domenica 31 luglio 2016

31 luglio 1954 - K2, a tu per tu con la morte

"Quella notte sul K2, trail 30 e il 31 luglio 1954, io dovevo morire. Il fatto che sia invece sopravvissuto è dipeso soltanto da me."
Walter Bonatti, K2 - La verità
 
Il campo VIII lungo la salita al K2 (© Archivio Lino Lacedelli)

C'è impresa e impresa. Lo è sempre salire una vetta alpina mai calcata dall'uomo, lo è il più delle volte aprire una via nuova. Bonatti di imprese di questo genere ne ha firmate parecchie, sia di prime ascensioni (Grand Capucin, Gasherbrum IV) che di vie nuove (Dru, Cervino). Nel 1954 una straordinaria impresa, di quelle con la I maiuscola, porta con sé il nome di Walter Bonatti. È la discussa conquista del K2, la seconda montagna più alta della Terra, la più alta del Karakorum.
Dopo il 31 luglio 1954 il K2 verrà ribattezzata "la montagna degli italiani". In un dopoguerra in cui il mondo si confrontava non più con le bombe ma con i successi extrabellici, come la conquista dello spazio, anche l'alpinismo era fonte di accesi nazionalismi. Ogni paese provava ad accaparrarsi il suo pezzetto di gloria: sul K2, nelle intenzioni dell'Italia e del Club Alpino Italiano, doveva sventolare il tricolore. Una squadra di tredici alpinisti, il meglio (o quasi, data l'assenza di Riccardo Cassin) dell'alpinismo italiano, viene scelta per la conquista del K2. Agli ordini di Ardito Desio, il capo-spedizione, c'è anche un ventiquattrenne Walter Bonatti. Il più giovane del gruppo, forse anche troppo giovane per quell'esperienza: non tanto per le capacità tecniche - già indiscutibili e superiori alla media - ma per la saggezza necessaria ad affrontare quello che più che un dramma alpinistico si rivelerà un dramma umano.

Il gruppo della spedizione italiana al K2 (fonte: touringclub.it)

Dopo due mesi di fatica, con grande sforzo e dopo la perdita di un componente (la guida valdostana Mario Puchoz), la salita lungo la cresta sud-est, il famoso Sperone Abruzzi, sta per giungere al termine. La sera tra il 29 luglio e il 30 luglio a oltre 7600 metri, nella tenda del campo VIII, si trovano quattro uomini: Walter Bonatti, Pino Gallotti, Lino Lacedelli e Achille Compagnoni. Il piano di attacco alla vetta è questo: Lacedelli e Compagnoni partiranno la mattina seguente con il materiale per allestire il campo IX, piazzandolo a quota 7900 metri, affinché Bonatti e Gallotti possano scendere a recuperare le bombole d'ossigeno (essenziali oltre quota 8000 metri) al campo VII, per portarle dunque al campo IX. Il 31 luglio Lacedelli e Compagnoni, con le bombole d'ossigeno, sferreranno l'attacco decisivo agli 8611 metri del K2.

La via di salita lungo lo Sperone Abruzzi (fonte: commons.wikimedia.org)

Non tutto va per il verso giusto. Gallotti è esausto, ma fortunatamente al campo VII, Bonatti trova l'aiuto di un altro componente della spedizione, il bolzanino Erich Abram, e uno dei più forti portatori hunza, Amir Mahdi. In tre devono risalire settecento metri di dislivello, con l'assurdo carico delle bombole d'ossigeno, uno sforzo ai limiti del sovrumano. Un sforzo che ha come vittima proprio Abram, che esausto, deve ripiegare in fretta al campo VIII. A portare il pesante fardello rimangono Bonatti e Mahdi. Salgono fino al punto concordato con Lacedelli e Compagnoni. Che però non ci sono, come fossero spariti.

Walter Bonatti ed Erich Abram

Lacedelli e Compagnoni hanno montato il campo IX più in alto, in una zona apparentemente più sicura da pericoli, ma soprattutto, nascosta alla vista di Bonatti e Mahdi. I due provano a portarsi ancora più su, ma non li trovano. Lacedelli e Compagnoni si fanno vivi con una torcia solo all'imbrunire, mentre il vento ostacola ogni tipo di comunicazione. E intanto, sul Karakorum sopraggiunge la notte. Per i due non c'è scampo. Si trovano ad oltre ottomila metri, nella "zona della morte" (ossia dove la rarefazione dell'aria può essere letale) e devono affrontare una notte all'addiaccio, senza alcuna predisposizione in tal senso. Con loro non ci sono né tende da bivacco né tantomeno sacchi a pelo. In quelle condizioni, non si può dormire, si può solo cercare di sopravvivere. Cosa fare in quei casi, quando lo sconforto potrebbe cedere il passo alla disperazione? Cercare di fare tutto ciò che è concesso per mantenersi vivi. Vietato addormentarsi, muovere costantemente le mani e i piedi, battersi gli scarponi con la piccozza. Anche abbracciarsi al compagno di sventura. Bonatti ha un bel da fare, nella morsa del gelo e dell'incombente bufera notturna, nel trattenere Mahdi sul gradino di circa 60 centimetri scavato nel ghiaccio, dove trascorrere la notte. Il pakistano è in preda alla confusione più totale, è fuori di senno, e cerca più volte di scendere, esponendosi al pericolo di una discesa notturna senza luci.

