lunedì 31 ottobre 2016

Working on a dream (prima parte)

Mettere insieme il migliore materiale fotografico di incredibili giornate in Africa è un'operazione possibile? Si, selezionare un centinaio di belle immagini tra oltre duemilacinquecento scatti si può fare. Tempo e pazienza e si può presentare una bella scelta di fotografie dal Sudafrica e dallo Zimbabwe, immagini uniche per momenti unici.
Selezione che inizia a mostrarsi, nel suo caleidoscopio di colori vivaci e di soggetti così diversi tra loro, nel primo di tre post dedicati al nostro primo viaggio in Africa, un viaggio che si può raccontare con le parole, anche quando basterebbero solo le immagini...
Buona visione!
Stefano

Tramonto sullo Zambesi

Rinoceronti sulla National Road

L'alba gelida di Dullstroom

Il pinguino che fa capolino

Le goffe otarie di Hout Bay

Piante di agave sulla God's Window

Bo-Kaap

Lisbon's Falls

Rinoceronte e "rinocerontino"

La baia falsa

Soweto

Hout Bay, barche con gabbiano

Ippopotami che si dissetano

Ed è subito tramonto

Le colonne d'acqua delle Cascate Vittoria

Fiori africani

Babbuini dispettosi

Città del Capo, panorama dalla Table Mountain

L'elefante sorridente

Ponte sul Bourke's Luck Potholes

A new day is coming...

Scolaresca al Blyde River Canyon

Doppio facocero!

Di noci ne abbiamo?

Dio benedica Nelson Mandela

Giraffa in primo piano

Sandton

Uccellacci sullo Zambesi

La natura trionfa/1

La natura trionfa/2

Diaz Beach

Un pinguino di Boulder

Tramonto su Waterfront

Fino alla fine

Agrumi e molto altro

Coccodrillo affamato

Bufali inteneriti

domenica 30 ottobre 2016

Bücher: La morte sospesa

"Cominciai a scendere a saltelli, reggendomi su una gamba sola. Procedevo in diagonale, per aggirare uno sperone roccioso che vedevo direttamente sotto di me. Più in là, il pendio si faceva uniforme e costante, senza interruzioni fino al ghiacciaio. Mi voltai a guardare il seracco dal quale ero precipitato. Era ormai un ricordo vago. Poi, con una fitta improvvisa di disperazione, vidi la corda che pendeva al suo margine estremo. Quel filo di colore sul ghiaccio mi tolse ogni possibilità di sperare: Simon era sceso di là, aveva visto il crepaccio ed era andato via. Non a cercare aiuto. No. Perché era convinto che io fossi morto."
Joe Simpson, La morte sospesa


La montagna è da decenni luogo di storie drammatiche. Ogni anno, da quando l'uomo ha iniziato a scalare le montagne, da quando l'uomo cerca di spostare l'asticella dei limiti sempre un po' più in là, la montagna presenta il suo salatissimo conto. Un conto di vite spezzate, di tragedie, di disperazione. Quella che Joe Simpson ha vissuto in prima persona sulle Ande e che ha voluto fissare ne La morte sospesa, è una storia pazzesca, e fra tutte quelle che letto (vedi K2 - La veritàFrêney 1961La salita del Cervino) è per me senza dubbio quella che più di ogni altra va a scavare nella psiche dell'alpinista.
Ande peruviane, Siula Grande. Joe Simpson e il compagno di cordata Simon Yates hanno appena scalato questa vetta per l'inviolata parete ovest (andate a vedervi le immagini sulla pagina di Wikipedia, è piuttosto impressionante). Nella complicata discesa, Simpson scivola malamente su un dirupo e atterrando malamente. Il ginocchio della gamba destra è in brandelli; il maltempo incombe e i viveri sono quasi finiti, il ghiacciaio alla base della montagna è ancora lontano. Yates lega due corde per farne una di quasi cento metri, per calare Simpson. La manovra è difficile perché la corda annodata non passa nel discensore. Tutto procede con difficoltà, ma procede. Poi, inavvertitamente, Yates cala Simpson oltre una sporgenza, nel vuoto. Yates non può più trattenere Simpson legato a sé perché il suo peso lo trascinerebbe sempre più verso il basso: l'ultima decisione è quella di tagliare la fune e abbandonare al suo destino il compagno di corda. Simpson cade in un crepaccio e percorrendolo in discesa trova una via di uscita in un pendio che lo riporta sul ghiacciaio. E poi... e poi basta, non continuo nel racconto, altrimenti sarebbe uno spoiler. Il finale, come si può immaginare, è felice. Se così non fosse, Simpson non avrebbe mai scritto la sua testimonianza.
La morte sospesa è un libro come pochi nel contesto della letteratura di montagna. Perché non è un racconto in terza persona, bensì una narrazione in prima persona di un sopravvissuto (proprio il caso di dirlo). La vicenda di Simpson è un viaggio nella disperazione che regna nella mente di un uomo ad un millimetro del baratro, del crepaccio e della morte. A scrivere è direttamente l'anima di un uomo in preda al tormento. Il dolore fisico, la paura di una morte lenta, la lotta per non cedere ad un destino ormai segnato. Sono parole di angoscia, sono parole sincere.
E poi, ancora più interessante, Simpson raccoglie ne La morte sospesa i pensieri di Yates, diviso tra la necessità di sopravvivere e il rimorso per aver abbandonato il compagno, in uno stato mentale meno doloroso fisicamente ma molto più feroce psicologicamente. Lettura di pathos continuo, duecento pagine e oltre di dramma totale, ma dal liberatorio happy end.
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 8/10 

