in 2 minuti e 20 secondi. E sto parlando di un tratto che è un lungo falsopiano in salita. Sto correndo forte, ma realizzo solo in Piazza di Spagna, dove cade esattamente il chilometro 40, che questa maratona sarà foriera di grande soddisfazione. Proprio di fronte alla scalinata di Trinità dei Monti mi ricongiungo ai primi pacer delle 3h15'. Sanno di poter concludere con un tempo decisamente migliore e allora rallentano per aspettare altri atleti. Li supero, involandomi verso gli ultimi due chilometri. Ma è proprio qui che arriva il bello.

I centurioni scortano l'arrivo dei maratoneti

Da Largo del Tritone inizia la seconda vera salita della maratona di Roma, meno dura di quella di Via della Moschea... con la differenza quest’ultima che non arriva dopo oltre quaranta chilometri di corsa. La quantifico in 360 metri di lunghezza e qualche metro di dislivello: è la salita del Traforo Umberto I. Dopo così tanti chilometri questa asperità diventa un macigno e anche la velocità, ovviamente, ne risente: 4'50"/km nei metri di salita. Il peggio, ahimè, deve arrivare: è lo stesso traforo che buca il colle del Quirinale ad rappresentare uno dei momenti più complicati della maratona. Oltre ad essere in salita, è un ambiente chiuso, ovattato, in cui le orrende luci e un’acustica da incubo diventano un contorno straniante. Bisogna tenere duro, perché il culmine di questa salita coincide con il chilometro 41 e rappresenta l’ultima vera difficoltà della maratona di Roma. Dopo, si può solo volare.

Un bacio all'ombra della cupola di Santa Maria di Loreto

Poche ancora le curve. Una verso destra, dove sostanzialmente iniziano gli ultimi metri, per imboccare Via Nazionale, dove mi aspettano i miei genitori da un’intera mattina: con loro, il segno del cinque per prendere da loro ulteriore slancio, una rassicurazione ("sono tutto intero") e la sensazione del momento ("vado a fare il personale"). Una volta raggiunto Largo Magnanopoli, inizia il discesone finale di Via IV Novembre, una curva a destra seguita da una controcurva a sinistra, per riprendere finalmente Piazza Venezia: non serve aggiungere con quale stato morale ho percorso quella discesa. Entusiasmo alle stelle, euforia, esaltazione. Il traguardo è sempre più vicino, io continuo a guardare l’orologio perché tutto ciò non mi sembra vero. Dopo un piede rotto, mesi di inattività, un allenamento proficuo ma sul quale non ho mai voluto riporre particolari speranze... arrivare a Roma, correre per parecchio tempo sotto la pioggia, su sampietrini spesso umidi, nel saliscendi dei colli della capitale e migliorare di oltre un minuto il proprio personale... era per me fantascienza!
Sono finalmente in Piazza Venezia, davanti ho tutta la mole del Vittoriano e inizio a vedere l'arrivo. Non so più come sto correndo, so solo che di fronte ho la linea dell'arrivo, una meta che a tratti ho pensato di non poter più toccare. Ci sono ancora pochi metri di sampietrini a separarmi da Via dei Fori Imperiali, dal traguardo con vista Colosseo. Guardo un po' in aria, dove il cielo è plumbeo come alla partenza. Guardo e riguardo la fede al dito, perché a tanti chilometri di distanza c'è chi ha sofferto e soffre con me. Poi mi prendo gli ultimi metri e me li godo tutti quanti. Metri di brividi, perché il Colosseo ancora lontano è ormai lì. Metri di liberazione, in quanto solo pochi mesi prima non so se avrei scommesso di essere nuovamente al quarantaduesimo chilometro. Metri di gioia senza fine, perché sono di nuovo qui, ma anche perché nonostante questo percorso e questa pioggia, ho corso veloce come mai prima su questa distanza. C'è tutto quello che serve per poter esternare un urlo liberatorio sul traguardo e poi finalmente rallentare. Roma mi ha portato fortuna e su questo meraviglioso percorso ho fermato il cronometro dopo 3 ore, 13 minuti e 6 secondi. Il che significa nuovo personale, grazie ad un miglioramento di oltre un minuto. Qualcosa che non ritenevo assolutamente possibile e proprio per questa ragione, ha trasformato questo fine settimana romano in qualcosa di ancora più dolce...

Che arrivo sia!

E va beh, poco importa se quindici minuti dopo il mio arrivo, già medagliato, dissetato e (parzialmente) sfamato, si scatena un diluvio ancor peggiore di quello incontrato ad inizio corsa. I viali attorno al Colosseo sono fiumi d'acqua, le stazioni della metropolitana diventano spogliatoi. Mi riparo con il telino ricevuto all'arrivo e scappo velocemente in albergo. Confidavo in un riposo tranquillo, all'ombra del Colosseo, ma così non sarà. Vado a prendermi tutto il riposo che serve, al Colosseo ci tornerò in serata, per la foto di rito con medaglia.
Quello che conta è essere arrivati al traguardo ancora una volta, ancora più bello è sapere di averlo fatto alla grande, migliorando ancora una volta il proprio limite. Realizzare tutto questo a Roma... è una dolce soddisfazione!
Bis bald!
Stefano