Bonatti e Viotto impegnati ad attrezzare la salita (© Archivio Lino Lacedelli)

La notte, quella lunga notte tra il 30 e il 31 luglio del 1954, passa. Bonatti e Mahdi, rimangono vivi e riescono, all'alba del nuovo giorno, a riparare al campo VIII. Bonatti, indubbiamente il più tenace alpinista della spedizione, ha ancora la lucidità necessaria per ripulirle dalla neve scesa nella notte, in modo da renderle visibili a Compagnoni e Lacedelli.
Il resto della storia è noto. I due prescelti per la salita in cima recuperano le bombole e con queste, alle 18 del 31 luglio 1954, toccheranno l'inviolata vetta del K2. Ben note sono anche le scandalose vicende che seguiranno, scaturite dalle discrepanze tra la versione (corretta) raccontata ne Le mie montagne da Bonatti, e la versione ufficiale dei fatti (errata) nel libro La conquista del K2 di Ardito Desio. Versione quest'ultima, in cui non vi è traccia alcuna del fondamentale apporto di Bonatti al successo della spedizione. Inoltre, si afferma che Compagnoni e Lacedelli sono arrivati in vetta senza ossigeno. Una verità di comodo per l'Italia, ma in realtà una grande menzogna.

Campo alto con vista sul Ghiacciaio Godwin Austen (© Archivio Lino Lacedelli)

Bonatti dovrà convivere per cinquant'anni con la ferita del K2. Nel 1964, dieci anni dopo la spedizione, gli verranno mosse pesanti ed infamanti accuse. Bonatti avrebbe provato a corrompere Mahdi per salire assieme a lui il K2 con le bombole d'ossigeno (si, ma con quali erogatori? - li aveva Compagnoni). Bonatti avrebbe respirato dell'ossigeno durante il bivacco notturno, rischiando di compromettere l'esito della spedizione e mettendo a rischio l'incolumità di Lacedelli e Compagnoni (nuovamente, con quali erogatori?). Bonatti avrebbe addirittura abbandonato Mahdi al suo destino, fatto supportato dai congelamenti a mani e piedi del portatore hunza (che Bonatti evitò grazie al migliore equipaggiamento degli alpinisti italiani). Accuse che Bonatti respingerà con rabbia nei suoi libri e in numerose interviste. Accuse che verranno cancellate solo nel 2004 con la revisione della relazione di Desio. Ma l'intera vita di Bonatti sarà segnata da questo evento, come disse in un'intervista: «La lezione che mi ha dato la natura non me l'ha data l'uomo, l'uomo mi ha dato una lezione più dura».

Bonatti tra Gallotti e Compagnoni (fonte: touringclub.it)

Questo post non vuole celebrare l'impresa di Desio, Compagnoni e Lacedelli. In questo post si vuole rendere solo omaggio all'impresa di Bonatti. Un'impresa che ha valore doppio. Perché non solo Bonatti compì un sacrificio grandissimo per il bene della spedizione - e per la gloria dell'Italia, ma anche perché sopravvivere in quelle condizioni proibitive è qualcosa che è possibile solo per un fuoriclasse. Quello che Bonatti e Mahdi vissero quella tragica notte è spiegato perfettamente da Bonatti stesso ne K2 - La verità, di cui riporto di seguito i passaggi più salienti e drammatici.

Al centro, il giovane Bonatti durante la spedizione al K2 (fonte: xedizioni.it)

"Istintivamente comincio ad annaspare alla cieca con la piccozza, nell'intento di tagliare sul pendio un gradino largo abbastanza da potervi stare tutti e due seduti, uno di fianco all'altro. Mentre lavoro, penso e mi arrovello in visioni angosciose. E a un tratto mi sorprendo a gridare: «No, non voglio morire! Non devo morire! Lino! Achille! Non potete non sentirci! Aiutateci! Maledetti!». Quindi prendo a minacciarli, pesantemente: «Vi denuncerò al mio rientro!». Vivo una crisi di ribellione e di rabbia insieme, che mi è difficile placare. Oltre che ignobilmente abbandonato mi sento profondamente tradito. Infine, come se mi svegliassi da un brutto sogno, mi rendo conto di aver scavato un discreto ripiano. Anche Mahdi ora sembra più calmo e rassegnato, benché risponda a ogni mia proposta con un lamentoso: «No, Sab!». E riprende a tremare e gemere dal freddo. [...] Come un marchio di fuoco sento che qualcosa di grave si sta imprimendo nel mio animo. [...] Il gelo atroce ci sta paralizzando. Siamo scossi a intervalli da lunghi fremiti. Ci stringiamo l'un l'altro, riducendo il più possibile il contatto con il ghiaccio su cui stiamo accovacciati. Più volte avverto che sono sul punto di perdere la sensibilità a un arto, allora lotto con ogni mezzo per vincere il pericoloso torpore. Spesso non bastano più i movimenti delle gambe o delle braccia, né i massaggi dove il gelo attacca. Allora impugno la piccozza e batto ripetutamente là dove perdo sensibilità. [...] Improvvisa e cruda ci colpisce in viso, come uno schiaffo, la prima folata di nevischio. Poi un'altra, e un'altra ancora. In breve ci avvolge una vera bufera, con turbini tanto violenti da colmarci di polvere gelata ovunque, sopra e sotto gli indumenti. A stento riusciamo, con le mani, a proteggerci il naso e la bocca per non soffocare; gli occhi sono quasi accecati. è una tortura, e la lotta si fa via via più disperata. Presto non ci rendiamo conto se lottiamo per vivere o soltanto perché continuiamo a vivere."
Walter Bonatti, K2 - La verità