sabato 29 ottobre 2016

Bücher: Annientamento

"Dove giace il frutto soffocante che giunse dalla mano del peccatore io partorirò i semi dei morti per dividerli con i vermi che si raccolgono nelle tenebre e circondano il mondo col potere delle loro vite mentre dagli antri oscuri di altri luoghi forme che non potrebbero mai essere si contorcono impazienti per i pochi che non hanno mai visto o non sono mai stati visti..."
Jeff VanderMeer, Annientamento


È con questa frase, carica di angoscia e ambiguità che voglio introdurre Annientamento, il primo volume della "Trilogia dell'Area X", opera dello scrittore americano Jeff VanderMeer, il quale è anche il coniatore del termine "New Weird" (="nuovo bizzarro"), il genere a cui appartiene questo libro, una mistura di fantasy, horror e fantascienza.
Cosa è l'Area X? Questa è una delle domande che mi hanno perseguitato durante tutta la lettura. L'Area X, come riportato nella seconda di copertina, è "un territorio dove un fenomeno in costante espansione e dell'origine sconosciuta altera le leggi fisiche, trasforma gli animali, le piante, sembra manipolare lo stesso scorrere del tempo". In questo territorio viene inviata per la dodicesima volta una spedizione, stavolta composta di sole donne, che non si conoscono tra loro e con diverse competenze. E le precedenti spedizioni? I loro componenti sono spariti o sono tornati malati di cancro.
Quali sono i misteri di questa fantomatica Area X? Dove si trova? Quali sono i suoi confini? Come la si raggiunge e come se ne esce? Tutte domande che si è naturalmente portati a formulare durante la lettura, ma senza trarne risposta. È un mistero continuo quello che pervade Annientamento. La vicenda della dodicesima spedizione viene narrata dalla voce di una delle quattro componenti della spedizione, "la biologa", un personaggio in cui è facile immedesimarsi in fretta: il suo carattere forte, la sua curiosità, la voglia di verità sono gli unici appigli a cui aggrapparsi durante la lettura. Perché l'affanno generato da Annientamento è totale, la tensione generata costante. VanderMeer circoscrive un nuovo piccolo mondo all'interno del nostro mondo, che contiene le paure del nostro mondo, gli enigmi della psiche e i drammi ambientali, la sfiducia nell'uomo e le iperconnessioni che ci sono consentite dalla tecnologia, la fallacia dell'essere umano e le sovrastrutture occulte della nostra società.
Tengo a precisare: ho parlato di mistero, affanno, angoscia. Non vanno intese in senso negativo. Sono sensazioni che emergono chiaramente dalla vicenda e dalla prosa, ma aiutano a rimanere incollati alla lettura.
Il finale è un non-finale in quanto Annientamento è solo il primo volume di una trilogia, ma il senso di incompiutezza è forte. Assieme a parecchi dettagli omessi, ai tanti arcani da rivelare, un finale monco si inserisce perfettamente nel contesto dell'opera e per questo non ho disprezzato. Il primo volume non mi ha deluso e, pur non essendo questo il mio genere preferito, sicuramente tornerò a leggere VanderMeer nei due volumi successivi della Trilogia dell'Area X, Autorità ed Accettazione.
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 8/10 