sabato 17 dicembre 2016

Gli orsi in cielo

Ciao a tutti!
Ottanta giorni, o poco più, sono trascorsi dal 25 settembre. Era il giorno della maratona di Berlino: volevo fare una gran bella gara. Col senno di poi, l'ho fatta, la "bella gara". perché l'imprevisto bisogna sempre metterlo in conto e, se per sette volte sono sempre arrivato alla fine senza troppi patemi, l'ottava l'ho pagata a caro prezzo. Una caduta dopo cinque chilometri, in cui inconsapevolmente mi sono fratturato un osso del piede, il dolore ad una gamba per una decina di chilometri e tutta la consueta trafila di dolori multipli in molteplici parti del corpo, prima dell'arrivo da brividi nel Tiergarten berlinese.
È una maratona che merita di essere raccontata non solo per ciò che è stata la gara del 25 settembre, ma anche per ciò che sono stati i tre mesi antecedenti l'appuntamento con i 42.195 chilometri. Questa volta è stata una "maratona prima della maratona", perché mai come stavolta la preparazione è stata lunga, intensa e difficile. Il caldo che a più riprese, ma soprattutto a cavallo di agosto e settembre, ha attanagliato la Germania, non mi ha consentito di allenarmi nelle migliori condizioni e soprattutto di recuperare a dovere. Si, è stato un percorso duro, durissimo, ma svolto con passione ed impegno. Proprio per questo l'ho voluto ripercorrere in questo post, una cronistoria del mio percorso che mi ha portato a Berlino, condito da alcune immagini della maratona e della mia personale partecipazione. Dalla pre-iscrizione e dal sorteggio fino all'esame che mi ha diagnosticato la frattura al piede. Una maratona, alla fine, è anche questo: la fortuna dell'estrazione, la sfortuna dell'incidente.
Bis bald!
Stefano

Nei primi chilometri, già caduto e con una gamba dolorante

25/10/2015: ritento il sorteggio per la BMW-Berlin Marathon
08/05/2016: ufficiale, il 25 settembre al via della edizione n.43 della BMW-Berlin Marathon

Potsdamer Platz, passaggio da brividi

07/07/2016: inizia la preparazione verso Berlino
20/07/2016: le nuove scarpe per la maratona di Berlino

Ancora un chilometro...

26/07/2016: primi allenamenti nel caldo torrenziale di luglio
07/08/2016: la fatica delle prime ripetute in salita
17/08/2016: fine della prima parte di allenamento, stop alle salite

Sul blue carpet

26/08/2016: ad un mese dall'appuntamento con i 42.195 chilometri
27/08/2016: prime indicazioni dai lunghi

Il popolo dei finisher

29/08/2016: nuove modalità di allenamento, le ripetute 120-60-30
01/09/2016: il troppo caldo e i trenta chilometri mai finiti nella Gramschatzer Wald
05/09/2016: vesciche e capezzoli sanguinanti durante le ripetute 120-60-30
15/09/2016: l'ultimo lungo-lunghissimo

"Berlin, I don't listen to you"

18/09/2016: quali ambizioni dopo un ultimo allenamento poco brillante?
21/09/2016: il percorso della 43esima BMW-Berlin Marathon
22/09/2016: è l'ultima settimana, la settimana della pasta

L'arrivo della maratona più veloce al mondo

23/09/2016: il giorno del pettorale
24/09/2016: tutte le sensazioni del giorno pre-maratona
25/09/2016: la carica prima dello sforzo totale

3h20'08", non è il personale, ma va bene uguale

25/09/2016: l'annuncio: 3h20'08” alla maratona di Berlino, nonostante una caduta
26/09/2016: la soddisfazione messa a fuoco nel day-after

Medaglia che racchiude fatica, gioia, dolore, tutto

30/09/2016: diagnosi impietosa, durante la maratona mi ero rotto un piede...
12/10/2016: il racconto della mia partecipazione alla maratona di Berlino
25/10/2016: ad un mese dalla maratona di Berlino, tutti i pensieri all'arrivo

martedì 25 ottobre 2016

È uno stato mentale

La maratona sono i quarantadue chilometri di corsa, le due-tre-quattro-cinque ore di corsa. Ma è soprattutto il percorso lungo settimane, mesi, che porta un atleta a trovarsi davanti alla linea di partenza e dopo sconfinata fatica, a tagliare il traguardo. La soddisfazione è sempre enorme quando si arriva in fondo. Anche quando non tutto va per il verso giusto ma si riesce comunque ad arrivare alla fine. Un po' come è successo a me quest'anno alla maratona di Berlino (vedi racconto): un tempo più alto rispetto alle mie aspettative, frutto di qualche errore nella preparazione ma anche risultante di un piccolo incidente dopo pochi chilometri durante il quale mi sono rotto un osso del piede. Quando va così, le impressioni che ho sentito vive sulla mia pelle madida di sudore, di fronte alla Porta di Brandeburgo, non possono che essere fortissime. In quegli ultimi metri di fatica, dove ho corso più forte che in tutto il resto della corsa, si pensano a tante cose, la mente si trasforma in un vortice di pensieri.
Pensieri che raccolgo qui, un po' così, come mi vengono.
In Straße des 17.Juni, sul traguardo della BMW-Berlin Marathon, ho pensato...