sabato 30 luglio 2016

Bücher: 54 giorni nel cuore delle Alpi

"Non so se ho realmente trovato quello che cercavo, ma ho incontrato persone vive e fantasmi dal passato che mi hanno accompagnato alla riscoperta delle Alpi. Sono cresciuto in questo viaggio, ho rischiato, ho imparato ad ascoltare e a stare da solo per lunghi periodi. Ho cercato, in questi momenti, il suono delle montagne, il ruggito della natura che arriva dal profondo della terra e ricorda agli uomini la loro posizione."
Gian Luca Gasca, 54 giorni nel cuore delle Alpi


Di questo grande viaggio tra le Alpi, ne avevo già parlato poco più di un anno fa (vedi post). Da Trieste a Nizza, in poco meno di due mesi, solo con la forza delle proprie gambe o l'ausilio dei mezzi pubblici. Beh, ora il viaggio è finito e questa esperienza non è andata di certo persa. È diventata un libro di preziose testimonianze. Perché ogni luogo calcato da essere umano ha una sua storia, piccola o grande, da raccontare. E da tramandare, come ha fatto Gian Luca Gasca con 54 giorni nel cuore delle Alpi: un meraviglioso diario di viaggio che mescola le emozioni di un appassionato di montagna a tu per tu con le grandi vette alpine e gli uomini che le hanno rese celebri, con i ricordi di vicende passate e le riflessioni sul futuro di un ambiente sempre più difficile da proteggere.
Il viaggio di Gian Luca, raccontato brillantemente nelle pagine de 54 giorni nel cuore delle Alpi, mette a nudo tutti i problemi che affliggono il mondo della montagna al giorno d'oggi. Ce n'è di ogni tipo: dall'incuria dei sentieri del Carso all'eccessiva abbondanza di impianti a fune in Svizzera, dallo spopolamento delle valli più impervie alla totale mancanza di mezzi pubblici di alcune zone, dalla conservazione della biodiversità naturale fino all'aspetto, per me eticamente più brutto: la distruzione dell'ambiente montano per il mero sfruttamento economico e commerciale. La denuncia di Gasca è diretta, priva di retorica, e non può che aprire una seria riflessione in chi la montagna la frequenta abitualmente.
Oltre alle (condivisibili, dal mio punto di vista) argomentazioni sullo stato in cui versa l'ambiente montano oggi, trovo che questo libro sia un'avvincente raccolta di storie collegate alle montagne che Gasca ha salito o attorno alle quali ha camminato. Ci sono le grandi scalate al Cervino, che gli appassionati di montagna probabilmente conoscono, ma anche le vicende meno conosciute ai più (me compreso),di Julius Kugy e Sepp Innerkofler. Ci sono le imprese dei più grandi alpinisti italiani, da Comici a Bonatti. Ma soprattutto, ci sono tanti pezzettini della storia d'Italia che rappresentano un filo diretto con la montagna, come le vicende legate alla diga del Vajont, alla Grande Guerra e allo sfruttamento delle miniere di Cave del Predil. Ribadisco il soprattutto: un viaggio non è mai fine a sé stesso se diventa una testimonianza di vita. E di vite. Il viaggio di Gasca, fine a sé stesso, non lo è stato di certo.
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 9/10 

venerdì 29 luglio 2016

Arpy, un lago, una testa e molto di più

Ciao a tutti!
Luglio, sole e tanto caldo, un fine settimana in Italia per il matrimonio di un amico, una domenica libera prima del rientro in Germania. Sono ingredienti perfetti, questi, per trascorrere una giornata in montagna. Avrei potuto cacciarmi su qualche sentiero sperduto, fare un migliaio di metri di dislivello per raggiungere una qualche punta dal bel panorama, per conto mio. Ma avrei potuto anche organizzare una giornata all'aria aperta, brevi passeggiate in compagnia, non dure ma altrettanto piacevoli. E così abbiamo fatto, optando per la miglior compagnia possibile e un luogo forse senza eguali in Valle d'Aosta. Parlo del Colle San Carlo, della Testa d'Arpy e del Lago d'Arpy.