venerdì 28 ottobre 2016

“Sull'orlo dell'abisso„

"Nell'aria c'era anche qualcosa di oscuro. L'avevo capito sui Monti Sibillini, dallo sguardo sibillino della banconiera dell'hotel Sibilla, un occhio fenicio - grigio con le pagliuzze d'oro - che, dal fondo di una penombra abitata da risa femminili e profumata di lenticchie e ragù, mi diceva: «Attento, stai entrando in terre arcane». E anche se fuori, sulla piana per Castelluccio, silenziosi deltaplani volavano su praterie sfolgoranti di sole e neve fresca, tutt'intorno posti come il Monte Utero, la Màcera di Morte o le gole dell'Infernaccio mi parlavano di negromanzia. Bastavano i loro nomi a dirmi che stavo sfiorando l'orlo dell'abisso. Non era solo la "larga, e orrenda, e spaventevole spelonca nominata Caverna della Sibilla" o il vicino Lago di Pilato, quello che “extendit frigidus undas; quem Necromanctes, nocte, dieque petunt„. In una vecchia guida del luogo potevo leggere testi medioevali pieni di demoni, fate viaggianti, iniziazioni e fantastici voli notturni. Tutto ciò che riguardava quei monti era circondato da tali superlativi - “immanis horribilisque specus„, “altissimis vero in montibus qui praedictis oppidis e regione respondent summo in Appennino„ - che le parole perdevano il loro senso descrittivo per diventare litania, esorcismo."

Visso, il giorno dopo (© Calavita)

Dieci anni fa Paolo Rumiz compiva il viaggio negli Appennini che avrebbe poi raccontato ne La leggenda dei monti naviganti. Queste sono le righe dedicate ai Monti Sibillini, i luoghi che mercoledì sono stati funestati da violenti fenomeni sismici. Rumiz sembrava quasi "predire" ciò che sta succedendo in questi giorni tra Umbria e Marche, quando citava i demoni che popolano quest'area.
Ma il demone degli ultimi giorni è vero, reale, concreto. Assume le sembianze di un'onda distruttiva, il terremoto. Un mostro invisibile, che colpisce alla spalle, a tradimento. E non guarda in faccia niente e nessuno. E contro il quale non si può fare niente.
Si può solo sperare nella fine di quest'incubo. E da subito, iniziare a prevenire.

giovedì 27 ottobre 2016

Come se fosse antani

- Tarapìa tapiòco! Prematurata la supercazzola, o scherziamo?
- Prego?
- No, mi permetta. No, io... scusi, noi siamo in quattro. Come se fosse antani anche per lei soltanto in due, oppure in quattro anche scribàcchi confaldina? Come antifurto, per esempio.
- Ma che antifurto, mi faccia il piacere! Questi signori qui stavano sonando loro. 'Un s'intrometta!
- No, aspetti, mi porga l'indice; ecco lo alzi così... guardi, guardi, guardi. Lo vede il dito? Lo vede che stuzzica? Che prematura anche? Ma allora io le potrei dire, anche con il rispetto per l'autorità, che anche soltanto le due cose come vicesindaco, capisce?
- Vicesindaco? Basta 'osì, mi seguano al commissariato, prego!
- No, no, no, attenzione! Noo! Pàstene soppaltate secondo l'articolo 12, abbia pazienza, sennò posterdati, per due, anche un pochino antani in prefettura...
- ...senza contare che la supercazzola prematurata ha perso i contatti col tarapìa tapiòco.
(la "supercazzola" di) Ugo Tognazzi in Amici miei

Un fotogramma della supercazzola da Amici miei (1975) di Mario Monicelli (fonte: teladoiofirenze.it)

Era il 27 ottobre del 1990 quando ci lasciava Ugo Tognazzi. La sua carriera di attore è sterminata di grandi successi, ma se bisogna identificarlo con un film o con una performance attoriale, beh, credo che nel 95% nei casi lo ricordino con la supercazzola in Amici miei di Mario Monicelli.
Quella della supercazzola - parola inserita l'anno scorso nello Zingarelli con la definizione di "parola o frase senza senso, pronunciata con serietà per sbalordire e confondere l'interlocutore" - è una delle scene della commedia italiana a cui sono più legato. Perché fa ridere, innanzitutto. Perché fa ridere senza utilizzare la volgarità, anzi (qualche studioso afferma che le origini della supercazzola siano da ritrovare nel Decamerone di Boccaccio). Perché è un mito dell'umorismo italiano. Perché è senza tempo, perché è apprezzata anche dai giovani di oggi. Ma perché, da italiano all'estero, mi rendo ancora più conto che è una meravigliosa immagine dell'italianità: la supercazzola - soprattutto nella scena in cui il conte Mascetti, interpretato da Tognazzi, si burla del malcapitato vigile umano - è l'espressione dell'autorità derisa e fuorviata. È il giro di parole senza senso, il tutto fumo niente arrosto che a volte ci contraddistingue.
Se uno straniero mi chiedesse cosa siamo noi italiani (molto spesso, non sempre eh), farei vedere lui la supercazzola di Tognazzi. Ecco, noi siamo così. Con simpatia.