Anche col piede (inconsciamente) rotto, all'arrivo

...alle domande che si fanno quelli che mi vedono correre sotto la pioggia
...alle vesciche multiple sul mignolo dopo ogni seduta
...alla signora che mi guarda stranita con la bici in mano mentre corro le ripetute in salita
...a The rising a tutto volume per poter limare qualche secondo in meno sul passo
...ai 103 trenini rossi che mi hanno superato sulla Mainradweg durante tre mesi di allenamenti
...alle fitte al piede ad ogni curva stretta
...al sudore delle ripetute, alle mezze ore aspettate per togliermi il sudore dal corpo
...alla vecchia che mi chiede indicazioni stradali mentre corro, ma io, affaticato dai chilometri e in preda al fiatone, tiro dritto
...a quel momento in cui, più di due anni fa, promisi a me stesso che sarei ripassato sotto la Porta di Brandeburgo, correndo la maratona di Berlino
...al cuore a mille sulla salita di Bergstraße
...ai miei pensieri negativi dopo la caduta, nei quali credevo fosse tutto finito, e invece...
...ai tre mesi di allenamento e a come in pochi secondi le prospettive cambiano in peggio
...ai brividi di Potsdamer Platz
...agli allenamenti eseguiti con temperature di trentacinque gradi
...a quanto è dura pedalare 50 km dopo un lungo
...ai pugni chiusi e ai denti stretti dopo i trenta chilometri di corsa
...alle rinunce quotidiane a tavola, quando mangeresti un bue intero e bisogna accontentarsi di un piatto di pasta
...al torrido sole pomeridiano sulla faccia, che sì, mi faceva vedere cose che non esistono
...al miglioramento continuo della performance, giorno dopo giorno
...ai volti sofferenti ma entusiasti attorno a me
...alla bambina che mi guarda sorridente mentre corro e con grande tenerezza mi dice hallo! 
...ai cerotti che non fanno presa sul mignolo
...allo scatto di orgoglio in Unter den Linden
...ai capezzoli sanguinanti
...ai bicchierini di amaro non presi perché no, superalcolici è meglio di no, in preparazione
...a quel fiume di maratoneti alla partenza che diventa ruscello dopo quaranta chilometri
...ai secondi sul passo che spero di recuperare nelle discese
...ai sogni di vita e di corsa che si fanno in allenamento
...alla manifestazione di gioia che è la maratona, in una città come Berlino, che ha conosciuto il dramma del Muro
...a quanto duro era quel palo sul quale sono franato rovinosamente
...a Giulia, che ha sopportato ore di allenamenti e chili di canotte e pantaloncini sudati, che mi aspetta a casa e che mi dà forza per arrivare in fondo con i suoi "fai presto"

La dedica conservata per 42 chilometri

...e ancora una volta (l'ottava ormai), come sempre dopo i quarantadue chilometri, a tutti coloro che hanno corso una maratona, o la correranno, una volta almeno nella vita.
Stefano

mercoledì 12 ottobre 2016

Ihr seid Helden - Il racconto della mia maratona di Berlino 2016

Raccontare questo nuovo confronto con i 42 chilometri e 195 metri, il numero otto, ha certamente un sapore diverso rispetto alle altre occasioni. Perché da questa maratona ne esco a pezzi fisicamente. Non solo con le gambe al limite della sopportazione, come è normale in maratona, ma anche senza un minuscolo pezzo di un osso del piede. Nonostante la frattura al tarso del piede destro questo non è un sapore amaro. Direi più... agrodolce. Se la gioia della maratona è stata in parte smorzata da un incidente (del quale ovviamente parlerò ampiamente) che mi ha impedito di puntare al personale, è ben presente la consapevolezza che essere arrivati in fondo, aver superato la linea del traguardo, è sempre un grande risultato. Farlo con un piede fratturato, con tutto ciò che ne consegue, è un risultato enorme, forse ancora superiore a tutti i personali del mondo.

Il sorriso dell'arrivo

La notte prima della maratona è, come spesso capita, una notte che mette insieme l'insonnia e il nervosismo della vigilia con la necessità di riposare le membra in vista del grande giorno. Le sensazioni non sono negative, anzi. La colazione è ovviamente ricca, con le solite cose di tutti i giorni, come yogurt e marmellata; la vestizione è lenta. Servono attenzione e cura.
Per raggiungere la zona della partenza c'è da prendere la S-Bahn, è il momento di decongestione tra la tensione dei primi preparativi e dell'attesa della partenza. In quei cinque minuti tra le stazioni di Zoologischer Garten e della Hauptbahnhof non devo pensare a niente, non devo fare niente. Il mio sguardo addormentato vaga qua e là nella carrozza che, come era prevedibile, è popolata dal popolo della maratona. Una ciurma che è facilmente riconoscibile dal sacchetto fornito per contenere i propri oggetti personali, e soprattutto dalle scarpe da corsa che si sfidano tra loro a chi è più variopinta. In quei minuti, guardo le facce ancora rilassate dei maratoneti, e mi giro solo per un attimo, quando il treno scavalca Straße des 17.Juni, da dove ha inizio la maratona: in quel punto avrò corso all'incirca 1500 metri.

Via alla maratona di Berlino! (© Fabrizio Bensch)

Davanti alla Hauptbahnhof fioccano i drappelli di maratoneti e aspiranti tali che ne approfittano per immortalarsi con un selfie di fronte all'avveniristica stazione ferroviaria di Berlino o con l'alba che sorge proprio dietro alla Fernsehturm lasciando riflessi arancioni sulla Sprea. Tutto questo prima di entrare nell'area della partenza e dell'arrivo, un'area blindatissima dove non è ammessa l'entrata di persone che non siano maratoneti e dove i controlli delle forze dell'ordine sono rigorosi. Non è solo questione di sicurezza (la maratona di Boston ha insegnato), è soprattutto per aiutare la gestione di una folla enorme, che a Berlino conta quarantamila persone assiepate nel viale che attraversa il Tiergarten.
Mi svesto e affronto il freddo della mattina berlinese di settembre, prima di lasciare il sacchetto con i cambi. Poi il riscaldamento e lo stretching e tra una serie e l'altra ci scappa sempre una fondamentale pausa-minzione (in compagnia, perché quasi tutti detestano fare la coda ai vespasiani, che non sono mai sufficienti). Tutto nella grande area verde di fronte alla Cancelleria, tutto di fronte agli sguardi divertiti della Polizei. Non ce ne voglia la Angela Merkel, ma i maratoneti devono rigorosamente partire vuoti.

