lunedì 30 gennaio 2017

L'ultimo appuntamento (a suon di dritto e rovescio)

"Non ci sarà mai una rivalità come la nostra. Neanche quella tra Borg e McEnroe è a quel livello, anche se entrambi avevano grande personalità e uno era destro e l'altro mancino. Murray e Djokovic sono molto simili. Io e Rafa siamo opposti in tutto e questo ha spinto molto i tifosi a schierarsi per uno di noi due."
Roger Federer

Al termine della loro ultima finale Slam (fonte: gerente.com)

"Per me è fondamentale avere qualcuno così forte e talentuoso là davanti. Roger è un tennista molto più completo di me: per batterlo ho dovuto migliorarmi, alzare l'asticella del mio tennis, tirare fuori il meglio. Lui, in questo, mi aiuta."
Rafael Nadal

"Nadal è la materia nera che di rado Federer restituisce alla luce."
André Scala, I silenzi di Federer

Dodici anni fa, al Roland Garros 2005 (fonte: eurosport.com)

[scritto prima della finale, al termine della semifinale vinta da Rafael Nadal su Grigor Dimitrov]
E così, cinque anni dopo, sarà di nuovo Roger contro Rafa. Forse per l'ultima volta in una finale Slam, perché la classe è classe ma bisogna fare i conti anche con l'anagrafe, con il numero degli anni che avanza inesorabile. 
Domenica in quel di Melbourne si scriverà l'ennesima pagina di una delle più belle rivalità sportive degli ultimi vent'anni, probabilmente la più intrigante della storia del tennis. Sarà il trentacinquesimo duello tra Federer e Nadal. La loro NONA finale Slam, il quarto incontro agli Australian Open. Quello che tra il 2005 e il 2010 era la regola, la consuetudine, oggi è l'eccezione, lo straordinario, il passato che ritorna al presente. Come marito e moglie che si ritrovano d'amore e d'accordo dopo anni tormentati. E questi anni, tormentati lo sono stati eccome: personaggi venerati come reliquie e non come veri contendenti, alla deriva nel ranking, superati da avversari fuori dalla top-100 ma più freschi. Tra ginocchia capricciose e polsi doloranti, tra batoste clamorose e nuovi fenomeni in crescita. Proprio per questo, la finale degli Australian Open 2017 avrà il sapore della sfida indimenticabile, qualcosa non si ripeterà facilmente, perché un'altra eliminazione simultanea di Murray e Djoković è quantomeno improbabile. Un ultimo grande incontro, che alla vigilia godeva dei favori del pronostico tanto quanto una reunion dei Pink Floyd.
Tra di loro, ogni sfida non è stata banale, perché l'uno ha incarnato esattamente ciò che non poteva essere l'altro. La classe cristallina contro lo spirito di resistenza. Il talento puro contro la forza di volontà. Il destro baciato dai dei del tennis contro il mancino dotato di potenza quasi sovrumana. Il rovescio ad una mano contro il dritto sventagliato. Il padrone dell'erba di Wimbledon contro il signore della terra rossa di Parigi. La maglietta elegante contro la canotta fosforescente. Il fisico snello contro i bicipiti da culturista. L'eleganza contro la sostanza. L'intelligenza contro la tenuta mentale. Il rischio sottorete contro il calcolo dalla linea di fondo. La volée letale contro il recupero impossibile.
Per trentaquattro volte, ho tifato Nadal, perché ha incarnato i valori che possono portare gli sportivi a raggiungere limiti impensabili: la possibilità di non arrendersi al più forte, la voglia di non mollare mai. Ma questa volta, forse non l'ultimo incontro, ma probabilmente l'epilogo per quanto riguarda le finali Slam, sarà un'altra storia. Chi ama il tennis non può che amare il gioco espresso da Federer. Forse, anche per me, sarebbe più bello vedere trionfare lo svizzero contro Nadal, per l'ultima volta in uno Slam (Nadal ha ancora molte chance di mettere il suo nome sull'albo del Roland Garros per la decima volta).
Sarebbe la pagina più bella di una rivalità leggendaria, scritta da giocate metafisiche, dai pianti di Federer, dai «vamos!» di Nadal, di quinti set, di match da quattro o cinque ore. Rivalità di quelle che meritano di essere raccontate ai posteri.