Grandes Jorasses e il Lago d'Arpy.

Il Colle San Carlo, conosciuto più dagli appassionati di ciclismo (essendo una salita durissima) che da quelli di trekking, è il naturale punto di partenza verso le altre due destinazioni citate. Imboccando il sentiero verso nord si sale verso la Testa d'Arpy. Una manciata di minuti, e una cinquantina di metri di dislivello per raggiungere uno dei più accessibili balconi della Valle d'Aosta. Ci accoglie un belvedere di prim'ordine su Monte Bianco e sulle Grandes Jorasses, nonché su Courmayeur, sul Mont de la Saxe e sull'alta Valle centrale. Con una bella giornata, queste montagne non sono solo monumenti alla bellezza che Madre Natura ci ha donato, sono entità vive che paiono brillare di luce propria...

Che balcone sul Monte Bianco e sulle Grandes Jorasses, la Testa d'Arpy! Foto di archivio, 28 agosto 2011

Queste montagne sono un libro aperto, chissà quante storie potrebbero raccontare. Ci sono le storie più felici, di grandi conquiste alpinistiche, di grandi acrobazie, in parete e sul filo di creste innevate. Ci sono le storie più funeste, quelle che raccontano grandi tragedie: un po' per caso ci ritroviamo di fronte al Monte Bianco proprio il giorno successivo al 55esimo anniversario della tragedia del Frêney.
Ci sono storie piccole, come la mia, perché sotto questi monti ho incontrato tanta, tantissima felicità al termine delle alte vie valdostane. Il Monte Bianco, sia nell'Alta Via n.1 (scendendo dalla Val Ferret) che nell'Alta Via n.2 (scendendo dalla Val Veny: vedi post) è la cornice attorno ad un quadro fatto della gioia silenziosa che nasce dalla fatica e dalla conclusione di un lungo percorso tra le montagne.

Flora in esplosione. Foto di archivio, 11 luglio 2009

Dal Colle San Carlo, imboccando il comodissimo sentiero opposto a quello per la Testa d'Arpy, verso sud, si può raggiungere in un'ora l'omonimo lago, una vera e propria perla della Valle d'Aosta. Non c'è molto da salire (un centinaio di metri), e si rimane quasi sempre all'ombra di larici e di pini. Quando questi ultimi iniziano a diradarsi, rimane sempre, e non dico poco, una vista eccezionale sulle Grandes Jorasses. Il lago d'Arpy è uno specchio meraviglioso dove brillano i riflessi delle Grandes Jorasses e del verde delle praterie e dei pendii che lo circondano.
Quando raggiungiamo il lago troviamo veramente tanta gente sulla sua riva. In fondo, è una meta facile da raggiungere. E molto attraente. Personalmente, consiglio una gita al Lago d'Arpy a tutti quelli che vogliono avvicinarsi alla montagna, alle montagne valdostane, senza faticare tanto oppure senza andarsi a cacciare su sentieri impervi e per escursionisti di esperienza. Ed in più, c'è la possibilità di stare al sole, all'ombra, con i piedi nell'acqua, circondati da prati, rocce e rododendri. Posti con tutte queste caratteristiche non sono facili da trovare.

Il Lago d'Arpy visto dal sentiero per il Lago di Pietra Rossa. Foto di archivio, 11 luglio 2009

Io stesso ho perso il conto delle volte nelle quali sono venuto qui con amici. Se non vi ho convinto con le mie parole sulla mia ultima visita al Lago d'Arpy, qualche giorno fa, allora lasciatevi convincere dalle foto che negli anni ho scattato in questo posto...
Bis bald!
Stefano




















giovedì 28 luglio 2016

Wanted - The Big Five: il leone

"Per quanto siano grandi e possenti, i leoni ci rammentano delle bestiole che si raggomitolano sui nostri grembi e che fanno le fusa quando li accarezziamo."
Gregory Scott Paul

Ci stiamo svegliando?

Ciao a tutti!
È il terzo dei Big Five che presento oggi, l'animale simbolo dell'Africa, il re indiscusso della savana: il leone. Anche nel leone ci siamo imbattuti durante i nostri safari nel Parco Kruger. Ma nell'esemplare femmina, la leonessa. In tutta la riserva del Thornybush, presso la quale abbiamo trascorso due giorni alla ricerca dei Big Five, vi è un solo esemplare di leone maschio. Non una ricerca facile la sua, nei tredicimila ettari della riserva: infatti il maschio non l'abbiamo trovato. Abbiamo dovuto "accontentarci" di un branco di leonesse. Che ci hanno regalato uno spettacolo fantastico.

