mercoledì 31 agosto 2016

The top dollar Cape Town

Ciao a tutti!
Città del Capo, come ogni ogni metropoli, ha più volti, più sfaccettature. Uno dei suoi volti più turistici è sicuramente il suo lato nord-ovest, quello dedicato esclusivamente ai turisti o alla popolazione più benestante, i quartieri (se così li si può chiamare) di Waterfront e Clifton.
Perché non proprio di quartieri si trattano. Waterfront è l'agglomerato urbano esclusivamente dedicato ai turisti. Centri commerciali (Victoria Wharf su tutti), alberghi di lusso, attrazioni mirate per il turismo di stampo occidentale. E dire che sarebbe l'area del vecchio porto di Città del Capo. Di navi ne sono rimaste pochine, qualche mercantile e qualche rimorchiatore, ma è poca roba ormai. Waterfront oggi è l'area del divertimento turistico. E delle passeggiate: camminando sul lungomare si può ammirare un bellissimo tramonto (qualche foto in questo post), magari all'ombra del Green Point Stadium.

Una Clifton mattiniera

Erroneamente chiamato Cape Town Stadium, questo è considerato uno degli impianti per le partite di calcio più belli del mondo. I sessantamila spettatori possono non solo godersi una partita di calcio ma una vista a tutto tondo del panorama che circonda Città del Capo. Lo stadio che nel 2010 ha ospitato la semifinale mondiale tra Olanda e Uruguay, oltre a numerosi concerti, è rivestito di una pellicola trasparente che permette, dall'interno di ammirare le montagne a sud e il mare tutto intorno.
Continuando sul lungomare si raggiunge invece Sea Point, un'area nota ai surfisti per la buona qualità delle onde. Ma non di solo surf vive Sea Point: qui i giardini sulla costa pullulano di ciclisti e runner.

Waterfront all'imbrunire

Bella Waterfront, bella Sea Point, ma costruite, artificiali. Non sincere. Ben diversa è la situazione di Clifton, che oltre a possedere una posizione geografica ancora più fortunata, grazie ai pendii della Table Mountain e della Lion's Head che si gettano nell'oceano, ha alcune delle spiagge unanimemente considerate tra le più belle in natura. Sono quattro per la precisione, separate da massi di granito. Vengono contraddistinte da un numero, che indica una spiaggia ben definita. La numero uno e due sono riservate ad attori (molti, tra cui Nicolas Cage, possiedono una villa proprio qui, a Clifton) e modelli. La numero tre è invece dedicata agli omosessuali. La numero quattro è per le famiglie. Oltre ad un discorso di bellezza paesaggistica, le spiagge di Clifton sono anche le più convenienti dal punto di vista del clima: se qui il vento è quasi nullo, a Camps Bay, appena più a sud, si può essere "trascinati" via dal vento.
Anche qui a Clifton, comunque, l'opulenza si fa sentire eccome. Le strade si fanno largo tra due lati di ville lussuosissime e le macchine da cinque zeri (in euro, non in rand) sono tutt'altro che rare.

Le spiagge di Città del Capo dalla Table Mountain

Trovandosi in Sudafrica, una visita a Waterfront e Clifton la consiglio assolutamente. Perché oltre ad essere due aree molto interessanti (Clifton è assolutamente meravigliosa), aiutano a comprendere lo squilibrio sociale del Sudafrica, diviso in due parti non uguali tra ricchi (tipicamente bianchi) e poveri (tipicamente di colore): quanto stride il contrasto tra il nord-ovest di Città del Capo, così ricco e lussuoso, e il sud della città, dove si trovano le bidonville...
Bis bald!
Stefano

lunedì 29 agosto 2016

Berlino Express: sarà colpa del caffè?

Ciao a tutti!
Arrivederci salita, bentornata pianura. Questo è ciò a cui ho pensato quando ho concluso il mio ultimo allenamento sulle ripetute in salita. Ripetere sulla (quasi) piatta superficie di asfalto della Mainradweg può sembrare cosa semplice all'inizio. Chi sa cosa vuol dire correre ripetute con impegno, è conscio che questo non è un allenamento meno faticoso. Perché alla fine questo È l'allenamento principe nella preparazione della maratona.
In quattro anni di allenamenti sono passato dalle semplici serie di 2-3 chilometri a qualcosa di ben più complesso come le serie 30-20-10. Ora, in vista della maratona di Berlino mi complico ancora di più la vita: 120-60-30. Come funziona questo nuovo tipo di ripetuta? Due minuti (i 120 secondi) a ritmo blando, un minuto (i 60 secondi) a "ritmo maratona", mezzo minuto (i 30 secondi) all'intensità massima di corsa. Due serie da nove/dieci ripetizioni, intervallate da un meritato scarico di cinque minuti. Lì per lì ho pensato: il mio allenatore è pazzo, vuol proprio farmi morire stavolta. Perché mi servono almeno sedici chilometri a seduta per terminare un simile allenamento, se non di più. Sedici chilometri di ripetute non credo di averli mai fatti, prima d'ora.

La spinta in più


E invece mi sono dovuto ricredere fin dalle prime battute. La prima uscita, fatta forse a gambe riposate o quasi, è stata decisamente positiva. Innanzitutto per i ritmi che ho saputo mantenere; mi ero prefissato di correre le tre fasi rispettivamente in 4'45"/km - 4'25"/km – 4'00"/km, mentre invece più di una volta, guardando il cronometro mi sono stupito nel vedere ritmi di corsa decisamente più elevati. Ogni tanto, mi sembrava di volare, di correre veramente forte senza neanche faticare eccessivamente. Bene, poi c'è il discorso del recupero. Quei due minuti a corsa blanda, consentono di tirare veramente il fiato, per poter essere nuovamente performante nelle due fasi di corsa più intense. E con mia grande sorpresa (e soddisfazione), ho dovuto constatare che anche nella seconda serie non ho corso più lentamente. Saranno i progressi che si susseguono di anno in anno, oppure è questo un metodo che mi permette di conservare energie? Nei 16,4 chilometri complessivi della prima uscita, ho corso ad un passo medio di 4'25"/km (buono), che però non è numericamente confrontabile con i tempi di un anno fa (4'18"/km), corsi sulla distanza di una dozzina di chilometri.
Miglioramenti, dati alla mano, si sono già visti nella seconda uscita: sulla stessa distanza, ho corso in 4'19"/km. E il dato è ben spiegato dalla distanza percorsa durante la singola serie. Nella prima uscita, le serie hanno coperto 7,27 e 6,96 chilometri; nella seconda uscita 7,51 e 6,98 chilometri. Quasi un quarto di chilometro in più corso semplicemente tra un'uscita e l'altra. La sensazione era quella di correre con grande facilità, soprattutto nella prima serie, e di riuscire a mantenere un bel passo anche nella seconda serie. Ho pensato: quale "doping" mi sta facendo correre così forte? Ho avuto anche paura fosse il caffè del pomeriggio a dare la spinta decisiva. Ma no, quale caffè. Sono solo le mie gambe, niente più.
Bis bald!
Stefano

domenica 28 agosto 2016

Bücher: L'amica geniale

"«Sai cos'è la plebe?». «Sì, maestra». Cos'era la plebe lo seppi in quel momento, e molto più chiaramente di quando anni prima la Oliviero me l'aveva chiesto. La plebe eravamo noi. La plebe era quel contendersi il cibo insieme al vino, quel litigare per chi veniva servito per primo e meglio, quel pavimento lurido su cui passavano e ripassavano i camerieri, quei brindisi sempre più volgari. Ridevano tutti, anche Lila, con l'aria di chi ha un ruolo e lo porta fino in fondo."
Elena Ferrante, L'amica geniale