L'ingresso nella strettoia di Friedrichstraße

I brividi non sono solo quelli di freddo, ma anche quelli di ansia che attraversano la schiena quindici minuti prima della partenza. La folla è tanta e gli ingressi nelle gabbie sono strettissimi, in più lo spazio all'interno della gabbia stessa pare essere sottostimato. Beh, ciò che succede è che rimango fermo "in coda", neanche mi trovassi sulla A1 tra Barberino del Mugello e Roncobilaccio. Quindici minuti di attesa impaziente, durante i quali vedo tutto il peggio dell'umanità che cerca disperatamente di entrare in gabbia: recinzioni scavalcate, spinte a destra e manca, cespugli sfondati e chissenefrega se ci si graffia. Comunque, mi va bene, alle 9.10 sono dentro. Giusto in tempo per la presentazione dei top runner, quelli che si giocheranno la vittoria sul traguardo davanti alla Porta di Brandeburgo e, in campo maschile, proveranno ad abbattere il record mondiale sulla distanza (quello femminile appare ora difficile da superare). Siamo costretti come polli in batteria, provare a fare ancora un po' di stretching è un'impresa.
Ecco, se devo trovare una pecca nel mio avvicinamento alla gara, la trovo qui: non sono riuscito ad entrare in gabbia sufficientemente prima per poter trovare ancora un po' di relax interiore, di riflessione, di tranquillità prima di bruciare nel fuoco della corsa.

Il fiume si divide di fronte alla Colonna della Vittoria (© Fabrizio Bensch)

Per la cronaca, a vincere la maratona maschile sarà poi l'etiope Kenenisa Bekele, davanti al keniota Wilson Kipsang - già vincitore della maratona di Berlino nel 2013 durante la quale aveva già stabilito la migliore prestazione mondiale. Ma non ci sarà il nuovo record del mondo: il fenomeno etiope, tre titoli olimpici e cinque titoli mondiali sui 5000 e sui 10000 metri piani (dei quali è anche il recordman mondiale), ferma il cronometro sul tempo di 2h03'03". A sei secondi dal record, sei secondi su un tempo di due ore! La differenza è infinitesima: per eguagliare il record, Bekele avrebbe dovuto correre ogni chilometro quattordici centesimi più veloce. Nulla.
Per quanto sia un tifoso di Kipsang, sono molto contento per la vittoria di Bekele, un atleta di valore enorme, uno dei più grandi della storia dell'atletica leggera, e che appartiene un po' ad una scuola più classica dell'atletica leggera, che preferisce l'avvicinamento alla distanza della maratona partendo da distanze tipiche del mezzofondo.

L'arrivo trionfante di Kenenisa Bekele (fonte: neweurope.eu)

Poi arriva il momento dello sparo, i palloncini bianchi che si alzano nel cielo azzurro sopra Berlino sono il segnale per noi che la maratona è cominciata. Ma la distanza fra me e la linea di partenza è ampia: ci sono ben quattro gabbie di gente più veloce di me (come scoprirò dopo, solo apparentemente). La folla è tale per cui sono necessari quasi sei minuti affinché riesca a raggiungere la linea sulla quale il mio chip viene rilevato e possa iniziare, finalmente, a correre. Segnatevi questo dato, sarà utile dopo: sei minuti tra lo sparo e il mio rilevamento alla partenza.
Vista dall'esterno, la Straße des 17.Juni, riempita fino all'orlo di oltre quarantamila maratoneti, è un grande spettacolo visivo, è il grande fiume della maratona. Ma essere lì dentro, tra podisti che vengono da tutto il mondo, lo è ancora di più. Nel cuore della maratona di Berlino, tra le due muraglie di alberi del Tiergarten, a cospetto della doratissima Colonna della Vittoria, correre è un privilegio monumentale. Gli sforzi fatti, fino dal momento della mia iscrizione, lo testimoniano.

È quasi la mezza maratona, di fronte alla Kirche am Südstern

Mi rendo conto fin dall'inizio che i primi chilometri saranno di sofferenza. Non fisica, ma psicologica, puro stress mentale. Di fronte a me mi trovo un esercito di podisti che vanno veramente molto più piano di me. I primi chilometri se ne vanno ad un passo di circa 4'40"/km, già troppo lento per inseguire il miglioramento del personale. Ma sono i primi chilometri, nei quali strafare non è buona cosa, e poi ci sono sorpassi a raffica da effettuare. Tanti, troppi. Ci sono moltissimi podisti che corrono decisamente più piano della soglia di 5'/km. Ci sono curve che si trasformano in strettoie in cui si è giocoforza obbligati a rallentare l'andatura. Ci sono tratti che possono essere delle trappole. E in una di queste, appena superato il rilevamento dei cinque chilometri, ci sono proprio finito dentro.