Un branco di leonesse completamente addormentate

Sta per scendere la sera sulla savana quando ci appare all'improvviso un branco di leonesse nel bel mezzo del sonno. Sono tantissime, tutte insieme, saranno una decina circa. Dormono profondamente, nelle posizioni più strane. Una, mentre dorme, scodinzola massaggiandosi le zampe posteriori. Un'altra si sveglia, si stiracchia e poi se ne ritorna a dormire, come se nulla fosse successo. Un'altra ancora è così immersa nel sonno che neanche si accorge di annusare il didietro di una sua simile... Eh, le leonesse dormono fino a venti ore al giorno!
No, niente scene di caccia e di violenza: la leonessa che abbiamo incontrato al Kruger è pura dolcezza, qualcosa che non è molto distante da una grande micia. Che non si potrà accarezzare, ma quanto la si può adorare in fotografia?

Primo piano su musi sognanti

Bis bald!
Stefano

martedì 26 luglio 2016

Berlino Express: una manciata di dubbi bollenti

Ciao a tutti!
Che allenarsi per una maratona in piena estate fosse duro un po' lo immaginavo. Ho confidato nelle alte latitudini della Germania e in un'estate che non poteva essere torrida come quella dell'anno scorso, per sperare di non dover morire di caldo in allenamento. Dopo tre settimane di allenamento - intenso, come sempre all'inizio - posso essere soddisfatto a metà. I 40 gradi dell'estate 2015 (40.3°C nella vicina Kitzingen, record assoluto della storia della Germania) non si sono più ripresentati. Ma in più di una occasione anche alle sette di sera la temperatura superava i 30 gradi. Quanto è difficile correre in queste condizioni... a volte sembra che manchi il respiro. Altre volta si percepisce di non poter superare una certa velocità. Sempre, si è circondati da un sottile strato di sudore che irrita gli occhi ed appiccica gli indumenti al corpo.
Quando arrivo a casa, al termine dell'ora/ora e mezza di corsa, sono uno spettacolo osceno. Completamente ricoperto di sudore, talvolta non riesco a tenere gli occhi aperti, perché il sudore, che è ricco di sali, va negli occhi. Mentre cammino, gocciolo per terra. Devo aspettare un mezz'ora circa prima di lavarmi, perché la sudorazione continua anche al termine dell'attività. È semplicemente pazzesco. Quello che perdo in un allenamento sono svariati litri di acqua. Tanti bicchieri di acqua, così tanti che mi è anche capitato di non orinare nelle 5-6 ore successive allo sforzo, tale era la quantità di liquidi espulsa (e che andava reintegrata) durante lo sforzo.

E siamo arrivati già a quota 35

In compenso, i primi allenamenti non stanno andando male. Certo, è ancora presto per giudicare quanto fatto, ma so di essere stato in alcune uscite più veloce rispetto ad un anno fa. Ora va tutto bene, questo è il tempo in cui bisogna aggiungere chilometri ai chilometri. E metri di dislivello, in quanto le prime settimane, come già successo durante la preprazione per la Firenze Marathon, sono dedicate alle ripetute in salita, sempre sulla massacrante Bergstraße. Su questa strada in impressionante ascesa, non sono più una faccia nuova. Ormai gli abitanti delle case che danno su Bergstraße hanno imparato a conoscere il mio volto. Nessuno mi guarda più con sospetto, ma qualcuno mi guarda ancora con incredulità, un po' come se volessero dire: «Che ci farà mai questo pazzo a correre su questa salita, con questo caldo e a quest'ora?»
In fondo, forse, non lo so nemmeno io.
Bis bald!
Stefano

domenica 24 luglio 2016

Wanted - The Big Five: il rinoceronte

«Samia può mettere insieme intere frasi» continuò Anna. «Se fa il suono che significa 'pioggia', poi quello che vuol dire 'vieni a giocare', e infine il suono che sta per 'dove sei?', io devo uscire e dire 'no, non posso giocare'. Diventa matta quanto piove, e mi farebbe cadere nel cortile. È davvero eccitante riuscire a capire quello che dicono. I rinoceronti pensano che io sia una di loro, ma con un accento straniero.»
Aaron Latham, Il leopardo di ghiaccio

Mamma e cucciolo in riva al laghetto

Ciao a tutti!
Non sarà il più bello, ma è certamente un animale tra i più curiosi ed interessanti tra i Big Five della savana. È il rinoceronte, uno degli animali più "ricercati" dai turisti in caccia di scatti indimenticabili nella savana, ma purtroppo anche dai bracconieri. Proprio per non attirare troppo l'attenzione di questi spregevoli individui, il numero di rinoceronti presenti nella riserva non viene neppure comunicato. Obiettivo dei cacciatori è il corno, che in Cina viene considerato come un portentoso rimedio a tutti i mali dell'uomo. Peccato che il corno di rinoceronte sia costituito per la maggior parte da cheratina. Insomma, si tratta della stessa materia dei capelli, solo un pochino più dura... Il folle prezzo di vendita del corno di rinoceronte, che purtroppo si aggira intorno a 100.000 dollari al chilogrammo (!!!), è però un ottimo incentivo per tali "uomini", gente priva di qualsiasi scrupolo.

Bicornis?