Mostri sacri

[scritto dopo la finale vinta da Roger Federer, a freddo]
Il Re ha vinto, riscrivendo tutti i numeri di questo sport: diciotto Slam, l'ultimo a trentacinque anni, a quasi quattordici anni dal primo titolo.
L'ultimo Federer-Nadal è stato tutto ciò che si era visto nelle otto finali giocate tra i due. Naturalmente sono stati cinque set, naturalmente siamo stati male per quattro ore, naturalmente ci hanno condotti in spazi in cui nessun altra finale e nessun altro giocatore poteva condurci. Tennis giocato al massimo livello possibile (erano 31 gli Slam in campo!), scambi che diventano maratone, passanti impossibili, la sfida che diventa più mentale che fisica. La partita che si trascina al quinto set. Il compendio tra l’estetica del gioco e la tenacità della sostanza. Un riassunto epico dei precedenti trentaquattro atti di questa epopea, se si vuol chiamarla così, del tennis. Tutto ciò che gli appassionati di tennis volevano unanimemente vedere. Perché veder giocare assieme Federer e Nadal è stato un privilegio per la mia generazione. Stavolta, invece, è stato un lusso. 
Da quella giornata di giugno nel 2006, durante la prima finale Slam a Parigi, sono passati più di dieci anni. L'evoluzione dei volti di Roger e Rafa è l'espressione del loro tennis. Il re Federer ha mantenuto non solo la grazia del suo tennis, ma anche un'espressione armoniosa nei momenti di fatica, immagine di un talento longevo forgiato dal destino. Il guerriero Nadal non ha più la zazzera degli esordi e le gocce di sudore versate negli estenuanti recuperi sembrano fermarsi sui solchi di un volto scavato dal logorio fisico.
Il finale, il solito finale, sembra scritto, Nadal che cucina Federer allungando gli scambi, due set a testa, l'inerzia del match a favore di Nadal, con lo spagnolo che sente l'odore del trofeo. Federer riesce però in qualcosa mai successo prima. Rifiutare la sconfitta, l'ennesima sconfitta contro la sua storica nemesi. Se esistono i dei del tennis, evidentemente avevano preparato un finale di gloria, una dolcissima vendetta per l'uomo di Basilea che da anni insegna tennis in giro per il mondo.
La folla di Melbourne, rispettando Rafa ma tifando per Roger, è impazzita quando Federer è rientrato in campo dopo il medical time-out prima di iniziare il quinto set. A freddo, Federer ha subito perso il servizio, mentre i turni in battuta di Nadal sono sempre stati più veloci. Era Roger quello inguaiato. Ma poi ha ritrovato i tocchi vincenti che gli erano consoni dieci anni prima, angolando i colpi come ai vecchi tempi. Ha iniziato a galleggiare sul cemento di Melbourne, leggero come una farfalla. Si è ripreso il servizio perso, e sul 4-3 con Nadal in battuta, Roger ha avuto tre palle break.
Ma si sa, Nadal in queste occasioni, scava in tutto il suo inestimabile bacino di risorse: annullate. Federer vince dunque lo scambio più spettacolare della partita, un rally da ventisei colpi, che pronostico negli anni venturi cliccatissimo su YouTube. Altro vantaggio per Federer, altro salvataggio di Nadal. Poi, il break e Roger al servizio per il match. Alla seconda palla match spedisce un vincente sulla linea. Rafa chiama il challenge, Roger piange per la sua vittoria più dolce. Non più lacrime di delusione al termine della finale, ma un'esultanza finalmente liberatoria e un bacio alla coppa consegnatagli da Rod Laver in persona. Il più bel canto del cigno che si potesse narrare.
Questa è una di quelle partite in cui si avrebbe voluto vedere vincere entrambi, perché infine ci si immedesima in entrambi, e in mezzo, il nulla. Alla fine il mio cuore ha battuto tutto il match per il maiorchino, del quale sono tifoso da quel match assurdo giocato a Roma nel 2006, in cui seppe risorgere da sconfitta data ormai per imminente proprio contro Federer, che nel quinto set era due break avanti. Stavolta sono però felice per Roger, stavolta non poteva finire con una sconfitta. Era il finale più bello. E così è stato.
Federer ha trionfato a Melbourne per rendere più grande la straordinaria energia di Nadal, per rendere Rafa più umano agli occhi dei tifosi. Nadal ha perso questo ultimo appuntamento perché Federer potesse consacrarsi come la più grande mitologia del tennis, perché Roger potesse essere degnamente celebrato da chi ha vissuto la sua era e a chi verrà tramandata. Le dolci parole dei due nelle interviste a fine partita raccontano come sia possibile il connubio tra la grandezza della vittoria e la dimensione della sconfitta. Ibernateli, il mondo ha ancora bisogno di eroi così, il tennis ha ancora bisogno di Roger e Rafa.