Lottando per un sorpasso in Rosa-Luxemburg-Platz

Cadere correndo non è cosa frequente. E invece, per terra, ci sono andato.
La velocità della caduta è stata tale per cui il ricordo sbiadisce assai rapidamente. Sul momento ho pensato a due possibili teorie: o sono inciampato da solo (oppure scivolato) o qualcuno mi ha toccato da dietro, mentre ero in procinto di "mettere la freccia" e effettuare l'ennesimo, nervosissimo, sorpasso. Cose plausibili, che capitano di rado ma capitano, già viste durante altre corse. Alla luce di come mi è gonfiato il piede sinistro a poche ore dal termine della maratona, mi rendo conto che l'ipotesi più credibile sia stata una distorsione, una storta che mi ha spaccato il piede: due giorni dopo, gli esami strumentali evidenzieranno una frattura al cuboide del tarso sinistro. Ma il piede in realtà non farà mai particolarmente male durante il resto della corsa. Sentirò dolore solo in curva (dove il carico sul piede è distribuito diversamente), al quale rimedierò allargando il raggio con il quale imboccherò ogni svolta a sinistra e a destra.
Dopo la caduta, non ho escoriazioni sulle gambe, perché per terra quasi non ci sono andato. Trovandomi sul lato destro della carreggiata, e spostandomi sul bordo strada per provare a sorpassare, la mia caduta si è arrestata su uno di quei pali in ferro, alti un'ottantina di centimetri, usati come dissuasori di sosta. Impatto violentissimo, sul quale ho sentito più di un "uh!" da parte dei passanti e degli spettatori. A risentirne sono l'addome e la gamba destra. Il dolore all'addome scompare in fretta, alla gamba invece rimane ancora a lungo. Rimarrà per dieci chilometri, impedendomi di spingere a dovere. Infatti nei due settori 5-10 km e 10-15 km correrò alla media di rispettivamente 4'41"/km e 4'40"/km. La proiezione al quindicesimo chilometro è per un tempo finale di 3h16'48".

Piccolino, a destra - in mezzo ad una marea di gente molto più lenta di me

Ora mi tocca aprire, con dispiacere, una parentesi amara. Un incidente, di qualsiasi genere, è un avvenimento spesso aleatorio. Non credo di aver compiuto una manovra sbagliata prima di cadere. Con ogni probabilità doveva capitare, e basta. Ho avuto la sfortuna di rompermi un osso con una storta, cosa che mai mi era capitata prima, pur con tutte le storte in cui sono incappato. Ho avuto la sfortuna di impattare su un ostacolo tutt'altro che morbido, anzi, così duro che forse sarebbe stato meglio il cemento del marciapiede. Insomma, sfortuna.
Però, se non mi fossi trovato a dover sorpassare atleti così lenti, se non fossi stato costretto a cambiare continuamente traiettoria, probabilmente avrei rischiato molto meno di cadere. Attenzione: nella mia gabbia (la E) avrebbero dovuto esserci podisti che hanno corso in precedenza - o pensavano di correre, se alla prima partecipazione - un tempo tra le 3h15' e le 3h30'. In termini di passo, intorno a me avrebbero dovuto esserci runner in grado di mantenere una media tra 4'37"/km e 4'58"/km. Invece mi sono trovato di fronte atleti che correvano ben più piano di 5'/km. Lì per lì, ho maledetto il risultato della maratona di Amburgo, quelle 3h15'43" che ho dichiarato in fase di iscrizione e che dunque mi hanno costretto, dopo il sorteggio, a finire in una gabbia potenzialmente lenta per me - due mesi dopo l'iscrizione, alla maratona di Firenze, ho corso in 3h14'32", tempo che mi avrebbe dato il diritto di stare nella gabbia D, più veloce. Ma (e questo l'ho scoperto dopo) non era correre in una gabbia potenzialmente più lenta il motivo per cui ho dovuto sorpassare tutte queste lumache.
Il giorno dopo la maratona mi viene segnalata pagina web del quotidiano Berliner Morgenpost in cui è possibile trovare e scaricare gratuitamente una foto del proprio passaggio al chilometro 6.3, prima del ponte sulla Sprea in corrispondenza di Willy-Brandt-Straße. Per trovare la mia foto, devo sfogliare molte gallerie, quindi mi aiuto nella ricerca utilizzando la pagina ufficiale degli organizzazione con i risultati e i passaggi ai vari rilevamenti di TUTTI i partecipanti. E noto alcune cose strane: alcuni numeri di gara, passati al chilometro 5 prima di me, hanno poi finito la maratona ben oltre le tre ore e mezza, ma anche in quattro o cinque ore.
Guardate la foto in alto, scaricata dal sito di Berliner Morgenpost. Il numero 26284 è un bavarese che ha chiuso la maratona in 3h48'03". Non voglio pensare male. Avrà avuto una crisi, avrà sovrastimato (diciotto minuti...) le sue capacità. A pensar male si fa peccato ma spesso si indovina.
E infatti, sul sito web della maratona, trovo il numero 16775 (da Berlino) che chiude in 4h32', partito tre minuti dopo lo sparo; vedo il cinese con il numero 50164 che chiude in 4h51', partito dopo soli trentasei secondi dallo sparo; vedo il messicano con il numero 10889 che chiude in 5h02', partito dopo due minuti dallo sparo; vedo (e qui chiudo), il danese con il numero 22931 che chiude in 6h17' (sei ore!), partito due minuti e mezzo dopo lo sparo. Beh, io sono partito ben SEI minuti dopo lo sparo, quindi avrei dovuto essere sulla carta mooooolto più lento di questi individui. Avranno avuto una crisi, forse? Lo escludo, perché chi ha una crisi non corre a 6'-7' al chilometro fin dai primi chilometri. Questi sono solo alcuni esempi: cosa scrivo è tutto verificabile sul sito della maratona (http://www.bmw-berlin-marathon.com/en/).
Questo significa una cosa sola: tra i maratoneti c'è chi fa il furbo e si iscrive ad una corsa con tempi o falsi o clamorosamente sovrastimati. La geografia qui non conta un cazzo. Questa porcheria l'hanno fatta gli integerrimi tedeschi come i più infidi cinesi. Non sono loro ad avermi spaccato un piede, ma hanno messo in difficoltà me e tanti altri che come me si sono trovati costretti a rallentare, sorpassare ed accelerare in continuazione. Tutto ciò non è onesto e quindi, essendomi comportato onestamente, capirete che sia un tantino alterato. L'organizzazione poteva controllare di più? Se qualcuno ha barato negli ingressi in gabbia, sicuramente. All'iscrizione... forse si, ma in tutta sincerità, non posso affermarlo con certezza. Chiusa parentesi.

