Walter Bonatti, Montagne di una vita
La maestosa colonna di granito rosso del Grand Capucin (fonte: wikipedia.com) |
È l'estate del 1949 quando un ragazzo di diciannove anni, nel bel mezzo del ghiacciaio del Gigante, viene rapito da una guglia del gruppo del Mont Blanc du Tacul: una colonna di granito rosso, alta quasi mezzo chilometro. È il Grand Capucin, un monolite il cui nome francese deriva dalla sua sagoma affilata, che ricorda quella di un frate cappuccino. La sua parete orientale, un'impressionante rete di fessure e strapiombi, è qualcosa di considerato impossibile da scalare. È una parete vergine, uno dei "problemi alpinistici" rimasti insoluti. Quella parete rapisce letteralmente Bonatti...
Tutta la verticalità della parete est del Grand Capucin (fonte: cornodicavento.com) |
Il primo tentativo è nel 1950, con l'amico monzese Camillo Barzaghi, ma la scalata si interrompe bruscamente per il maltempo. Un paio di settimane dopo, Bonatti ci riprova con il torinese Luciano Ghigo, conosciuto per caso nel campeggio di Courmayeur. Una scalata lunghissima, eterna. Le difficoltà sono estreme fin da subito e la salita si rivela laboriosa, con tratti di arrampicata libera, su una roccia dove è impossibile piantare chiodi. Ma dopo tre giorni, iniziano a scarseggiare anche le provviste, l'acqua prima di tutto. E nel frattempo, a mettere i bastoni tra le ruote, ci si mette anche il meteo. Una violenta nevicata imperversa sul Monte Bianco. Ma non c'è via di ritirata: bisogna superare uno dei passaggi più difficili della salita, una placca liscia di quaranta metri. Sopra di essa si trova una cengia nevosa lungo la quale uscire verso la parete nord e tentare la ritirata. Che si rivelerà assai rocambolesca, tramite una serie di calate in corda doppia. Durante una di questa, Bonatti si ritrova addirittura appeso a testa in giù... Bonatti e Ghigo escono dalla situazione problematica, ma si ripresentano ai piedi del Grand Capucin solo un anno dopo.
Tutte le vie della est del Grand Capucin; la numero 10, tratteggiata in bianco è la Bonatti-Ghigo (fonte: climbandmore.com) |
Questa ha ora molti meno segreti per i due alpinisti. In due giorni risalgono ciò che era stato scalato in quattro durante il tentativo dell'anno prima. Quindi, rimane l'ultimo tratto di salita, che Bonatti descrive così, "il vuoto è tornato impressionante, ma la roccia è salda e ben fessurata; non c'è verso tuttavia di guadaganre un solo metro di parete senza ricorrere ai chiodi". Tra acrobazie al limite e il continuo martellare sui chiodi, la giornata si chiude con un piccolo incidente, dal quale Bonatti esce grazie alla sua forza prodigiosa: un chiodo si stacca e Bonatti cade nel vuoto per qualche metro, prima di potersi attaccare ad una sporgenza. La terza giornata di salita si chiude così, e i due trascorrono la notte appesi nel vuoto. Dormire su una corda che circonda le gambe e con qualche fiocco di neve che cade, beh, non è proprio il massimo del comfort. Ma la via di uscita non è lontana.
La Stampa del 25 luglio 1951 celebra l'impresa di Bonatti e Ghigo |
Seguendo una piccola fessura Bonatti e Ghigo si portano alla base del "cappuccio" che dà il nome alla montagna. Alcune placche coperte dalla neve, poi un camino nascosto dal ghiaccio. Un ultimo salto, poi la vetta. Sono le 14.30 del 23 luglio 1951, quando due ragazzi, poco più che ventenni, Walter Bonatti e Luciano Ghigo, realizzano un'impresa fino a quel momento considerata pura utopia. Per Bonatti, il Grand Capucin non sarà che la prima delle "prime salite", l'affermazione che lo farà entrare di diritto nel firmamento alpinistico. Nasce qui, sul granito rosso del Grand Capucin, la leggenda di Walter Bonatti.
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