Bis bald!
Stefano

mercoledì 26 ottobre 2016

Bücher: Ehi, prof!

"Ehi, professore, tu l'hai mai fatto un lavoro vero, cioè, mica insegnare, dico un lavoro vero? Ma scherzi? E tu insegnare come lo chiami? Guardati intorno e chiediti se ti piacerebbe venire qui tutte le mattine ad affrontare voi. Voi. Insegnare è più difficile che lavorare al porto e ai magazzini."
Frank McCourt, Ehi, prof!


Sedici intensi anni da studente, tra scuola dell'obbligo e università, mi hanno lasciato più di un quesito sulla quotidianità di chi sta dietro la cattedra. Ma i professori, gli insegnanti, che vita fanno? Sono stato abituato a vederli, soprattutto quando ero più piccolo, come dei superuomini, portatori sani di onniscienza, perché "sapevano tutto". Poi, aver frequentato per anni una ragazza figlia di professori, mi ha restituito una dimensione più umana della figura del docente. Ehi, prof! di Frank McCourt, ha chiuso il quadro sul ruolo - fondamentale quanto ingiustamente bistrattato - dell'insegnante.
Ehi, prof! è un romanzo autobiografico che racconta l'esperienza trentennale dell'autore in quattro diverse scuole superiori di New York, un'esperienza (un po' incidentata, va detto) fatta di piccole soddisfazioni, grandi delusioni, ambizioni strozzate, tantissima fatica. A preparare le lezioni, a tenere a bada una classe di adolescenti, a contenere la foga e le aspettative dei genitori, ad affrontare una sfida ogni giorno nuova, a conciliare la dura giornata di lavoro con la vita privata.
Frank McCourt racconta tutto ciò con stile estroverso, sarcastico, con grande franchezza ("nell'insegnante i ragazzi cercano la sincerità"), senza sovrapposizioni. I dialoghi tra professore e studenti sono un tutt'uno, senza alcuna interpunzione che separi le varie parti del dialogo ("quando parlo con quei ragazzi, parlo con me stesso"). Gli orpelli sono limitati, nessun parolone, se non nell'ambito dei racconti di alcune lezioni di inglese. Il linguaggio è molto semplice, e talvolta si abbassa al livello stesso dei teenager protagonisti del romanzo, fino a diventare realisticamente gergale - un plauso va fatto al traduttore, indubbiamente.
"Gli adolescenti non sempre amano essere spediti per mari di incerte congetture; si accontentano di sapere che la capitale dell'Albania è Tirana. Non gli piace quando il professor McCourt domanda: Perché Amleto era cattivo con la madre? Va bene passare tutta l'ora a discutere di questo fatto, però sarebbe bello sapere la risposta prima che suoni quella cazzo di campanella. Sì, con McCourt, figurati. Quello fa domande, allude, crea confusione e quando sai che la campanella sta per suonare ti senti nello stomaco l'agitazione: Allora, dài, qual è la risposta? Solo che lui continua a dire: Secondo voi? Secondo voi? finché non scocca la fine dell'ora e uno si ritrova ignaro in corridoio". Il senso di tutto il libro, che emerge palesemente nella seconda parte, è riassunto secondo me in queste frasi. Leggendo Ehi, prof! ho fatto un balzo indietro nel tempo. Ho ripensato ai professori che mi hanno accompagnato nel percorso di studi, soprattutto a quelli che ricordo con più affetto e che mi hanno trasmesso qualcosa in più. I migliori professori non sono quelli che ti dicono che la capitale dell'Albania è Tirana, o che la la seconda legge di Newton è forza uguale massa per accelerazione. I migliori professori sono quelli che sanno accendere la curiosità nelle menti dei propri studenti, che sanno creare in loro domande. Che poi altro non sono il motore della nostra esistenza su questo mondo.
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 9/10 