L'amica geniale non è un opera che ha bisogno di particolari presentazioni o celebrazioni. Indubbiamente è il caso editoriale italiano degli ultimi anni. Chi lo ha letto ne ha parlato come di un capolavoro, si vociferava anche di una candidatura al Nobel. Mia moglie ha atteso gli ultimi volumi con impazienza e da lei ho avuto commenti entusiastici a riguardo. Dunque, era più che naturale che prima o dopo, mi sarei dovuto confrontare con questa serie che han il suo incipit ne L'amica geniale.
A rendere tutto più affascinante è certamente il fatto che l'autrice, tale Elena Ferrante, altro non è che un nome fittizio, dietro il quale non si sa chi si nasconda, né tantomeno ci è dato di sapere se è un uomo o una donna. Confrontarsi con il primo volume di questa serie, è stato anche un po' come provare a confrontarsi con le idee di uno scrittore/scrittrice del quale si sa sostanzialmente nulla.
L'amica geniale è – quantomeno nel primo libro della serie - il racconto di un sentimento, il sentimento reciproco di amore e odio tra Elena Greco (Lenù) e Raffaella Cerullo (Lila), due giovani delle quali viene raccontata l'infanzia e l'adolescenza in una Napoli degli anni Cinquanta. Al centro del libro vi è proprio la contrapposizione tra Elena (la voce narrante) e Lila, due personalità agli antipodi: il loro rapporto, imprescindibile per entrambe, nasce da un legame intellettuale per il quale Lila diventa per Elena la chiave per emerge nel piccolo contesto scolastico prima e nel più ampio percorso di studi, dopo. Unico fine per entrambe, è uscire dall'emarginazione sociale costituita dal rione povero di una Napoli del dopoguerra.
La scrittura è onesta, nel senso di chiara, senza troppi fronzoli, ma efficace. Con un linguaggio semplice, la Ferrante riesce ad delineare meccanismi psicologici tipici dell’essere umano, che sono insiti in ognuno di noi. Sono sentimenti naturali che non è facile, per capacità e coraggio, a manifestare ed ammettere: la colpa, l'invidia, il senso di inadeguatezza e inferiorità.
L'amica geniale, superata una fase iniziale un po' statica, inizia una progressiva e devastante accelerazione che porta naturalmente a voler conoscere l’esito della vicenda (che io, ahimé, dovrò aspettare fino alla fine del quarto romanzo). Ma il vero punto a favore dell’opera della Ferrante è nel dare vita con il solo uso delle parole a personaggi che sembrano veri, in carne ed ossa, essere umani che, pur senza descrizioni particolareggiate, è facile immaginarsi nella propria mente, solo tramite la lettura degli eventi. Anche per questo, è naturale rendersi spettatore della vicenda e aspettare, quasi con ansia, il prossimo colpo di scena.
Se devo trovare una pecca, è la scelta editoriale di spezzare in quattro volumi il romanzo, dettata chiaramente da logiche di incasso. Poi, probabilmente caricato da troppe aspettative, non ho ritrovato in questo primo volume la contestualizzazione storica che avevo immaginato. Ma ci sarà tempo per recuperare con i prossimi volumi, ne sono certo. È questo un libro che consiglio a tutti quanti, ma non solo perché L'amica geniale è buona letteratura, piacere ed intrattenimento. Questa è un'opera che, per l'importanza dei valori del riscatto sociale, dell'emancipazione e della lotta per provare a cambiare in meglio la propria situazione, andrebbe fatto leggere a scuola, accanto a tanti altri classici della nostra letteratura.
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 9/10 

sabato 27 agosto 2016

Berlino Express: una gimkana tra le lumache

Ciao a tutti!
Non di sole ripetute vive un maratoneta. Non bastano gli allenamenti, per quanto intensi essi siano, da una decina di chilometri o qualcosina in più, per preparare una corsa che ne conta quarantadue. Serve allenare la resistenza sulle lunghe distanze e quella viene fuori solo con i lunghi, con le uscite che oltrepassano i venti chilometri all'inizio e sfiorano i quaranta alla fine. Il cronometro al polso serve eccome, per monitorare la propria qualità di corsa, ma non più per vedere ogni quanto devo accelerare o rallentare.

Ostacoli sul percorso... (fonte: camminfacendo.wordpress.com)

La Mainradweg è ovviamente la mia sede di corsa. Poco distante da casa, senza automobili che disturbano, ormai conosco ogni singolo metro nei primi quindici chilometri che iniziano da Schweinfurt in direzione Bamberga. I lunghi di ben tre maratone sono stati corsi qui, naturale che sia così anche per Berlino.
Il lungo era l'allenamento sulla quale performance ero più preoccupato, a causa di una primavera complicata sul profilo della salute personale e per uno stop di tre settimane per motivi di assoluta forza maggiore. Fino a questo momento, invece, ho dovuto ricredermi, perché i tempi fatti segnare nei primi quattro "lunghi" corsi finora sono stati all'altezza di quelli di un anno fa. Anzi, migliori: se sui 18 chilometri non posso fare un confronto obiettivo, sui lunghi da 22-24-27 chilometri non ho che fatto che segnare miglioramenti. Quantificabili in due/tre secondi in meno limati sul passo.