La leggenda del tennis sotto i riflettori della Rod Laver Arena (fonte: 15minutenews.com)

«Congratulazioni a Federer, oggi probabilmente ha meritato più di me di vincere».
Rafael Nadal nell'intervista post-partita

«Quando ci siamo trovati alla tua accademia quattro mesi fa non pensavamo nessuno dei due di ritrovarci qui in finale. Oggi mi sarebbe andato bene anche perdere da te. Il tennis è uno sport duro, non esiste il pareggio, ma oggi lo avrei accettato».
Roger Federer nell'intervista post-partita

sabato 28 gennaio 2017

Bücher: Il senso di una fine

- Che cos'è la Storia? Qualche idea, Webster?
- La storia è fatta delle menzogne dei vincitori, - risposi un po' troppo fulmineo.
- Si, temevo che avrebbe detto così. Non dimentichi comunque che è fatta anche delle illusioni dei vinti.
Julian Barnes, Il senso di una fine


Un libro veloce, dalla trama semplice, ma intriso di contenuti di grande spessore, magistralmente illustrati da Julian Barnes, che con questa sua opera, Il senso di una fine, ha vinto nel 2011 il Man Booker Prize.
Il senso di una fine narra le vicende di Tony Webster, un uomo come tanti, con i suoi pregi e i suoi difetti, nelle fasi della sua gioventù e della sua anzianità. A legarle narrativamente il diario di un compagno di scuola, tramite il quale il protagonista tornerà sul suo passato - e inizierà a comprendere che la realtà può assumere forme diverse, inimmaginabili e inaspettate. Non posso aggiungere altro su una trama che, proprio per la sua semplicità tagliente, non merita di essere "spoilerata".
La vicenda dell'io narrante Tony Webster ci induce a riflettere sul valore della nostra vita e sul significato della morte. Lo fa per mezzo di una loquace attività cerebrale di ricordo e di recupero delle persone che hanno influito sul proprio percorso di crescita e maturazione: cosa erano, cosa hanno rappresentato, cosa sono ora, a decenni di distanza. Questo esercizio porta ad alcune conclusioni intrise del relativismo psicologico pirandelliano: la nostra verità non è e non può essere l'unica verità, ma spesso è una ricostruzione sbagliata di visioni deficitarie della realtà. Questa attività di ricordo è spesso un'arte barocca, ricca di quel superfluo necessario a garantire la visione che più ci conviene immagazzinare, la creazione di un puzzle conveniente per la nostra memoria. Ma è di questo che possiamo fidarci? No, perché al di là della fantasia, noi si è semplici spettatori, non sappiamo nulla della vita degli altri, nulla è sotto il nostro pieno controllo, sebbene le nostre parole possano indirizzare le altrui esistenze.
Questo è in fondo un esempio di come Il senso di una fine, tramite una prosa a tratti stupenda, assuma i contorni di un saggio di filosofia, pieno zeppo di elucubrazioni e disquisizioni che a volte possono sembrare banali, ma non lo sono affatto. Così come non lo sono alcuni dei messaggi che emergono con forza dal testo: «sfruttate il tempo a vostra disposizione!», «vivete intensamente!», «date un senso ai vostri giorni su questa terra!».
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 10/10 