Li vedete quei pali? Ci sono caduto sopra. Screenshot da Google Street View

«È finita». Quando mi rialzo per riprendere la corsa, ammetto, ho pensato di ritirarmi. La botta è di quelle che fanno male. Ma questo attimo di scoramento dura pochi centesimi di secondo. E riparto. La gamba, soprattutto, fa veramente male. Lo scoramento ritorna, in forma ben diversa, in quanto non ho più la certezza di riuscire di poter quantomeno arrivare fino in fondo alla maratona. Correre su una gamba dolorante può essere motivo di sofferenze atroci, dopo trenta chilometri. Intanto, un chilometro dopo l'altro, la maratona continua e poco per volta cerco di iniziare a chiudere chilometri a ritmi più veloci. Ma non è affatto facile, perché capita anche di trovare punti in cui non è possibile continuare con i sorpassi. Al fondo di Reinhardtstraße (chilometro 8), ad esempio, c'è una curva a novanta gradi che conduce in Friedrichstraße: è una strettoia micidiale, in cui mi trovo a correre anche oltre i 5'/km. Dannazione, non si va avanti.

Markgrafenstraße, meno di due chilometri - e si vede

Sarò schietto, dopo quindici chilometri, dopo aver superato il tratto più settentrionale della maratona, mi sono reso conto che queste mie gambe, non potevano portarmi in fondo ai 42 chilometri con il mio miglior tempo. Non ero stanco, ma in corsa il corpo lancia costantemente dei segnali, che un maratoneta di esperienza sa leggere ed interpretare. Forse sarà stato anche una corsa scorretta (la botta alla gamba, il piede inconsapevolmente rotto potrebbero aver influito sulla resa nel gesto della corsa), forse sarà stato il demoralizzarsi nei chilometri successivi alla caduta, ma il mio passo non è mai stato particolarmente brillante. Di terminare una maratona, senza però neanche provare a migliorarsi, non se ne parla nemmeno. Nel bel mezzo di Kreuzberg, inizio ad incrementare la mia velocità e finalmente riprendo a stampare chilometri con un ritmo più vicino alle mie aspettative. Dopo la curva che porta all'area di Bergmannkiez, inizio a correre regolarmente su ritmi tra i 4'30" e i 4'40"/km, il ritmo che ci va per potermi migliorare. Il tifo che nei quartieri di Kreuzberg e Schöneberg è costante, passionale, ininterrotto. Questo certamente mi aiuta a tenere un buon passo.

Chilometro 12, recuperando la botta

I settori seguenti al chilometro 15 mi vedono correre ancora ad un buon ritmo, 4'35"/km nel settore 15-20 km, 4'37"/km nel settore 20-25 km. Sarei anche abbastanza costante, se non fosse per i caotici rifornimenti, in cui gli urti tra gli atleti sono la regola. Ma so che non è un passo che posso tenere ancora a lungo. Il decadimento della prestazione è inevitabile, e già nel settore successivo, 25-30 km, il 4'44"/km medio è già sintomatico dell'inesorabile calo. Il triste confine tra i quartieri di Tempelhof-Schöneberg e Charlottenburg-Wilmersdorf, segna l'inizio della lenta discesa. Inizio a rallentare sulla salita, l'unica in pratica sul percorso, di Lentzeallee. E poi ogni chilometro sarà sempre più lento. Sull'Hohenzollerndamm, effettivamente il viale più povero di tifo ma in leggera discesa, provo ad attaccarmi con i denti ad un passo intorno ai 4'45"/km.

Maratoneti, gente eccentrica (© Norbert Wilhelmi)

Dopo il trentesimo chilometro passo attimi difficilissimi. È il muro. È già arrivato, e arriva troppo presto. Ripenso a chilometri corsi troppo forte, alle accelerazioni e alle decelerazioni continue dei primi quindici chilometri, alla caduta. Quel muro che avrebbe dovuto presentarsi negli ultimi chilometri presenta il conto salatissimo a poco più di due terzi di corsa. Manca ancora un'ora di corsa, se va bene, e la devo fare con il coltello tra i denti. Il cronometro segna passi veramente prossimi ai 5'/km, un passo al quale non voglio correre. Mi attacco con tutto ciò che ho ad ogni residuo di energia rimasta, perché intravedo la possibilità di restare quantomeno sotto le 3h20', un tempo comunque dignitoso. Inizio con i calcoli, anche se non dovrei, perché quando non ne hai più, bisognerebbe lasciar perdere l'orologio e i calcoli con i secondi, per lasciare sull'asfalto tutto ciò che rimane. I cartelli con il chilometraggio scorrono uno dopo l'altro. Un altro momento di criticità arriva quando mi trovo tra la Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche e il centro commerciale conosciuto come KaDeWe, ed è già il chilometro 35. Negli ultimi cinque chilometri ho corso a 4'56"/km. Mi pare di non sentire più alcun tifo in questi viali così larghi. Qui non c'è più nessuno da sorpassare, perché i muscoli non vogliono più saperne di lavorare e di accelerare, in più le distanze tra un maratoneta e l'altro si allargano sempre di più. Ogni maratoneta può essere un riferimento da seguire per essere "trainato" in fondo, ma non sempre è così. Qualcuno va veramente troppo forte, altri sono ancora messi peggio.