martedì 25 ottobre 2016

È uno stato mentale

La maratona sono i quarantadue chilometri di corsa, le due-tre-quattro-cinque ore di corsa. Ma è soprattutto il percorso lungo settimane, mesi, che porta un atleta a trovarsi davanti alla linea di partenza e dopo sconfinata fatica, a tagliare il traguardo. La soddisfazione è sempre enorme quando si arriva in fondo. Anche quando non tutto va per il verso giusto ma si riesce comunque ad arrivare alla fine. Un po' come è successo a me quest'anno alla maratona di Berlino (vedi racconto): un tempo più alto rispetto alle mie aspettative, frutto di qualche errore nella preparazione ma anche risultante di un piccolo incidente dopo pochi chilometri durante il quale mi sono rotto un osso del piede. Quando va così, le impressioni che ho sentito vive sulla mia pelle madida di sudore, di fronte alla Porta di Brandeburgo, non possono che essere fortissime. In quegli ultimi metri di fatica, dove ho corso più forte che in tutto il resto della corsa, si pensano a tante cose, la mente si trasforma in un vortice di pensieri.
Pensieri che raccolgo qui, un po' così, come mi vengono.
In Straße des 17.Juni, sul traguardo della BMW-Berlin Marathon, ho pensato...

Anche col piede (inconsciamente) rotto, all'arrivo

...alle domande che si fanno quelli che mi vedono correre sotto la pioggia
...alle vesciche multiple sul mignolo dopo ogni seduta
...alla signora che mi guarda stranita con la bici in mano mentre corro le ripetute in salita
...a The rising a tutto volume per poter limare qualche secondo in meno sul passo
...ai 103 trenini rossi che mi hanno superato sulla Mainradweg durante tre mesi di allenamenti
...alle fitte al piede ad ogni curva stretta
...al sudore delle ripetute, alle mezze ore aspettate per togliermi il sudore dal corpo
...alla vecchia che mi chiede indicazioni stradali mentre corro, ma io, affaticato dai chilometri e in preda al fiatone, tiro dritto
...a quel momento in cui, più di due anni fa, promisi a me stesso che sarei ripassato sotto la Porta di Brandeburgo, correndo la maratona di Berlino
...al cuore a mille sulla salita di Bergstraße
...ai miei pensieri negativi dopo la caduta, nei quali credevo fosse tutto finito, e invece...
...ai tre mesi di allenamento e a come in pochi secondi le prospettive cambiano in peggio
...ai brividi di Potsdamer Platz
...agli allenamenti eseguiti con temperature di trentacinque gradi
...a quanto è dura pedalare 50 km dopo un lungo
...ai pugni chiusi e ai denti stretti dopo i trenta chilometri di corsa
...alle rinunce quotidiane a tavola, quando mangeresti un bue intero e bisogna accontentarsi di un piatto di pasta
...al torrido sole pomeridiano sulla faccia, che sì, mi faceva vedere cose che non esistono
...al miglioramento continuo della performance, giorno dopo giorno
...ai volti sofferenti ma entusiasti attorno a me
...alla bambina che mi guarda sorridente mentre corro e con grande tenerezza mi dice hallo! 
...ai cerotti che non fanno presa sul mignolo
...allo scatto di orgoglio in Unter den Linden
...ai capezzoli sanguinanti
...ai bicchierini di amaro non presi perché no, superalcolici è meglio di no, in preparazione
...a quel fiume di maratoneti alla partenza che diventa ruscello dopo quaranta chilometri
...ai secondi sul passo che spero di recuperare nelle discese
...ai sogni di vita e di corsa che si fanno in allenamento
...alla manifestazione di gioia che è la maratona, in una città come Berlino, che ha conosciuto il dramma del Muro
...a quanto duro era quel palo sul quale sono franato rovinosamente
...a Giulia, che ha sopportato ore di allenamenti e chili di canotte e pantaloncini sudati, che mi aspetta a casa e che mi dà forza per arrivare in fondo con i suoi "fai presto"

La dedica conservata per 42 chilometri

...e ancora una volta (l'ottava ormai), come sempre dopo i quarantadue chilometri, a tutti coloro che hanno corso una maratona, o la correranno, una volta almeno nella vita.
Stefano

lunedì 24 ottobre 2016

Creta on the road: sui saliscendi dell'Innahórion

Una delle migliori esperienze che si possano fare a Creta, soprattutto nella selvaggia estremità occidentale, è sedersi in auto e consumare gomme e carburante lungo le strade che attraversano l'isola più grande della Grecia. Nazione europea, la Grecia, sulle cui strade un'esperienza di guida ridefinisce il concetto stesso di Europa. Tutto ciò che si può osservare su una strada cretese non ha nulla a che fare con il continente. Creta è un mondo a parte e bastano pochi chilometri in automobile per rendersene conto, soprattutto quando ci si inoltra nell'entro terra. Non un altro mondo, ma proprio un altro pianeta.
Disegniamo un itinerario da percorrere in automobile, in senso antiorario, molto ragionato e ricco di notevoli spunti: spiagge, viste panoramiche, villaggi sperduti, passaggi tra monti impervi e gole scoscese. Tutto questo è il settore più occidentale di Creta, soprattutto nelle aree dell'Innahórion e dei Lefka Ori.