venerdì 27 gennaio 2017

Meine schöne Stadt vol.2

Sono i giorni del gelo. Del gelo più totale. Così assoluto che pure un fiume imponente come il Meno, dalla lunghezza di oltre cinquecento chilometri e dal bacino idrografico paragonabile per grandezza a quello dell'Adige, si ricopre di ghiaccio. Ghiaccio che blocca ogni oggetto che prima galleggiava, dal rametto alla nave turistica.
Le navi mercantili si riscoprono navi rompighiaccio e lasciano una scia di "iceberg" sulla superficie del Meno. Dove non transitano, allora il fiume diventa un piccolo regno dei ghiacci, un Artico in miniatura.
Il bianco del ghiaccio, il freddo in grado di "immobilizzare" la corrente del fiume: questo è il gennaio della mia città.

La Schweinfurt ghiacciata

giovedì 26 gennaio 2017

Ich laufe im 2017: da una capitale all'altra

Ciao a tutti!
È un filo sottile quello che legherà la mia ultima (sfortunata) maratona al prossimo tentativo sui 42.195 chilometri. Un filo geografico, una questione di capitali. Dalla capitale del paese in cui vivo, Berlino, alla capitale della mia nazione, Roma, con l'auspicio che i sampietrini della Città Eterna mi permettano quantomeno di concludere la maratona con tutte le ossa al loro posto.
Roma è dunque la città prescelta per la prima maratona del 2017. Già dal 2013 coltivavo dentro questo desiderio, correre una maratona nella capitale. Per il fascino della città, del percorso unanimemente giudicato come uno dei più belli al mondo, perché veramente nel cuore nevralgico della città e non nelle periferie (come ahimé è per la maratona di Torino). Alla fine puntai a correre a Barcellona con i miei buoni motivi, ma ogni anno, quando si trattava di scegliere se e dove correre la maratona primaverile, Roma è sempre stata nella mia personale lista delle possibili scelte. Nel 2014 l'infortunio al ginocchio, nel 2015 l'influenza che mi fece cominciare in ritardo la preparazione e l'anno scorso, beh, avevo cose più importanti di una maratona da preparare. Il 2017 pare essere l'anno giusto.

Una maratona nel cuore di cotanta bellezza... (fonte: diariodenavarra.es)
L'appuntamento con la maratona di Roma è molto interessante per varie ragioni. Ecco, ho come... degli esami da compiere.
Verificare se il percorso è veramente meraviglioso come tutti coloro che hanno partecipato dicono; non dovrebbe essere difficile confermarlo, dato che arrivo e partenza sono in Via dei Fori Imperiali (!!!) e che si passa dalle più note piazze di Roma, tra cui le celeberrime Piazza Venezia, Piazza Navona, Piazza di Spagna e Piazza del Popolo.
Verificare se il percorso è veramente duro come viene descritto. Roma è tutt'altro che una città piatta, però il record della manifestazione è inferiore a quello delle maratone corse nelle principali città italiane. E poi ci sono i sampietrini, da tutti dipinti come una vera prova supplementare di resistenza al dolore muscolare.
Verificare se il mio piede, rotto durante la maratona di Berlino, è a posto. Verificare se posso riprendere a correre come lo facevo mesi fa. Beh, ho due mesi di tempo per scoprirlo.