Lingua fuori!

Gli ultimi sei-sette chilometri sono il romanzo della maratona, che a Berlino sono ancora più speciali e rendono unica questa maratona. Un'altra bella botta la sento quando mi sto per avvicinare alla Kulturforum. Prima della curva che conduce dalla Berliner Philharmonie al Sony Center, la strada tende leggermente a salire (scopro successivamente, riguardando la mappa, che è un ponte su un canale). Che mazzata sulle gambe. Trovo l'unico conforto nel guardare la fede che da quattro mesi ho al mio anulare sinistro.
Si iniziano a vedere i grattacieli di Potsdamer Platz. Mi rianimo, perché sento che lì troverò molte persone acclamanti. Non mi sbaglio. Se il tifo è caldo... ma quanto è freddo correre in Potsdamer Platz? Quei grattacieli, la loro ombra, creano un alone gelido che raffredda decisamente un corpo sudato e scaldato dal sole che ormai ha raggiunto il suo apice in cielo. Ma Potsdamer Platz non delude. Correre tra due folte ali di sostenitori, sormontati da un tetto di grattacieli di vetro fa venire ancora di più i brividi. E pur essendo al chilometro 39, è inevitabile scoprirsi ad accelerare sotto la spinta di un luogo impressionante per dimensioni e sotto l'incitamento continuo di berlinesi e di tifosi lì per incoraggiare i propri maratoneti.

Potsdamer Platz, chilometro 39 (© Norbert Wilhelmi)

Gli ultimi tre chilometri del percorso della maratona di Berlino li avevo studiati bene. Leipziger Straße sarebbe stato ed è effettivamente stato un viale infinito. Da Potsdamer Platz fino alla curva che conduce in Jerusalemer Straße c'è circa un chilometro e garantisco che questo chilometro è veramente atroce. Il chilometro più difficile. So di dover girare a sinistra, per iniziare l'avvicinamento a Unter den Linden, che vorrebbe dire traguardo, ma quella curva proprio non vuole arrivare. Quando finalmente arriva, è il chilometro 40. Non si molla, sono arrivate le ultime curve. Si, il piede fa un po' male, ma quelle curve ridanno speranza, non manca tanto. Mentalmente iniziano processi che corrono sul confine dell'illogico, come immaginare di essere sui percorsi di casa, immaginare di trovarsi su quella piccola salita della Mainradweg che dista due chilometri da casa. «No, non manca tanto, sono già sullo strappo», penso. «Dieci minuti e ci sono», ripenso. Dieci minuti possono essere tantissimo tempo, possono essere un'inezia. Dipende dall'intensità con quale si decide di affrontare questo lasso di tempo. La mia fortuna è quella di arrivare integro (non era vero, ma in quel momento ne ero ancora ignaro) al chilometro 40, quando inizia un'altra corsa, quando inizia un altro sport. Quando il capitale di risorse energetiche a disposizione è azzerato, quando il conto corrente dell'energia rimasta nei muscoli è definitivamente in rosso. Così rosso che gli ultimi cinque chilometri li ho corsi a 5'02"/km.
In quel momento iniziano quei minuti in cui possono succedere due cose. O si odierà la maratona e non la si vorrà mai più affrontare. O la si amerà al punto tale da domandarsi quando la si correrà la prossima volta. Nel secondo caso, questa domanda, fidatevi, ce la si pone appena superato il traguardo.

Uno sfondo indimenticabile

Ma il traguardo è ancora "lontano". Ci sono ancora cinque curve. Jerusalemer Straße, Mohrenstraße, dunque Markgrafenstraße. La sagoma del Deutscher Dom guarda quello che all'inizio era un fiume in piena diventare un minuscolo ruscello che scorre lungo il letto di un grande fiume in secca. Le distanze tra un atleta e l'altro si sentono, ci sono i metri, non più i centimetri. L'ampiezza di Markgrafenstraße, di fronte al Deutscher Dom e al Französischer Dom, è sterminata. Affronto la curva che porta in Französische Straße come un motociclista che può disegnare la traiettoria migliore, non sento nessuno attorno a me: c'è una fotografia, che adoro, in cui sono davanti a tutti. Davanti a tutti quelli dietro di me, naturalmente, perché davanti a me ce n'erano circa quattromila. In quelle foto ho espressioni facciali al limite dello spasmo. La fatica, che sfascia senza alcuna pietà ogni singola cellula, si legge prima di tutto nel volto di ogni maratoneta. Ma anche la felicità.