Il primo contatto con il rinoceronte è stato uno dei momenti più emozionanti del safari. Ne avvistiamo un esemplare femmina nei pressi di un lago, con il suo piccolo. Ci avviciniamo seguendo la pista e... sono loro che si avvicinano a noi, camminando lentamente lungo la pista e poi ritornando tra i sicuri arbusti della savana. Il motore della jeep viene spento per poter non solo vedere, ma godere del rumore del passo del rinoceronte. Che animale meraviglioso!

Sulla nostra strada

Il rinoceronte dimostra incredibili capacità sensoriali. È un animale dalla vista scarsa, ma dall'udito sopraffino: le orecchie si muovono in continuazione. E anche l'olfatto è superbo: grazie all'organo vomeronasale sviluppatissimo, il rinoceronte può andare facilmente alla ricerca di un esemplare femmina in calore, cercando tracce della sua urina. È proprio in questa situazione che lo avvistiamo durante il nostro secondo safari. Non possiamo avvicinarci più di tanto: sfortunatamente, questo rinoceronte sta calcando un delicato suolo ricco di sodio, che le ruote e il peso della jeep potrebbero rovinare irrimediabilmente.

Alla ricerca di una femmina

In Africa esistono due specie di rinoceronti, il bianco e il nero. Il primo, il rinoceronte bianco, è un animale la cui sopravvivenza non è ancora in pericolo, forse grazie alle sue dimensioni: dopo gli elefanti, il rinoceronte bianco è il più grosso animale di terra. Il rinoceronte nero, invece, è in serio pericolo di estinzione, a causa del bracconaggio. La definizione di bianco e nero è del tutto impropria e deriva da un'incomprensione linguistica tra inglesi e boeri. Il rinoceronte bianco deriva dall'afrikaans wyd (= "grande"), presto confuso con l'inglese white (= "bianco"). E l'altra specie di rinoceronte è stata facilmente ribattezzata come "nera".
Durante le nostre uscite in jeep, ci concediamo pure il lusso di vedere anche un rinoceronte nero. In mezzo a zebre e bufali, pascola sereno anche questo possente animale. Lo guardi attentamente mentre si nutre, muovendo costantemente le orecchie. Forse pure qualche uccellino staziona sul suo dorso. Non si può non volergli bene. E non si può comprendere il livello inimmaginabile al quale possa arrivare la crudeltà del bracconiere.
Bis bald!
Stefano

sabato 23 luglio 2016

23 luglio 1951 - Un ragazzo diventa leggenda sul Grand Capucin

"Il mio sguardo era ancora là, su quel complesso di guglie dove spiccava un superbo pilastro rosso dominante la scena. La sua verticalità era assoluta, sconcertante; la sola idea di immaginarsi appesi lassù dava quasi il capogiro. Ricordo che uno dei miei primi pensieri fu di chiedermi se qualcuno avesse mai osato scalare quella guglia, di cui ignoravo ancora il nome."
Walter Bonatti, Montagne di una vita

La maestosa colonna di granito rosso del Grand Capucin (fonte: wikipedia.com)

È l'estate del 1949 quando un ragazzo di diciannove anni, nel bel mezzo del ghiacciaio del Gigante, viene rapito da una guglia del gruppo del Mont Blanc du Tacul: una colonna di granito rosso, alta quasi mezzo chilometro. È il Grand Capucin, un monolite il cui nome francese deriva dalla sua sagoma affilata, che ricorda quella di un frate cappuccino. La sua parete orientale, un'impressionante rete di fessure e strapiombi, è qualcosa di considerato impossibile da scalare. È una parete vergine, uno dei "problemi alpinistici" rimasti insoluti. Quella parete rapisce letteralmente Bonatti...

Tutta la verticalità della parete est del Grand Capucin (fonte: cornodicavento.com)

Il primo tentativo è nel 1950, con l'amico monzese Camillo Barzaghi, ma la scalata si interrompe bruscamente per il maltempo. Un paio di settimane dopo, Bonatti ci riprova con il torinese Luciano Ghigo, conosciuto per caso nel campeggio di Courmayeur. Una scalata lunghissima, eterna. Le difficoltà sono estreme fin da subito e la salita si rivela laboriosa, con tratti di arrampicata libera, su una roccia dove è impossibile piantare chiodi. Ma dopo tre giorni, iniziano a scarseggiare anche le provviste, l'acqua prima di tutto. E nel frattempo, a mettere i bastoni tra le ruote, ci si mette anche il meteo. Una violenta nevicata imperversa sul Monte Bianco. Ma non c'è via di ritirata: bisogna superare uno dei passaggi più difficili della salita, una placca liscia di quaranta metri. Sopra di essa si trova una cengia nevosa lungo la quale uscire verso la parete nord e tentare la ritirata. Che si rivelerà assai rocambolesca, tramite una serie di calate in corda doppia. Durante una di questa, Bonatti si ritrova addirittura appeso a testa in giù... Bonatti e Ghigo escono dalla situazione problematica, ma si ripresentano ai piedi del Grand Capucin solo un anno dopo.