Partenza da urlo in Via dei Fori Imperiali (fonte: romadaleggere.it)

Ancora dieci settimane di attesa, circa: l'appuntamento è in Via dei Fori Imperiali alle 8:40 di domenica 2 aprile 2017, per quello che vorrebbe essere il nono tête-à-tête con i 42.195 chilometri. Eccezionalmente all'ombra del Cupolone.
Bis bald!
Stefano

sabato 21 gennaio 2017

Un passo indietro, per guardare avanti - Maxiclassifica 2016

Ciao a tutti!
Puntuale come ogni anno, più di un orologio svizzero, è uscita la maxiclassifica della maratona, uno strumento con il quale si possono confrontare le proprie prestazioni sulla maratona, con le decine di migliaia di podisti italiani che ogni anno sfidano e si sfidano sulla distanza più importante del fondo. Sarò onesto, quest'anno ho atteso questa classifica con ridotto ardore, conscio che il risultato riportato alla maratona di Berlino - cronometricamente negativo, ma positivo alla luce dell'incidente che lo ha condizionato - avrebbe significato un consistente arretramento nella maxiclassifica del 2016.
Così infatti è stato. Il salto tra il miglior tempo del 2015, 3h14'32'' a Firenze (nonché mio miglior tempo in assoluto) e la performance dell'anno da poco concluso, 3h20'08'', a Berlino si è tradotto in un migliaio di posizioni perse. A livello assoluto, sono passato dalla posizione n°4209 alla posizione n°5370: ma quanti sono i maratoneti che tagliano idealmente il traguardo nel giro di poco più di cinque minuti…
Un dato in controtendenza rispetto agli ultimi anni è invece il numero di atleti che corrono almeno una maratona nell'anno solare. Se il trend degli ultimi anni era sostanzialmente proiettato verso una crescita del numero di partecipanti, quest'anno si ha avuto un leggero trend negativo: il decremento è nell'ordine del centinaio di unità, che su 32695 (questo il numero di maratoneti italiani nel 2016) non è molto significativo, ma spero che non sia una inversione di tendenza poco auspicabile per il movimento della maratona italiana e, in altri termini, dell'atletica leggera nazionale.

In attesa del 2017...

Il tempo "così-così" di Berlino si è sentito anche sulla classifica dedicata alla mia categoria (seniores uomini), dove ho perso una cinquantina di posizioni (dal 421° al 475° posto), in luogo di una diminuzione di oltre centocinquanta atleti. Una perdita che si attesta intorno al 7% dei maratoneti nella categoria tra i 30 e i 35 anni di età.
Un numero da non trascurare e che spero che possa ritornare in segno positivo già a partire dal 2017. Così come mi auguro che l'anno che è da poco iniziato possa essere il trampolino verso nuovi traguardi e nuovi obiettivi. Dopo un mese trascorso con il piede a riposo, tornare a correre, correre più forte che si può, è l'unica cosa che chiedo.
Bis bald!
Stefano

giovedì 19 gennaio 2017

Pure nature vol.28

L'inverno, qui in Bassa Franconia, quando picchia, picchia duro. Durissimo. O perlomeno, molto più di quanto noi italiani si sia abituati. Nonostante nella Pianura Padana il termometro costantemente sotto lo zero non sia certamente qualcosa di stupefacente, riesco ancora a stupirmi di come sia intenso qui il freddo. Prendiamo ad esempio questa settimana: tutti i giorni con il sereno, ma mai oltre lo zero. Mai. Anzi, temperature così basse che pure l'acqua del Meno (non del ruscelletto di campagna, eh, ma di uno dei fiumi più ampi ed estesi di Germania) si congela. Ed ecco che, a grazie a questo fenomeno, oggi (temperatura minima registrata: -12°C) mi si presenta questa scena, durante il mio consueto viaggio di ritorno in bicicletta dal lavoro.
Per tutti quelli che come Holden Caulfield (ne Il giovane Holden di J.D. Salinger) si chiedono dove vanno le anitre quando il lago gela, ecco la risposta.

Anatre sul ghiaccio del Meno

C'è c'è camminava sulle acque. E c'è chi zampetta sul ghiaccio.
Bis bald!
Stefano