Il Reichstag invaso (© Buddy Bartelsen)

E quando svolto in Glinkastraße, il mio viso non poteva che essere felice. Ho appena superato il chilometro 41, intravedo Unter den Linden, sento la musica che accompagna i maratoneti fino all'arrivo. È giunto il momento che il maratoneta attende da mesi, il traguardo. Ancora una curva per arrivare nell'ultimo rettilineo. È una curva a sinistra. Poi settecento metri e la Porta di Brandeburgo. Unter den Linden è scatenata, la folla non smette di aiutarci a correre quella manciata di metri verso la linea di arrivo.
Sono quei momenti in cui comprendi a fondo il potere che ha la mente nel comandare il resto del corpo. Sento che sto correndo forte e allora guardo il cronometro che, un po' rassegnato, non guardavo più. E segna 4'23"/km, media sul chilometro in corso. 4'23"/km è un passo che non ho corso in tutta la maratona, non l'ho corso neanche nei momenti migliori. Lo corro ora, alla fine, dopo quarantadue chilometri di corsa mista a sofferenza, quando è tutto l'organismo che si trova in un vero e proprio conflitto di interessi, tra il desiderio di accelerare per accorciare la durata di questo dolore e la tentazione di rallentare per ridurre quel dolore muscolare. Lo corro dopo una caduta che poteva compromettere tutto.
Guardo la Porta di Brandeburgo e ripenso a due anni fa. Lì avevo promesso a me stesso che sarei tornato un giorno in Pariser Platz per correre sotto l'arco della Porta di Brandeburgo. Allora io e Giulia non eravamo ancora sposati, non vivevamo ancora in Germania. Quante cose sono successe nel frattempo. È inevitabile, mentre sto per passare sotto il monumento simbolo di Berlino, mentre inizio a vedere il cartellone blu dell'arrivo, ripensare alla mia vita, a mia moglie e (in sua assenza) dare un bacio alla fede.

Stop al cronometro: 3h20'08"

Ormai l'arrivo è ben visibile. Mancano...trecento metri, credo. Non so se sono andato forte o piano, la mente è in uno stato di estatico oblio. La gioia della maratona è come oppio, cancella la lucidità e annebbia in parte la coscienza. Cosciente di cosa sto facendo, incosciente di concludere una maratona con un osso del piede rotto. La grandezza del Tiergarten è immensa, e al suo interno sento come perdere l'incitamento della folla all'arrivo. La arringo, come spesso ho fatto in altre occasioni, per prendere tutto ciò che posso dall'urlo di Berlino, per forzare l'uso di energie di provenienza sconosciuta. Poi, un cartello. Chilometro 42. Meno di duecento metri. Le gambe continuano a mulinare, ma non è più un movimento controllabile. Vanno da sole, come il topo che ha avvistato il formaggio. Il formaggio è il tappeto blu degli ultimi metri.
Braccia in alto. Sono arrivato, nonostante la sfortuna che decide di farmi uno scherzo dopo pochissimo dal via, a muscoli quasi freddi, nonostante una botta che ha del sanguinoso contro un elemento coriaceo ma assai meno ferreo della forza di volontà di un maratoneta, nonostante un piede deplorante ad ogni curva, nonostante tutti i coglioni che terminano una maratona in sei ore partendo dalla gabbia delle tre ore e che ho dovuto sorpassare, nonostante il piede rotto che non sapevo di avere.

Le meritate medaglie dei finisher (fonte: uk.sports.yahoo.com)

Subito non so che tempo ho fatto. Mi accascio per un attimo, sfinito, poi vado a prendermi la medaglia e farmi immortalare con essa. Acqua, sali, banane, albicocche. Rimetto subito calorie in un corpo sta implorando nuove energie e tanto riposo. Quando poi l'eccitazione dell'arrivo inizia a scemare, cerco il tempo e scopro che il mio tempo finale è 3h20'08", posizione 3916 su ventiseimila arrivati al traguardo, posizione 668 di categoria su 3182. Peccato per quegli otto secondi. Peccato per l'occasione gettata di stabilire un nuovo personale, correndo sul tracciato più veloce che ci sia, e che veloce lo è veramente. Saprò rifarmi, piede permettendo, il prossimo anno. Sono convinto che l'infortunio saprà darmi nuova linfa verso nuovi obiettivi.

"Foto con medaglia"

Ora, francamente ritengo che il tempo fatto segnare a Berlino fosse comunque sintomatico della condizione fisica con la quale ho corso la maratona: non al meglio. Nell'ultimo mese la forma fisica è venuta meno progressivamente. Probabilmente la preparazione è stata troppo lunga, perché il picco della forma l'ho raggiunto ad un mese dalla gara. Ma questi sono dettagli su quali ora avrò tutto il tempo di riflettere.
La caduta mi ha fatto perdere non più di cinque secondi. La botta, il male alla coscia, non mi ha tolto più di un minuto. Il dolore in curva potrebbe avermi penalizzato di dieci/quindici secondi. Al di là della caduta, che comunque ha anche influito mentalmente, in negativo, il tempo è stato determinato dalla condizione fisica che ritengo, alla luce delle sensazioni percepite in gara, fosse lontana dal miglior apice. Nessuna scusa, quindi. E non voglio sentire dire "eh, ma con un piede rotto è un gran tempo". Si, col senno di poi sono felice, felicissimo, di aver chiuso così, ovviamente. Mi godo la soddisfazione, ma non voglio scuse. Si, sono arrivato in fondo nonostante tutto, ma non sono soddisfatto. Berlino è stata una tappa di passaggio verso un miglioramento che è possibile e alla portata. So di poter migliorare il tempo fatto segnare dieci mesi fa a Firenze. So di poterlo fare e sarebbe bello riprovarci a Berlino, con la quale maratona ho un discorso aperto. Che dite, mi dovrei iscrivere con un personal best di 2h30', per non correre rischi?
Bis bald!
Stefano

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