Lunghi da 18 a 28 km, qualche numero

È nell'ultimo lungo - dove forse più si fanno sentire gli effetti benefici delle ripetute in salita - che ho ottenuto i migliori progressi. Nonostante la pioggia, l'asfalto bagnato e il dover continuamente schivare le lumache che mi si presentavano di fronte, ho corso veramente forte, come mai prima. Il dato importante è che sono riuscito a scendere sotto il muro dei 4'30"/km. Passo mai superato in un lungo, passo che garantirebbe un tempo di 3h10' in maratona. Ma è meglio non pensare ancora alla gara. Manca più di un mese e i lunghi più importanti, quelli che massacrano le gambe e forniscono indicazioni più precise, debbono ancora arrivare.
Bis bald!
Stefano

giovedì 25 agosto 2016

Hannoversch Münden

Ciao a tutti!
Una sosta nel lungo viaggio tra il Nord e il Sud della Germania era l'idea alla base della sosta ad Hannoversch Münden, città di ventimila abitanti o poco più posta in quel budello della Bassa Sassonia incastonato tra l'Assia e la Turingia. Voleva essere più una sosta veloce, per sgranchire le gambe e pranzare, invece si è trasformata in una vera e propria visita completa della cittadina. Perché alla fine, un po' per caso, abbiamo scoperto in Hannoversch Münden un piccolo tesoro.

Rathausplatz

Hannoversch Münden ti accoglie con un ponte su uno dei suoi due fiumi. Si, perché questa città è posta sulla confluenza dei torrenti Fulda e Werra, che si uniscono qui per dare vita ad un altro fiume, questo ben più famoso, il Weser. Le acque che ad Hannoversch Münden si congiungono attraversano in seguito tutta la Bassa Sassonia per poi sfociare nel Mare del Nord, a Bremerhaven.
Superato il ponte, inizia un centro storico che è fatto puramente di case a graticcio. Non c'è soluzione di continuità nell'urbanistica di Hannoversch Münden, il cui centro storico, interamente medievale, è costituito da oltre settecento di queste abitazioni. Vie come Langestraße, Mühlenstraße e Tanzwerderstraße sono dei veri e propri inni al tipico edificio tedesco.

Langestraße

Possono essere dritte o inclinate (si, inclinate!), bianche o colorate negli interstizi. Possono avere diverse geometrie nell'intreccio o fantasie nel colore delle travi. Possono avere decorazioni bizzarre, inserti variopinti o iscrizioni in latino (che ne testimoniano la longevità storica). Ma sono una più bella dell'altra. Hannoversch Münden è un'overdose di case a graticcio, un'overdose che ti stordisce a tal punto che i due principali monumenti della città, il rinascimentale Rathaus e il gotico St. Blasius, passano in secondo piano rispetto al magnifico sovrapporsi di travi del centro storico.

Travi che (non) si riflettono

Se non vi ho convinto a fare una capatina ad Hannoversch Münden, beh, allora lasciatevi convincere da qualche prelibatezza gastronomica. Nel pieno centro cittadino c'è un locale che può vantare il titolo di Bratwurst Europameister, campioni europei dei würstel, in ben due edizioni (2011 e 2013). Inutile dire che il locale è preso d'assalto dai turisti. Inutile aggiungere che i miei würstel, nel piatto, sono durati assai poco. Se ancora non vi ho convinto, mi tocca ricorrere alle maniere forti: una carrellata di immagini dal magnifico centro storico di Hannoversch Münden. Fotografie che parlano da sole.


























Bis bald!
Stefano

mercoledì 24 agosto 2016

Arrivo a Victoria Falls

Ciao a tutti!
Pensavamo di trovare l'Africa più vera in Sudafrica, ma è stato così solo in parte. Un piccolo assaggio l'abbiamo avuto nei primi giorni nel nord-est del paese, nella regione dello Mpumalanga (vedi post), una delle più povere del Sudafrica. Ma in Zimbabwe, dove abbiamo proseguito nel nostro viaggio africano, abbiamo trovato un angolo di Africa più simile a ciò che ci eravamo aspettati. In fondo parliamo di una nazione poverissima, tra le più povere e disagiate in assoluto al mondo (185° per PIL pro capite e 173° per indice di sviluppo umano).

Primati per la strada
Ci era stato detto che avremmo trovato un aeroporto un po' particolare a Victoria Falls. Invece non è affatto così: anche grazie agli introiti turistici, il piccolo aeroporto, posto ad una manciata di chilometri dalla località celebre per la vicinanza alle omonime cascate, è un bell'edificio, veramente curato, pulito e all'avanguardia. Altro che le piste sterrate che ci eravamo aspettati...
Un modulo, da compilare con i nostri dati, ci attende: è la procedura per ottenere il visto di ingresso. Le forze dell'ordine sono simpatiche e disponibili, il doganiere non lo è altrettanto, ma sfido ad essere cordiali quando si lavora ininterrottamente con il timbro in mano. Un po' di coda, qualche timbro, 30 dollari americani (qui la moneta locale è così svalutata che non la stampano più...) e ancora un ulteriore controllo ai nostri bagagli: siamo finalmente in Zimbabwe.

Una strada dello Zimbabwe

Nella hall dell'aeroporto c'è una schiera di autisti e di altrettanti cartelli da esporre ai turisti appena sbarcati in Zimbabwe. Quest'area vive di turismo, e il servizio di taxi e navette costituisce una bella fetta dell'impiego locale. Anche qui a Victoria Falls, dove comunque si sta meglio che in altre zone del paese, ci si arrangia un po' come si può. C'è chi ha un lavoro fisso e relativamente redditizio, magari presso uno dei lodge presso cui pernottano i turisti. Molti altri, la maggioranza, si devono arrabattare come meglio riescono. Ufficialmente, in Zimbabwe, il tasso di disoccupazione tocca vette fino al 90%.

Facoceri in giardino

All'aeroporto, ad esempio, ci aspetta un gruppo di ballerini e musicisti che danno vita ad uno spettacolo tribale. Molto coinvolgente, tra l'altro. Alla fine dello spettacolino, chiedono sostegno economico chiedendo un'offerta o di acquistare la compilation delle loro canzoni. Ma gli episodi più frequenti sono capitati in città o presso le cascate, dove bambini e ragazzini, con insistenza ma con cortesia, provano a rifilare qualche souvenir. Una giraffa in legno, una sciarpa, una banconota da un miliardo di dollari (dello Zimbabwe). Tutto ciò che può essere rifilato ai turisti va bene...

Danza in aeroporto

Il pulmino che ci porta in hotel è veramente un pezzo di antiquariato dei motori, un Toyota Coaster che risalirà agli anni '80, sembra più scassato che intero. Ma sulle strade dello Zimbabwe va che è un piacere. Strade asfaltate, si. Ma solo le piste principali, come quelle che collegano aeroporto, città e cascate. Il resto? Ogni strada secondaria che si dirama a partire da quella principale è sterrata. Ai bordi della strada, oltre alle scimmie e ai babbuini che popolano la savana, è facile vedere uomini che appartengono ad una realtà che per niente assomiglia a quella occidentale. Bambini in divisa che vanno a scuola raggiungendo la fermata più vicina del bus (che magari distano chilometri l'una dall'altra), donne con carichi assurdi sulla testa, bancarelle improvvisate. Folclore a cui non siamo abituati.
Mezzi di trasporto? Di auto ce ne sono, e non poche. Auto che girano, decisamente meno. Molti pulmini (per i turisti) e bus di linea. Dove vige la miseria, laddove i bus non possono arrivare, le gambe sono ancora il mezzo di locomozione preferito, che si cammini o si pedali.