Tutte le vie della est del Grand Capucin; la numero 10, tratteggiata in bianco è la Bonatti-Ghigo (fonte: climbandmore.com)

Questa ha ora molti meno segreti per i due alpinisti. In due giorni risalgono ciò che era stato scalato in quattro durante il tentativo dell'anno prima. Quindi, rimane l'ultimo tratto di salita, che Bonatti descrive così, "il vuoto è tornato impressionante, ma la roccia è salda e ben fessurata; non c'è verso tuttavia di guadaganre un solo metro di parete senza ricorrere ai chiodi". Tra acrobazie al limite e il continuo martellare sui chiodi, la giornata si chiude con un piccolo incidente, dal quale Bonatti esce grazie alla sua forza prodigiosa: un chiodo si stacca e Bonatti cade nel vuoto per qualche metro, prima di potersi attaccare ad una sporgenza. La terza giornata di salita si chiude così, e i due trascorrono la notte appesi nel vuoto. Dormire su una corda che circonda le gambe e con qualche fiocco di neve che cade, beh, non è proprio il massimo del comfort. Ma la via di uscita non è lontana.

La Stampa del 25 luglio 1951 celebra l'impresa di Bonatti e Ghigo

Seguendo una piccola fessura Bonatti e Ghigo si portano alla base del "cappuccio" che dà il nome alla montagna. Alcune placche coperte dalla neve, poi un camino nascosto dal ghiaccio. Un ultimo salto, poi la vetta. Sono le 14.30 del 23 luglio 1951, quando due ragazzi, poco più che ventenni, Walter Bonatti e Luciano Ghigo, realizzano un'impresa fino a quel momento considerata pura utopia. Per Bonatti, il Grand Capucin non sarà che la prima delle "prime salite", l'affermazione che lo farà entrare di diritto nel firmamento alpinistico. Nasce qui, sul granito rosso del Grand Capucin, la leggenda di Walter Bonatti.

venerdì 22 luglio 2016

Table Mountain, il regalo al mondo

Ciao a tutti!
Nel novembre 2011 viene annunciato il risultato di un concorso con il quale si vuole nominare le "nuove sette meraviglie della natura", attraverso un sondaggio a livello mondiale. Tra queste, molte delle quali nell'emisfero australe, vi è anche la Table Mountain, la "montagna a tavola", il vero simbolo a 360° di Città del Capo. Per queste ed altre ragioni, una salita sul grande monte che tocca quota 1086 metri e domina tutta la metropoli, non poteva assolutamente mancare.

Panorama pazzesco su Città del Capo

Ci si può arrivare a piedi - il dislivello non è poi così tanto! - ma soprattutto in cabinovia. E che cabinovia: la piattaforma ruota sul proprio asse e permette ai passeggeri di avere, durante i pochi minuti di viaggio, un completo sguardo su tutto il panorama, dall'impressionante salto di roccia del Devil's Peak al porto di Città del Capo, dal moderno quartiere di Waterfront fino alla Testa del Leone, altro "panoramico" e caratteristico monte con una importante visuale su Città del Capo.

Il porto di Città del Capo nelle prime ore della mattina

E dire che il panorama sarebbe già bellissimo dalla stazione di partenza della cabinovia. Ma poi, quando arrivi lassù... C'è un oceano nel quale perdersi, c'è la costiera che viaggia sinuosa verso il Capo di Buona Speranza, ci sono le spiagge di Clifton e di Camps Bay, c'è la lontana Robben Island (dove Mandela trascorse buona parte della sua detenzione in carcere), la forza di questa torre di roccia che è la Lion's Head, i riflessi del sole sul porto di Città del Capo, distese di rocce e di prati che paiono inesplorati… Il panorama dalla Table Mountain, dritto sulla baia di Città del Capo (sulla quella che António de Saldanha, il primo a mettere piede sull'attuale territorio di Città del Capo, ribattezzò Aguada de Saldanha), è unico, ed è uno di quei motivi per cui investire tempo e denaro per un viaggio in Sudafrica risulta molto facile.

La Table Mountain vista da Waterfront...

...e vista dalla partenza della cabinovia

Di Città del Capo, la Table Mountain non è solo il simbolo indiscusso, ma anche la grande salvezza. I venti che provengono dalla Table Mountain, che talvolta raggiungono velocità di 130 km/h, sono fondamentali per spazzar via le inquinanti emissioni di industrie ed automobili. Proprio per questo esso è conosciuto col nome di Cape Doctor, ed è una specie di phon sudafricano. Il vento che soffia dalla Table Mountain caratterizza essa stessa, in quanto sulla sua sommità si crea la classica nuvola orografica dovuta alla condensazione tra l'umidità di una massa d'aria (l'aliseo da sudest) dovuta all'impatto con una montagna (la Table Mountain). Sull'origine dei venti che soffiano dalla Table Mountain si sono create numerose leggende. Una di queste racconta che la nuvola non è altro che il risultato dell'eterna gara a chi fuma di più tra il diavolo e Van Hunks, un pirata locale. Quando la sfida è in corso, meglio non essere in cima alla Table Mountain, perché il servizio di cabinovia viene sospeso...