martedì 17 gennaio 2017

Il ghigno del diavolo

Durante le vacanze natalizie una mezza giornata a Torino non me la posso mai negare. Alcuni affari, qualche ottimo amico e più di un hobby sono le motivazioni che mi spingono ad abbandonare la casa di infanzia nel bel mezzo della campagna per recarmi nel capoluogo piemontese, teatro della mia gioventù migliore, tra lo smog e la frenesia del traffico. Per queste vacanze, mi sono fatto un piccolo regalo: visitare la chiesa di San Lorenzo. I torinesi molto probabilmente sanno bene di che cosa parlo. Alcuni forse no, ma se parlo della chiesa reale e del ghigno del diavolo, forse qualcuno potrebbe ricordare o conoscere.
Alla chiesa reale di San Lorenzo, altrimenti detta anche la "Real Chiesa", si accede da Piazza Castello. La porta di ingresso si trova nell'edificio racchiuso tra Via Palazzo di Città e Palazzo Chiablese, l'anticamera di Palazzo Reale. A due passi dalla cancellata che divide Piazza Castello e la Piazzetta Reale. Se facciamo finta di non vedere la cupola posizionata sullo stesso asse della porta di ingresso, non pare possibile che quell'uscio possa condurre ad una chiesa. E invece si. Questa è solo una delle tante curiosità che costituiscono la storia di questa chiesa.

Il volto demoniaco che si intravede tra gli archi che sorreggono la cupola di San Lorenzo

Sebbene la realizzazione di questa chiesa - progettata dal Guarini dal 1668 al 1680 - risalga alla seconda metà del XVII secolo, le radici storiche risalgono ad oltre un secolo prima, per la precisione al 10 agosto del 1557. Questa data è storicamente ricordata come il giorno della battaglia di San Quintino, uno degli episodi chiave delle Guerre d'Italia combattute tra la Francia e la Spagna nel XVI secolo, le quali determinarono per molti decenni a venire gli equilibri territoriali sul suolo italiano. A comandare le truppe spagnole c'è Emanuele Filiberto di Savoia, meglio ricordato a Torino come Testa di Ferro. Assieme al re di Spagna Filippo II, Emanuele Filiberto promette in caso di vittoria in battaglia, di costruire una chiesa in onore del santo festeggiato il 10 agosto. San Lorenzo, per l'appunto.

La chiesa senza la facciata

La vittoria a San Quintino garantì al casato sabaudo di ripristinare il loro dominio sulla Savoia e sul Piemonte. Ma la chiesa venne eretta solamente un secolo dopo, sulle basi di una cappella che oggi è l'anticamera di San Lorenzo. Sul progetto lavorano molti architetti, ma la realizzazione avviene solamente con l'impulso decisivo di colui che è considerato l'"architetto sabaudo per eccellenza", Guarino Guarini. Il progetto degli esterni di San Lorenzo concepito dal Guarini fu però ben diverso da cosa vediamo noi oggi, perché non vi è la facciata da lui progettata. Essa non venne infatti mai costruita, in quanto casa Savoia ritenne che essa spezzasse l'equilibrio e la simmetria di Piazza Castello. La chiesa di San Lorenzo, dunque, non ha una vera e propria facciata e, se non fosse per la cupola, nulla lascerebbe pensare che in questo luogo possa sorgere una chiesa.

Vedete linee curve in questa chiesa?

La chiesa di San Lorenzo è di gran lunga il miglior esempio del barocco torinese, un vero capolavoro e per certi versi un'opera geniale. A partire dalla "rappresentazione della luce" nell'interno dell'edificio, cupo in basso e luminosissimo in alto. Niente permette di illuminare il livello adiacente al pavimento, nessuna finestra, le alte cappelle concave e la piastrellatura scura conferiscono alla chiesa un aspetto quasi tetro. In alto, invece la galleria, con le sue otto (tenere a mente questo numero) finestre è estremamente luminosa. Il Guarini, che oltre ad essere architetto era anche teologo e sacerdote, fu chiaro nel suo intento. In basso, l'oscurità e il peccato dell'umanità; in alto, la luce e la redenzione del creatore. Tra i due livelli, trovano posto gli evangelisti, a mo' di simbolico filtro tra il bene e il male.