Bici come mezzo di trasporto merci.

Nel mentre che rimaniamo a bocca aperta di fronte ad un branco di babbuini che impunemente tagliano la strada a tutti i mezzi motorizzati, l'autista ci racconta qualcosa sullo Zimbabwe. Tra cui anche qualche dettaglio sulla situazione politica del paese. La "Repubblica Democratica dello Zimbabwe", quella che decenni fa era sotto il controllo inglese con il nome di Rhodesia, è governata dal 1980 dallo stesso uomo. Robert Mugabe, per la precisione. "Beh, allora è una dittatura, non una democrazia", commento sottovoce. Il mio commento è veritiero. Pure Wikipedia me lo conferma: se de iure è una repubblica presidenziale, de facto è un regime autoritario.

Ragazzine di ritorno da scuola

Nel mentre ci avviciniamo al villaggio di Victoria Falls. È facile da capire, basta vedere il fumo che si alza dalle cascate. Il villaggio mostra anche qualche tratto occidentale, dovuto al benessere indotto dal turismo. Turismo che ha anche sostanzialmente azzerato la criminalità. La popolazione sa bene che la criminalità allontana il turismo. Se un turista venisse toccato, sarebbe l'inizio della fine di Victoria Falls. Per questo, l'autista ci dice che la cittadina, pur nella povertà, non è assolutamente pericolosa per i turisti.

Insegne scassate...

In hotel, ci accorgiamo di come la natura qui sia qualcosa di imparagonabile. Nello spazioso prato delimitato dal fiume Zambesi è dai lodge, i facoceri pascolano sereni. Sui balconi si aggirano babbuini (i babbons!) alla ricerca di cibo. Alla sera, bisogna fare attenzione ai coccodrilli in caccia. Insomma, natura selvaggia anche nei luoghi apparentemente più antropizzati. Guai ad uscire dai lodge di notte: il rischio, come è successo in passato a qualche turista, è quello di rimanere sbranati dai leoni.

...per ferrovie scassate

Nei nostri due giorni di Zimbabwe sono stato colpito in più direzioni. In primis dallo spirito di queste persone. Fuori dai lodge, ma anche in città, dove si respira aria di precarietà e indigenza, le persone sono tutte cortesi. Con gentilezza, prima ti salutano con un "Good morning, how are you?", poi chiedono quello che vogliono. O a volte lo fanno così, perché è nel loro spirito. I loro nomi ispirano fiducia, tranquillità, armonia: la guida che si chiama Happiness, l'impiegata che di nome fa Peace, l'addetta alle pulizie Flower. Non sono casi, sono nomi per noi curiosi ma diffusi.
Poi c'è il contrasto tra l'opulenza delle isole turistiche "occidentali" e il resto del paese (alla quale avevo già accennato in un precedente post). Anche nella più prospera (rispetto al resto dello Zimbabwe) Victoria Falls la differenza è stridente. Nei lodge, per esempio, il verdissimo prato centrale è innaffiato ventiquattro ore su ventiquattro, c'è cibo in abbondanza, non c'è lusso ma molto benessere. Fuori, è tutto arido - complice un inverno più secco del solito - così arido che la vegetazione sembra morta. Fuori, la gente combatte una lotta per due spiccioli che consenta loro di sfamarsi e di sfamare. Fuori, c'è la povertà, la vera povertà - qualcosa che anche in Italia, uno dei paesi più "poveri" dell'Unione Europea, non conosciamo.

Siccità

In soli due giorni di permanenza in Zimbabwe è normale che non tutto ci sia completamente chiaro. Credo che quello che qui abbiamo avuto modo di vedere non rispecchia a pieno il vero dramma dello Zimbabwe, del continente africano. Forse è per questo che al ritorno in Europa, felici perché consci di aver vissuto giorni meravigliosi, ci rendiamo comunque conto di essere tormentati da qualche senso di colpa (se possiamo chiamarli così). Una volta rientrati, però, ricomincia tutto come prima. Noi abbiamo molto, probabimente tutto. Loro niente, sicuramente pochissimo. Che giustizia è questa? No, la giustizia non esiste su questo mondo. Semplice utopia, una chimera sulla bocca di troppe persone.

martedì 23 agosto 2016

Lasciamoci emozionare: Rio 2016

I Giochi sono finiti, viva i Giochi, direbbe qualcuno. Eh si, vivano per sempre i Giochi, due settimane di appassionanti sfide tra le nazioni che ogni quattro anni, ma come poche altre manifestazioni sportive, riescono a tenermi incollato al televisore. I quindici giorni di Olimpiadi sono trascorsi più rapidamente della folgore, alla fine con un buon bottino di medaglie per i colori italiani: otto ori, dodici argenti e otto bronzi. Ventotto medaglie, nel complesso che ci garantiscono la permanenza nell'élite dello sport mondiale (la nona posizione del medagliere): potevano essere qualcuna in più (ma anche qualcuna in meno), potevano essere più pregiate. Vero, ma alla fine quel che conta sono le emozioni che i nostri atleti ci hanno fatto vivere. E quelle sono sempre meravigliose, indipendentemente dal loro numero. Ogni medaglia è una lezione, di sport e di vita. Ogni medaglia è un messaggio importante per chi pratica sport a qualsiasi livello, ma non solo.
Cosa ci lascia quest'Olimpiade tricolore? Ci insegna come la pressione e le attese possano giocare brutti scherzi (Chamizo, Pellegrini), ma a volte siano il trampolino verso grandi successi (Paltrinieri). Ci insegna che i secondi posti, le medaglie d'argento, possano valere come oro quando l'avversario è superiore (Italvolley, Setterosa, beach volley), ma anche che siano sintomatici di scarsa convinzione o appagamento (i tre argenti nella scherma). Ci insegna che nulla è scontato nello sport, e un briciolo di ignoranza in più a questi livelli fa la differenza (Basile, Garozzo). Ci insegna che fare sport è bellissimo a qualsiasi età e remunerativo sia da giovani (Rossetti) che - perdonatemi il termine -  da "vecchi" (Pellielo, Innocenti). Ci insegna che anche le mamme possono vincere (Bacosi, Cainero)). Ci insegna che il fattore umano, soprattutto in una squadra, è imprescindibile (pallavolo, pallanuoto e canottaggio). Ci insegna che le maledizioni, la sfortuna e le medaglie di legno possono finire (Cagnotto, Viviani, Bruni) o possono non finire mai (Ferrari).
Grazie quindi a tutti gli atleti (e agli italiani soprattutto per ragioni di bandiera), per i grandi momenti vissuti in queste due settimane. Momenti che si spera di rivivere tra quattro anni a Tokyo ma che sicuramente non verranno dimenticati. Io voglio ricordarli così, con una mini-"rassegna stampa" sui grandi momenti dell'Italia alle Olimpiadi di Rio de Janeiro 2016.
Bis bald!
Stefano