Salutando Paleóhora

Dopo aver lasciato la costa settentrionale, con la nostra BMW presa in affitto per la nostra settimana a Creta, si inizia a guadagnare quota molto in fretta. E altrettanto velocemente si scopre come la realtà dell'interno dell'isola sia assai diversa da quella più curata della costa. Addio rettilinei, asfalto curato e panorami piatti. La strada diventa un inno alla tortuosità, sulla qualità dell'asfalto muovo più di un dubbio. E i panorami... quelli sì che sono superbi. Appena lasciamo Platanos si apre una strada dalle continue curve e controcurve, in cui ogni svolta è un punto panoramico sulle coste di Falásarna. Ogni svolta è purtroppo anche una buona scusa per i cretesi per ammassare rifiuti di ogni genere, meglio se ingombranti. Ma con gli occhi noi tiriamo dritti e ci facciamo ammaliare dal bianco litorale di Falásarna.

205 chilometri dentro Creta, e 6000 metri di saliscendi

Scendendo verso Sfinári, la prima delle due spiagge che incontriamo nella nostro itinerario "on the road", ho come la sensazione che la strada non salga naturalmente lungo i declivi, ma debba cercare con la forza la sua direzione. Nella roccia, tra gli ulivi, a forza di tornanti e strettoie. Sui quali abbondano i kandylakia, le tipiche edicole votive disseminate lungo tutta la rete viaria cretese. Dalle più spartane alla più decorate, i meravigliosi kandylakia sono la più evidente modalità di espressione della fede dei cretesi, che con queste piccole costruzioni ringraziano un santo, o il loro dio, per un incidente scampato (e su queste strade, capisco perfettamente).

I kandylakia, quanti ne abbiamo incrociati

Sfinári è innanzitutto la sua placida spiaggia, tranquilla, fuori dai circuiti turistici dell'area che affollano i litorali di Balos, ElafonisiFalásarna. L'acqua che qui si infrange su milioni di ciottoli grigi e neri invita ad una sosta dopo una quarantina di chilometri stupendi ma nervosi. Ad invitarci ci sarebbero anche le taverne affacciate sul mare, ma è ancora prima mattina...
La strada che da Sfinári raggiunge Kampos e i villaggi dell'Innahórion è un capolavoro dell'ingegneria stradale (e che richiede molta manutenzione), le scogliere sono costantemente tagliate per permettere la circolazione delle automobili e regalare ai viaggiatori un costante panorama sull'estremità occidentale della costa cretese, verticalissima e selvaggia. I tornanti non si contano più e con essi anche kandylakia e altre cappelle, di dimensioni ben più grandi, costruite in onore di santi. Dove si trova un cartello con scritto Αγία (Agia, santo) è garantito che ci sia una qualche chiesetta o cappella dedicata ad un qualche santo. Il senso della fede a Creta è elevatissimo, forse come ho mai visto da nessuna altra parte.

Giusto qualche tornante...

Un esempio di quanto sia importante la fede a Creta lo scopro ad Amygdalokefáli, paese posto su un brullo sperone di roccia, con una imponente vista sul mare. È un paese fantasma, a prima vista, apparentemente lasciato all'incuria del tempo, in cui le case sfasciate vengono involontariamente nascoste dal proliferare degli ulivi. Ma la chiesa no, quella la si vede benissimo ed è meravigliosamente curata.
Un altro paese circondato da ulivi è Pappadianá. In questo villaggio decidiamo di fermarci per provare a immergerci veramente nell'atmosfera pittoresca dell'Innáhorion. Anche qui l'unica traccia di cura del proprio vivere la troviamo nella piccola piazzetta della chiesa. La chiesa non si discute, a Creta. Il resto è un intricato labirinto di strettissimi vicoli che si dipanano tra case diroccate ma sempre verniciate di quel bianco brillante che è essenziale per proteggersi dalla calura estiva.