La visuale verso sud va quasi fino al Capo di Buona Speranza

Ma la salvezza della Table Mountain è arrivata definitivamente il 29 maggio del 1998, quando Nelson Mandela istituisce formalmente il Table Mountain National Park, oltre ventimila ettari di area protetta, che si estendono da Città del Capo fino al Capo di Buona Speranza: è questo il grande regalo che il Sudafrica lascia al mondo, un regalo sul quale sogno di ritornare, per attraversalo in tutta la sua lunghezza.
Bis bald!
Stefano

mercoledì 20 luglio 2016

Rientro all'ovile

Una nuova maratona è alle porte. Ed è quindi bene presentarsi con l'abito giusto. O meglio, con le scarpe giuste.
Speravo di poter concludere anche la maratona di Berlino con le Asics acquistate la scorsa estate, ma ho dovuto abbandonarle. Una corsetta di pochi chilometri mi ha massacrato il retrotallone. La superficie interna della calzatura, nell'area che va a contatto proprio con il tallone e il tendine di Achille, si è squarciata causando un attrito tale da crearmi un taglio nella cute proprio nel retrotallone. Queste scarpe saranno ancora ottime per una passeggiate, ma per le maratone, è meglio accantonarle.

Il mio quarto paio di Adidas Supernova

Ma se devo essere sincero, l'esperienza Asics non mi ha soddisfatto. Con queste scarpe ho avuto più problemi di vesciche e in generale, problemi ai piedi, che con qualsiasi altro paio di scarpe. E dulcis in fundo, la resistenza dei materiali si è rivelata essere, almeno nel mio caso, scadente. Bye bye Asics e bentornate Adidas.
Dopo le varie problematiche avute con scarpe Asics, il mio primo pensiero è stato quello di voler tornare da subito a calzare un paio di calzature da corsa della casa più famosa di Herzogenaurach. Un po' perché preso da spirito di appartenenza geografica alla Germania e alla Baviera, ma soprattutto perché con scarpe Adidas ho corso un'infinità di chilometri, e senza particolari problemi. Insomma, Adidas è un marchio che mi ha sempre soddisfatto e la scelta più logica era quella di tornare a calzare una scarpa con le tre strisce parallele. Non ho avuto dubbi su che modello acquistare: le Supernova Sequence, ossia l'ennesima evoluzione dei modelli Adidas precedentemente utilizzati. Con questi due gioiellini ai piedi, ora sono al completo: il viaggio verso Berlino può avere inizio.
Bis bald!
Stefano

lunedì 18 luglio 2016

Wanted - The Big Five: il bufalo

Ciao a tutti!
Le promesse vanno mantenute: qualche giorno fa, parlando dell'esperienza safari in Sudafrica, mi ero impegnato a dedicare un post ad ognuno dei Big Five, i cinque animali più “ricercati” della savana, perché considerati i più pericolosi e in passato i più difficili da cacciare. Animali che sono diventati simbolo dell'Africa stessa e anche della nazione sudafricana, al punto che la loro effigie si trova ora sulle banconote del rand, la valuta che circola in Sudafrica (vedi post). Con il post di oggi voglio inaugurare una serie di post dedicati ai Big Five, in ordine di "difficoltà di ricerca" nel vasto ambiente della savana. Non me ne vogliano le zebre e le giraffe, animali meravigliosi, ma trovarsi faccia a faccia con i Big Five è... tutta un'altra storia.

Primo piano sul bufalo

Il primo che voglio presentare è il bufalo. Non è stato difficile trovarlo durante i nostri safari. Sono molto diffusi e se ne trovano un po' ovunque, soprattutto laddove ci sia una fonte d'acqua. È un animale strettamente erbivoro, ma bisogna prestare attenzione, se attaccato o provocato diventa un animale di estrema pericolosità, in grado di uccidere anche un leone. Il peso, che può anche sfiorare la tonnellata, lo rende ovviamente un animale molto insidioso.
Esteticamente non è un animale particolarmente aggraziato. Madre Natura non ha voluto bene al bufalo: la corporatura è grossolana, il muso ispira una sensazione intrinseca di rabbia e le corna, beh, quelle corna fanno proprio paura.

Sembrano tranquilli... ma non fateli incazzare!

Qualche bufalo solitario lo abbiamo visto durante i safari, ma tendenzialmente al bufalo piace stare in branco. Gli esemplari dominanti se ne stanno in compagnia delle femmine di bufalo, mentre gli altri se ne stanno in disparte, tra di loro, in attesa di provare a tornare dominanti durante la stagione degli accoppiamenti. Come disse la nostra guida, ai bufali piace unirsi in gruppo, nel... "club dei pensionati". Senza cantieri sui quali discutere, ma standosene a contemplare laghetti e l'arida natura della savana!
Bis bald!
Stefano

LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...