Rossella Fiamingo (scherma), argento nella spada individuale femminile
La saggia della scherma invece le ha scritto di come questo argento ora forse un po' amaro sarà apprezzato con l'esperienza. «La ringrazio. Per un attimo ho pensato di diventare come Valentina, mi sono illusa...».
Mauro Casaccia, La Stampa, 7 agosto 2016

Gabriele Detti (nuoto), bronzo nei 400 metri stile libero maschili
Anni passati a scherzare davanti a risultati sempre più importanti e quando arriva la medaglia olimpica non c'è nemmeno la forza di guardarla. Gabriele Detti si trasforma sul podio dei 400 stile libero, timido, incredulo, stupito da una gara che è andata esattamente come se l'era immaginata eppure era tutta diversa.
Giulia Zonca, La Stampa, 7 agosto 2016

Elisa Longo Borghini (ciclismo), bronzo nella corsa in linea femminile
Il ciclismo toglie, il ciclismo dà. Almeno all'Italia, che ieri ha perso una medaglia quasi certa con lo sfortunatissimo Vincenzo Nibali e oggi ne conquista una di bronzo a un certo punto insperata con Elisa Longo Borghini.
Lorenzo Vendemiale, Il Fatto Quotidiano, 7 agosto 2016

Odette Giuffrida (judo), argento nella categoria 52 kg femminile
A cinque anni Odette Giuffrida sognava di diventare una leggenda del nuoto. Ma un timpano perforato la mise davanti a una scelta. I genitori volevano che cambiasse sport. Provò con la danza classica e la ginnastica. Un giorno, vide il sorriso con il quale suo fratello maggiore tornava a casa ogni sera dalla palestra di judo. «Appena mi tolsi le scarpe per salire sul tatami capii che non ne sarei mai scesa. Per me non è una questione di agonismo, ma di felicità. Lì sopra sto bene, mi sento me stessa».
Marco Imarisio, Corriere dello Sport, 8 agosto 2016

Tania Cagnotto e Francesca Dallapé (tuffi), argento nel trampolino 3 metri sincro femminile
La medaglia di una vita, del risarcimento, di tutto. Tania Cagnotto completa un ciclo che è fatto di 10 Olimpiadi (5 per parte insieme a papà Giorgio) e trova la gemma più preziosa con Francesca Dallapé, la compagna e amica di un sincronizzato da 3 metri che è imbattuto in Europa da otto edizioni, ha preso due argenti mondiali e dopo il quarto posto beffardo di Londra si prende con gli interessi il podio. Rompe un sortilegio, porta per la prima volta sul podio le donne d'Italia. Un altro tabù che s'infrange. Chiamatela storia. In un pomeriggio uggioso, plumbeo e minaccioso a Rio, le lacrime e i sorrisi delle sorelle d'Italia irradiano la piscina Maria Lenk, che diventa un catino ribollente di passione.
Stefano Arcobelli, La Gazzetta dello Sport, 8 agosto 2016

Fabio Basile (judo), oro nella categoria 66 kg maschile
Dal buio alla luce in un anno e Fabio Basile ha messo la sua firma sullo sport italiano di tutti i tempi. Sua la medaglia d'oro numero 200 dell'Italia. «È stato un anno allucinante. Lo sapete che solo un anno fa non ero neanche nel ranking mondiale? Mi stavo bruciano. Ma sono riuscito a trasformare la sofferenza e il dolore in armi da usare sul tappeto contro i miei avversari. In tanti mi dicevano di smettere, che non sarei mai diventato un campione: ecco questa medaglia la dedico anche a loro. La vedete questa medaglia d'oro al collo?». La vede tutto il mondo.
Mauro Casaccia, La Stampa, 8 agosto 2016

Daniele Garozzo (scherma), oro nel fioretto individuale maschile
"Questa sera mi sono sentito Pelè", e se si può vivere un momento così, di puro delirio, è giusto lasciarsi andare.
Mattia Chiusano, La Repubblica, 7 agosto 2016

Niccolò Campriani (tiro), oro nella carabina 10 metri ad aria compressa maschile
Forse era già tutto scritto: Niccolò Campriani ha sparato nella finale della carabina con bersaglio a 10 metri dalla corsia F. Come Firenze e Fiorentina, la sua città e la sua squadra del cuore. Non poteva andargli male.
Roberto Condio, La Stampa, 9 agosto 2016

Giovanni Pellielo (tiro), argento nella fossa olimpica maschile
Su Johnny puoi contare sempre. Quando ha quegli occhi di solito porta a casa medaglie d'oro, d'argento o di bronzo. Gli riesce da quando ha 18 anni e la sua collezione comprende titoli mondiali ed europei, individuali e a squadre, impilati come un giocatore scaltro davanti a un croupier.
Antonino Morici, La Gazzetta dello Sport, 10 agosto 2016

Marco Innocenti (tiro), argento nel double trap maschile
Chissà che effetto gli ha fatto essere l'argomento più dibattuto su Twitter: alle 22 italiane, si parlava di #Innocenti più che di #TrofeoTim e #stellecadenti. Se l'è meritato, il piattello quando si rompe lascia una scia fucsia e Marco in un pomeriggio ne ha spaccati 187. Chi le ha mai viste 187 stelle cadenti fucsia in un giorno solo?
Luca Bianchin, La Gazzetta dello Sport, 11 agosto 2016

Elisa di Francisca (scherma), argento nel fioretto individuale femminile
Vincere un'Olimpiade è difficile, ripetersi sarebbe stato leggendario. "Se rivinco l'oro smetto di fumare e vado ad ubriacarmi di caipiroska”, aveva sentenziato alla vigilia. I peggiori bar di Rio, avvisati, devono essersi assicurati con Inna Deriglazova che il progetto non andasse a buon fine.
Stefania Grimoldi, La Gazzetta dello Sport, 10 agosto 2016

Marco Di Costanzo e Giovanni Abagnale (canottaggio), bronzo nel 2 senza maschile
La barca "Ogm" del remo tricolore, l'esperimento last-minute del "Dottor" Giuseppe La Mura, ha fatto centro. I gufi e le Cassandre erano in agguato, pronti al requiem. Il due senza nato solo un mese fa rimettendo assieme come pezzi di meccano gli atleti degli armi azzurri ha centrato un bronzo mozzafiato nelle acque di Rodrigo Freitas e salvato (per ora) il bilancio del tribolato canottaggio italiano.
Ettore Livini, La Repubblica, 12 agosto 2016