Esempio di quali siano le condizioni in cui versano le case di Creta

Nel cuore dell'Innáhorion

Kefáli è invece il villaggio più interessante dell'Innáhorion. Sempre limitato nelle dimensioni, Kefáli garantisce la presenza di numerose taverne e piccoli negozi che vendono i tipici prodotti locali cretesi (miele, olio d'oliva, liquori). Tutto condito da uno dei migliori panorami sulla costa, che qui dista già comunque numerosi chilometri.
Superate Kefáli, Perivólia e Loúchio percepiamo il grande potere del turismo a Creta. Se tutt'intorno le strade sono a pezzi, qui le strade, seppur tortuose, sono al limite della perfezione. Siamo sull'asse viario che conduce la lunga fila di bagnanti dalla costa settentrionale, turisticamente più ricettiva, verso la spiaggia dalle tonalità rosa di Elafonisi. Qui i trasporti devono funzionare, altrimenti i turisti non ci vengono proprio, a meno che siano individui alla ricerca di una piccola avventura, come noi. È triste dirlo, ma è così.

Vista su Falásarna

Dunque, fino al villaggio di Élos, la porta orientale dell'Innáhorion non ci sono problemi di viabilità, code a parte. Con la nostra BMW riprendiamo per un breve tratto la strada che porta a nord, ma la lasciamo presto per puntare senza esitazioni verso sud, verso Paleóhora. Nella salita verso Archontikó ci addentriamo finalmente nello spirito più selvaggio di Creta e del suo settore meridionale. Strade isolate che collegano villaggi ancora più solitari, tornanti che risalgono colline aride e che guadagnano velocemente altitudine. Finalmente, incontriamo la vera dominatrice delle strade cretesi: la capra. A Creta, soprattutto a sud, le capre, assieme alle pecore, pascolano a bordo strada, incuranti del traffico (che nell'interno nell'isola è comunque limitato). Non c'è automobile o clacson che la schiodi dal suo luogo di pascolo, è l'automobilista che deve sterzare per schivare le capre. Paesaggio brullo e ovini lungo la strada: ad Agia Pnevma, dove sorge anche un piccolo santuario ortodosso, troviamo uno dei più essenziali spaccati di Creta.

Ovini su carreggiata: a Creta anche questo è possibile

La discesa verso Paleóhora è un selvaggio e serpeggiante attraversamento di villaggi che sembrano più ghost town che veri e propri villaggi: Kamaterá, Voutás, Kontokinigi, Agia Triáda, fino ad arrivare al Mar Libico. A pochi chilometri da Paleóhora, finalmente compare il piccolo promontorio su cui sorge questa città celebre per il castello veneziano, posto al centro di quel lembo di terra che separa la spiaggia sabbiosa di Pahiá Ámmos e la spiaggia rocciosa di Halíkia. Dall'alto i miei occhi possono finalmente guardare un mare per me nuovo, un mare - per tanti altri - di speranza. Proprio a Paleóhora, l'anno scorso, Creta ha conosciuto il dramma dei migranti in fuga dalla guerra in Libia. Qualche disperato è arrivato anche qui, su un'isola che è tutt'altro che a portata di mano (quasi trecento chilometri).

Paleóhora dall'alto

Paleóhora, decisamente più città che villaggio, si dimostra una piacevole sorpresa. La sua spiaggia di sabbia è decisamente un'ottima meta per chi ama la "vita da spiaggia" tranquilla, senza caos e disordine. Ottime le possibilità di shopping marittimo, grazie ai tanti negozi nelle strette vie del centro. Superlativa l'offerta di taverne nel groviglio di vicoli: essendo ora di pranzo, non ci facciamo di certo sfuggire l'occasione, consumando un lauto pasto greco a base di moussaka e gyros, due tra i più classici piatti della cucina greca.
Ci mettiamo un po' ad uscire da Paleóhora, perché il dedalo di strade che la compone è veramente intricata. Quando finalmente ne usciamo, puntando nuovamente decisi verso l'interno, il cielo inizia a coprirsi di nuvole minacciose. E in queste condizioni, abbiamo scoperto un'immagine nuova, incupita ma non meno affascinante, di Creta.