Matteo Castaldo, Matteo Lodo, Domenico Montrone, Giuseppe Vicino (canottaggio), bronzo nel 4 senza maschile
Un bronzo che vale oro anche perché conquistato da vero gruppo, da tutta la squadra, atleti e staff. Le scelte tecniche del mister da una parte e la  forza e la determinazione dei ragazzi dall'altra, che in acqua hanno saputo mettere in atto una rimonta epica ai danni del Sudafrica.
Marta Daveti, Quotidiano.net, 12 agosto 2016

Diana Bacosi e Chiara Cainero (tiro), oro e argento nello skeet femminile
La sveglia, l'asilo, i compiti, la scuola, la cucina, i mariti, i suoceri. Provateci voi a metterci dentro pure i piattelli, il fucile e il poligono, nell'ordinaria quotidianità di due mamme italiane. Ebbene, Nadia Bacosi e Chiara Cainero, a forza di provarci, di volerlo fare, ce l'hanno fatta. E con discreti risultati, a vedere quello che è successo al poligono olimpico di Rio
Dario Ricci, Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2016

Gabriele Rossetti (tiro), oro nello skeet maschile
Da quando ha tirato fuori il fucile dalla custodia a quando l'ha sollevato al cielo in segno di trionfo, Rossetti non ha sbagliato nulla: non un solo piattello ha avuto la grazia di planare intatto a terra. Nuvolette rosa si sono susseguite a nuvolette rosa, per tutto il giorno, in qualunque fase della gara, qualificazione, spareggio, finale, duello. Poveri piattelli, nessuna pietà.
Marco Mensurati, La Repubblica, 14 agosto 2016

Tania Cagnotto (tuffi), bronzo nel trampolino 3 metri femminile
La sconfitta che diventa stimolo, la sofferenza che si trasforma in un fuoco che ti impone di svegliarti ogni mattina e continuare ad allenarti in quella mezza piscina di Bolzano, anche quando dall'altra parte i bambini sullo scivolo fanno confusione o ci sono le vecchiette dell'aquagym. Sacrifici. Fisici ma soprattutto mentali, perché sai che stai lottando per un traguardo incerto e magari stai rimandando momenti importanti della tua vita - come un matrimonio, come un figlio - per rincorrere quella che potrebbe essere una semplice chimera. Ma poi arrivi, arrivi davvero, e ti vengono i brividi. Prima la medaglia - sofferta e combattuta - che ti fa sospirare, bellissima perché cancella in un attimo tutta l'amarezza del passato e anche perché la condividi con la compagna di una vita in piscina. Poi la medaglia gioiosa, quella che vinci proprio perché non hai più niente da perdere, con un ultimo tuffo che vola altissimo, perché sai che deve essere la tua firma su qualcosa di speciale. E così alla fine riesci anche a mettere d'accordo i giudici e la soddisfazione di aver fatto una grande gara si trasforma in una gioia fantastica, tanto che non riesci a smettere di sorridere. Tania Cagnotto è l'atleta più amata d'Italia perché tutti noi ammiriamo non solo il suo talento, ma anche la sua umanità, la sua semplicità, la sua giovialità. Ammiriamo il modo in cui ha superato le difficoltà che ha dovuto affrontare ogni giorno crescendo in uno sport povero come i tuffi, il modo in cui si è messa alle spalle le sfighe che le sono capitate più d'una volta in carriera e la tenacia con cui ha saputo proseguire per la sua strada. Vedendola trionfare, e trionfare ancora, ci regala al tempo stesso una soddisfazione patriottica e un segnale di speranza. Perché anche in questa società piena di valori ambigui il sacrificio e la perseveranza pagano ancora, nello sport e nella vita, e i sogni - a volte - si avverano.
Luca Stacul, Eurosport, 15 agosto 2016

Gregorio Paltrinieri e Gabriele Detti (nuoto), oro e bronzo nei 1500 metri stile libero maschili
A 21 anni il destino da olimpionico di Gregorio Paltrinieri è finalmente compiuto. Quello che tutti gli avevano pronosticato quando era soltanto un ragazzino, e a 17 anni già partecipava ai suoi primi Giochi a Londra 2012. Quello che anche lui ha atteso e sognato, ogni giorno degli ultimi quattro anni, sapendo di essere il più forte di tutti. Ma poi diventarlo per davvero, alle Olimpiadi, è un'altra storia.
Lorenzo Vendemiale, Il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2016

Niccolò Campriani (tiro), oro nella carabina 50 metri tre posizioni maschile
È l'immenso questo titolo olimpico di Niccolò Campriani, due medaglie a Londra, due qui, ma la tranche agonista lo blocca quasi. Sul podio sussurra appena l'inno, si sfiora il capo, come dire "ma che sta succedendo, è per me questo inno?". È per Niccolò, l'ingegnere che si costruisce la morsa per le cartucce, l'atleta dal sorriso timido, dalle parole misurate, e anche per Petra, la sua fidanzata. Niccolò, rompendo con molto discrezione il cerimoniale, raggiunge Petra che lo segue e lo fotografa affacciata alla balaustra che contiene il pubblico, la bacia e la abbraccia, quasi a dire: "E' per te, amore mio". E' un oro di gioia.
Maria Luisa Colledani, Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2016

Andrea Santarelli, Marco Fichera, Enrico Garozzo e Paolo Pizzo (scherma), argento nella spada a squadre maschile
Quando Enrico Garozzo ha visto suo fratello Daniele sulla terrazza della Cnn affacciata su Copacabana deve averlo invidiato non poco e poi pensato che, se anche non alla Cnn, un'intervista con una medaglia al collo non sarebbe stata poi così male. Non è arrivata la Cnn, ma la medaglia sì. Non è l'oro che sperava per eguagliare il fratello, ma un nobile argento vinto insieme con Raffaele Fichera, Paolo Pizzo e Andrea Santarelli.
Paolo Brusorio, La Stampa, 15 agosto 2016

Rachele Bruni (nuoto), argento nei 10 chilometri
L'ultimo chilometro è un incontro di boxe più che una maratona del nuoto. Rachele Bruni ne esce con una medaglia, conquistata dopo 4 quarti posti Mondiali, con una grinta da applausi. Ha dovuto nuotare, picchiare, difendere e resistere.
Giulia Zonca, La Stampa, 15 agosto 2016