Dentro Paleóhora

I paesi che incontriamo non sembrano solo villaggi spettrali ma sembrano popolati di leggende terribili e di incubi ricorrenti. Azogirés è uno di questi, ma non tanto per il villaggio in sé, piacevole, quanto per le gole di Ánydri e di Azogirés, luoghi che stimolano il più angosciante narrare popolare.
Quando arriviamo a Teménia, paese rinomato per i succhi di frutta secondo la nostra guida, rimaniamo interdetti per l'immobilismo di questo paese che ci appare solo un misterioso mucchio di case disabitate e avvolte dalla nebbia.
Maza, Rodováni, Agriles, Marália, Kampanós, Tsiskianá, Epanohóri: attraversiamo decine di questi villaggi, ma di persone ce ne sono pochine. Dove sono tutti? Gli indigeni non si fanno vedere, se non per qualche anziano seduto davanti all'uscio di casa. Le capre invece ci sono eccome. Più ovini che umani, a Creta. Cosa invece non manca sono i simboli religiosi. A Maza affianchiamo con la nostra automobile una bellissima chiesetta ortodossa, recentemente restaurata assieme al suo altrettanto folcloristico cimitero. Nella nebbia che circonda i pendii dei Lefka Ori, la bianca chiesetta di Maza vi si confonde pur rimanendo un saldo luogo dove trovare protezione, dalla pioggia e dai tormenti delle anime (cretesi).

Siamo a sud, dove i cartelli vengono crivellati dagli spari

Superiamo velocemente Agia Iríni, le cui famose gole richiederebbero più tempo e soprattutto attrezzatura adeguata per essere visitate. La nostra meta è Xylóscalo, l'avamposto situato all'ingresso delle altrettanto famose gole di Samariá. Creta è molto conosciuta dagli amanti del trekking per questi orridi lunghi molti chilometri, che si spingono dall'entroterra fino alla costa. Luoghi in cui l'isolamento è totale, in cui camminare diventa un'esperienza mistica, oltre che un viaggio in una natura che è rimasta protetta da altissime muraglie rocciose. Serve un equipaggiamento da montagna, che non abbiamo - ma promettiamo a noi stessi, che quando torneremo a Creta, porteremo con noi scarponi e bastoncini.
Il tempo è, ahimè, inclemente. Quando superiamo il paese di Vasilianá, per percorrere la strada ai piedi delle Apopigadi, il cielo è plumbeo. Non sapremo mai se è a causa del tempaccio o delle numerose pale eoliche ivi presenti, ma abbassando il finestrino, udiamo un sibilo lugubre, spettrale. La temperatura, ci comunica il computer di bordo (siamo a Creta, lo ricordo), si abbassa fino ad una decina di gradi. Poche macchine, un'infinità di pecore e di capre che pascolano. Non si sa bene cosa come pascolino, perché questo brullo territorio sembra così sterile...

Cielo grigio sotto le Apopigadi

Xylóscalo è la piccola frazione da cui si accede alle gole di Samariá. Da qui si dovrebbe poter ammirare questa forra, ma la nebbia ricopre tutto. L'ambiente circostante ha un che di macabro, tetro: un gruppo di turisti cerca invano con lo sguardo un qualcosa nella nebbia, qualche camminatore esce dalle gole, una coppia francese si rifugia con noi a bere qualcosa di caldo in un piccolo bar che sembra più un covo di eremiti, pastori e criminali clandestini, o di personaggi che sono tutte e tre le cose.
Niente gole di Samariá, dunque, la fortuna non ci assiste sul profilo meteorologico. Riprendiamo la via verso La Canea, verso il nostro alloggio. Ma non prima di attraversare un altro luogo incredibile, l'altipiano di Omalós, una enorme spianata dall'aspetto decisamente più fertile ma così isolata e racchiusa da una cornice di monti, luogo perfetto per il pascolo di capre e pecore, altrettanto ideale per ambientare le imprese delle guerre di ribellione dei cretesi.

Lákki

A proposito di ribellione, prima di ritrovare la via del Mar Egeo, incontriamo un altro paese che avrebbe molto da raccontare: è Lákki, un villaggio abbarbicato su una delle tante colline dell'entroterra, in cui spicca una notevole chiesa ortodossa. Questo è stato uno dei più fieri centri della resistenza, sia durante le guerre di indipendenza cretese contro i turchi, che durante la Seconda Guerra Mondiale. I volti degli anziani che trascorrono lentamente le loro ore al bar sono la migliore testimonianza di quanto orgoglioso sia questo popolo.
La strada scende, scende, e diventa quasi piatta. I paesi che ci separano dal mare sono i comuni delle arance, dei limoni, dei succhi di frutta più freschi che ci siano. Ma il tempo incerto e la notte che incombe ci invitano a tirare dritto verso il nostro alloggio. Trascorrere un giorno intero (o quasi) in macchina, oltre duecento chilometri di saliscendi continuo, possono sembrare prospettive poco allettanti. Ma non se si è a Creta. A Creta, un esperienza di guida su queste strade, tra questi monti e in questi villaggi, è un viaggio dentro il viaggio, un momento di grande intensità.
Bis bald!
Stefano

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