Elia Viviani (ciclismo), oro nell'omnium maschile
Un oro atteso 20 anni. E finalmente eccolo. Meraviglioso, come sa esserlo un oro cercato così a lungo. Elia Viviani se lo mette al collo quattro anni dopo la beffa più atroce della sua carriera, compagna di tante sue notti insonni: da primo a sesto nell'ultima prova dell'omnium di Londra, dal sogno di un podio a portata di mano all'incubo di una medaglia olimpica sfumatagli davanti al naso.
Paolo Marabini, La Gazzetta dello Sport, 15 agosto 2016

Daniele Lupo e Paolo Nicolai (beach volley), argento nel torneo maschile
Il Lupo (Daniele) non ce l'ha fatta. Con il compagno Paolo Nicolai ha sognato fino all'ultimo istante il lieto fine della bella fiaba del beach volley italiano alle Olimpiadi. Copacabana, però, è riserva di caccia all'oro dei brasiliani. E non si è mai visto una favola finire bene per i lupi.
Ettore Livini, La Repubblica, 19 agosto 2016

Nazionale di pallanuoto, argento nel torneo femminile
Galleggia per il Setterosa una bellissima medaglia d'argento, quella d'oro si è inabissata subito sul fondo dell'Olympic Aquatics Center e proprio non potevamo ripescarla. Non c'è stato proprio niente da fare, insomma, se non provare a farlo. Ma essere troppo delusi sarebbe assurdo oltre che ingeneroso. Nello sport ci sono quelli più forti di te, anche molto più forti, e normalmente vincono.
Maurizio Crosetti, La Repubblica, 22 agosto 2016

Nazionale di pallanuoto, bronzo nel torneo maschile
Poteva essere la gara delle pile scariche, ma il Settebello ha sette vite e nell'acqua di Rio non ha mai perso anima e gol. Il bronzo non è un metallo pallido per la nazionale di pallanuoto che nella storia ha regalato più medaglie che delusioni: e anche dopo aver mancato la finale per il titolo che l'Italia in calottina nella sua lunga vita ha comunque vinto tre volte, nel match di consolazione con il Montenegro ha tirato fuori la stoffa dei vincenti mettendo così ancora una volta i piedi sul podio.
Corriere dello sport, 20 agosto 2016

Frank Chamizo (lotta libera), bronzo nella categoria 65 kg
Ha pianto per il dolore, per quella discussa decisione dei giudici nella semifinale persa contro l'azero, per quante ne ha passate sino ad arrivare qui da favorito. "Volevo l'oro per l'Italia che mi ha dato un'altra vita" e si è sentito quasi in colpa per non esserci riuscito: ma è stato grande Chamizo, ha stretto i denti e salito sul materassino per la medaglia di consolazione, un bronzo pesante con il quale prosegue la serie di un anno di successi. Dai Giochi europei di Baku ai Giochi di Rio è stata una scalata. "Ci riproverò a Tokyo". Avrà 28 anni, avrà un'altra seconda chance. Per uno che è nato e ha sofferto a Cuba quasi gli stenti, essere il terzo ai Giochi è un riscatto anche morale.
Stefano Arcobelli, La Gazzetta dello Sport, 21 agosto 2016

Nazionale di pallavolo, argento nel torneo maschile
Ieri non c'era un bar in cui, supportati anche dalle prime pagine dei principali quotidiani, non si parlasse dei missili e degli aces dello Zar, delle bombe del cubano Juantorena, del giovane Giannelli. Personaggi e atleti professionisti, protagonisti di prim'ordine nel nostro panorama ma che purtroppo non hanno la giusta risonanza tra il pubblico medio, quello che si interessa di poche discipline e che magari guardava i giganti della pallavolo storcendo il naso. Questo gruppo probabilmente non ha riscritto la storia sul campo (anche se un argento olimpico è tutto tranne che una sconfitta), non si è consacrato alla leggenda ma ha risvegliato gli animi. Generazione dei Fenomeni, Eroi di Anastasi, Conquistadores do Brasil: c'è un filo conduttore tra il 1996, il 2004, il 2016. Non è l'argento. Ma è il premio "affetto del pubblico”, quello che neanche la miglior giocata può offrirti. E forse vale più di tutto.
Stefano Villa, Eurosport, 22 agosto 2016

lunedì 22 agosto 2016

22 agosto 1955 - Dru, la salita impossibile

"Solo ora sento di possedere una valida unità di misura per poter comprendere l'intensità di ciò che ho vissuto quassù. La montagna, le sue rocce, il vuoto erano diventate cose così vive in me da farmi giungere persino, poco alla volta, a compenetrare in loro, a sentirle inconsciamente parte di me stesso tanto da formare con esse un unico corpo. Ora invece, che come in un risveglio posso staccarmi da queste sensazioni e riconciliare i loro valori con la realtà, mi sembra persino di aver sfiorato l'idea di esser sempre vissuto su questa montagna, col solo scopo di soffrire e di salire verso la vetta eternamente irraggiungibile. Per la prima volta sento di avere in pugno il Pilastro del Dru, di aver varcato la barriera che mi separava dalla mia anima e provo un gran desiderio di piangere e di cantare."
Walter Bonatti, Le mie montagne

L'imperioso Dru (fonte: sweclimber. wordpress.com)

Quando si parla di Dru un solo nome può venire alla mente, quello di Walter Bonatti. Il Dru è la montagna che lo fece grande, il Dru è un pugnale di roccia ardita al quale Bonatti si è legato per sei giorni. E al quale Bonatti ha legato il suo destino, di uomo ancor prima che di alpinista. Il fascino che il Dru rilascia negli alpinisti è notevole, soprattutto il pilastro sud-ovest del Petit Dru (che assieme al Grand Dru compone le Aiguilles du Dru). È la parete più impraticabile, una provocazione, una sfida ai limiti dell’impossibile. Il gusto della competizione con l’impossibile è quasi una scelta di vita per Bonatti, che da parecchio tempo ha in mente questa salita. Già nel 1953, prima della spedizione italiana al K2, abbozza il primo tentativo con il fidato compagno di cordata Mauri, ma i parecchi giorni trascorsi in parete, il maltempo, le difficoltà evidenti, consigliano i due a ritirarsi dal tentativo. Ritenta nel luglio 1955 con altri tre fortissimi alpinisti: Mauri, Aiazzi ed Oggioni. Anche stavolta il maltempo (e un piccolo incidente ad Oggioni) rovina i piani di Bonatti, e la ritirata è l’unica via possibile.

I versanti ovest/sud-ovest del Dru. Molto visibile la frana datata 2005 che ha cancellato la via Bonatti (fonte: wikipedia. org)
Il caso del K2, conquistato da Compagnoni e Lacedelli un anno prima, ha manda in crisi Bonatti, molto più dal punto di vista umano ed esistenziale, piuttosto che alpinistico. Il Dru vuole essere per Bonatti la via per riconciliarsi interiormente, per mettere la parola fine su un periodo che, seppur ricco di contenuti alpinistici, era stato vuoto di emozioni per Bonatti. Egli stesso racconta ne Le mie montagne come una improvvisa resurrezione lo coglie dopo il fallimento nell’ultimo tentativo: "Improvvisamente, come una folle idea generata dalla depressione morale, penso di ritornare sul Dru, di vincere da solo e mi impongo di credere che non è vero che sono un uomo finito. Col passare dei giorni, quello che avevo definito un folle proposito diviene via via un raggio di luce, di speranza e infine di fede e, non molto tempo dopo, si può dire che nella mia mente non esiste altro pensiero che quello di scalare il Dru da solo. Più volte mi vedo sospeso sulle sue rocce, lungo il suo canalone, le placche del suo Ramarro e una fiducia quasi miracolosa mi fa credere che ciò è possibile e che deve avvenire. Quasi per incanto, persino le Placche Rosse non sono più così spaventose; riuscirò dunque veramente a riscattare me stesso?"

Da La Stampa del 21 agosto 1955

E dunque, Bonatti sceglie di percorrere in solitaria la lunga salita verso la cima del Dru lungo il pilastro sud-ovest, la sua personalissima soluzione per risorgere dalla sua più cupa crisi interiore. Con sé ha una quantità sconcertante di materiale: ottanta chiodi, due martelli, una piccozza, quindici moschettoni, tre staffe, due corde da quaranta metri e sei cunei di legno. Attrezzatura di sessant'anni fa: io mi chiedo, oltre ai viveri, quanti chili trasportava nel suo sacco?
Con grande intensità Bonatti risale il pilastro sud-ovest in totale solitudine. Ma è una salita durissima. Lo sarebbe per una cordata di grandi scalatori, lo è ancora di più per un uomo solo di fronte ad un muro di granito. La scalata è ovviamente condizionata dalla solitudine. Le manovre sono lente, la progressione è rallentata, in quanto in solitudine si deve aprire la via, scendere, recuperare il materiale e schiodare. Bonatti inventa addirittura un nuovo tipo di assicurazione in parete, come scrive ne Le mie montagne: "Ne ho scoperta una in cui il sacco ha una parte importantissima e da allora non sono più salito di un metro senza prima aver adottato questo sistema, che in seguito chiamerò «a Z». Dopo aver assicurato a un chiodo il sacco attaccato a un capo della corda, mentre io sono attaccato all'altro, riduco d'un terzo il tratto di corda che mi separa dal sacco stesso, facendo un nodo che fisso alla cintura, sulla schiena. Questa manovra mi permette di avanzare, quasi come se fossi attaccato a un compagno di scalata perché, se cadessi, la mia caduta non potrebbe essere maggiore del doppio del tratto di corda che mi lega al chiodo al quale sono ancorato, e il sacco fungerebbe da contrappeso."

Liscia, verticale, come nient'altro (fonte: summitpost.org)

I primi quattro giorni di salita sono inoltre funestati dalle ferite multiple che Bonatti si procura alle mani nell'intento di piantare i chiodi, da una borraccia di alcol che danneggia buona parte dei viveri, e anche da un po' di maltempo, immancabile ad alte quote.
E poi c'è il peso dello scalare in solitudine. Quando solo la roccia e il cielo ti circondano, è un peso che è un macigno. Scrive Bonatti: "La solitudine che mi accompagna è così assoluta, allucinante, che più volte mi sorprendo a parlare inconsciamente, a fare considerazioni ad alta voce, a tradurre insomma in parole tutti i pensieri che attraversano la mia mente. Mi trovo persino a discorrere col sacco, come avesse un'anima, come fosse un vero compagno di cordata."

Con il n.5 la via Bonatti al pilastro sud-ovest del Dru (© Antonio Passaseo)

La chiave di volta arriva durante il quinto giorno. Dopo una serie di tre pendolate effettuate per raggiungere una fessura considerata la via migliore di salita, Bonatti si ritrova una muraglia completamente liscia di roccia. Non ci sono fessure, né a sinistra né a destra. Non c'è via di scampo. Pendolare nuovamente non è più possibile. Salire ancora nemmeno. Scendere in corda doppia, con lo strapiombo che incombe sotto i piedi, è garanzia di morte sicura. Bonatti è bloccato in parete. In un'intervista, disse: "Fu tale la disperazione che rimasi inchiodato per più di un'ora ad un chiodo, io e il sacco, incapace di muovermi. Prima pensai, in un momento di debolezza, di lasciarmi morire, e poi in fondo, avevo lottato quattro giorni e quattro notti per vivere, non potevo di certo lasciarmi morire così."

Da La Stampa Sera del 23 agosto 1955

Bonatti intravede una dozzina di metri sopra di lui delle rocce appuntite, nelle quali vede la possibilità di agganciare dei nodi fatti con la corda. Raccoglie dunque tutta la corda a disposizione, annoda un grappolo all'estremità e lo lancia verso queste roccette, a mo' di lazo, nella speranza che si incastri. I tentativi sono svariati, ma senza successo perché la corda continua a cadere. Poi, dopo una decina di prove, il nodo fa presa. Rimane un unico dubbio: riuscirà quel nodo, incastrato tra le rocce a reggere il peso di un uomo in caduta libera? Non rimane che provare: "Trattengo il respiro e scivolo nel vuoto, così, in pendolata verso destra. Per qualche secondo ho la sensazione di precipitare, poi il volo si smorza e avverto quasi subito che sto iniziando la contropendolata a sinistra. L'ancoraggio ha tenuto! Sono attimi in cui cento pensieri, fulminei, si affacciano alla mente con assoluta chiarezza e si imprimono nell'anima per tutta una vita" (da I miei ricordi).

Da La Stampa del 24 agosto 1955

Il grande ostacolo è superato, il Dru è nelle mani di Bonatti. Quasi. Il Dru, nel suo pilastro sud-ovest è una montagna difficilissima e tale rimarrà per tutta la via seguita da Bonatti, il quale si ritrova a dover affrontare ancora numerosi strapiombi in arrampicata libera, tra cui anche gli ultimi cinquanta metri. Ma la forza nell'aver sconfitto la disperazione, la morte che incombeva, gli dà una carica inarrestabile.
Alle 16.37 del 22 agosto 1955, Bonatti vince la sua sfida solitaria di sei giorni e cinque notti con il Petit Dru, lungo quello che fu poi chiamato il pilastro Bonatti (crollato nell'estate 2005 - dunque la via non è più percorribile), una conquista che è considerata uno dei più grandi exploit della storia dell'alpinismo. Da quel momento Bonatti diventerà una celebrità nel mondo della montagna e raccoglierà tutta l'ammirazione della comunità alpinistica. È sul granito del Dru, dunque, che Bonatti diventa il grande alpinista che tutti conoscono.

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