Il male che guarda il bene (in basso)

Otto: tutta la chiesa è costruita attorno a questo numero. L'otto è il numero dell'infinito, ciò che l'uomo vuole raggiungere per mezzo della fede. Ottagonale è lo spazio attorno al quale ruota la chiesa. Otto sono le finestre sotto la cupola, al centro della quale si trova una stella a otto punte. Otto sono i petali del fiore immaginario che si forma dall'incrocio degli otto archi che sorreggono la cupola. E a proposito di archi, come non notare una delle più grandi curiosità di questa chiesa: è il volto del diavolo, il ghigno malefico di una creatura demoniaca. Difficile dire se Guarini volesse veramente rappresentare una creatura infernale dall'incrocio degli archi che sorreggono la cupola, ma tant'è. Ora, quando un torinese entra in San Lorenzo, non può fare a meno di volgere lo sguardo verso l'alto, con rinnovato stupore, quell'essere che, secondo una delle più note interpretazioni, guarda dall'alto il "bene" che viene celebrato all'interno della chiesa.

Gli oculi illuminati durante gli equinozi

E per stupire ulteriormente i visitatori, ci sono i giochi di luce che si possono ottenere durante i due equinozi. Guarini, amante e cultore delle scienze progettò sicuramente tutto al fine di meravigliare, tra l'altro uno degli intenti dello stile barocco. A mezzogiorno, nei giorni di equinozio, infatti, la luce illumina un oculo all'interno del quale c'è un affresco. Per riflessione, questo raggio raggiunge anche l'oculo opposto, creando un suggestivo gioco di luce. Ci va il sole, e trovarsi in centro a Torino ad inizio primavera o inizio autunno. Difficile, per il sottoscritto, ahimè.

Rappresentazione seicentesca della Sindone

Ma la Real Chiesa di San Lorenzo è anche la sede di alcuni capolavori dell'epoca e di alcuni riferimenti della storia di Torino. L'altare, realizzato dal Guarini, è un'altra delle principali attrazioni barocche di Torino: al centro di esso spicca il quadro con il voto fatto da Emanuele Filiberto durante la battaglia di San Quintino. A destra dell'altare, sotto la cappella della Concezione si trova la pala del Muratori con un angelo che porta in dono, come a volerla proteggere dalla rovina, la Cittadella di Torino, circondato dai santi di casa Savoia. Interessanti anche altre due cappelle sul lato destro della chiesa: nella cappella di San Gaetano Thiene è racchiusa la statua dell'omonimo santo, fondatore dell'ordine dei Teatini, al quale apparteneva proprio il Guarini; nella cappella della crocifissione, invece, vi è un preciso riferimento alla prima ostensione della Sindone a Torino (era il 1578) - l'altare è ancora opera del Guarini e si fa in fretta ad individuare la rappresentazione del lenzuolo più famoso al mondo.

Otto

Dentro la Real Chiesa di San Lorenzo ce n'è un po' per tutti i gusti. Per gli amanti della storia, che qui potranno ritrovare alcuni dei momenti che hanno contribuito a costruire l'Italia. Per gli amanti dell'arte, che non possono rimanere a bocca aperta dal barocco dirompente del Guarini, in un edificio in cui la linea retta è un'emerita sconosciuta. Per gli amanti dell'astronomia, grazie ai sapienti calcoli del Guarini. Per gli amanti dell'esoterismo e del simbolismo, tra numeri e demoni, nel cuore di una città in cui "abbonda il mistero" (cit. Luciano Ligabue).
San Lorenzo è meta obbligatoria: per i torinesi, che non la conoscono bene, e per i non torinesi, ovviamente. Aprite quella modesta porticina che si affaccia su piazza Castello. Dopo, da essa, non vorrete più uscine...
Bis bald!
Stefano

mercoledì 11 gennaio 2017

Bücher: Nel caffè della gioventù perduta

"In una vita che a volte ti appare come un grande terreno abbandonato senza indicazioni stradali, al centro di tutte le linee di fuga e di tutti gli orizzonti perduti, farebbe piacere trovare dei punti di riferimento, tracciare una specie di mappa catastale per non avere più l'impressione di muoversi a casaccio. Perciò si stringono legami, si tenta di rendere più stabili gli incontri casuali."
Patrick Modiano, Nel caffè della gioventù perduta


Per commentare la lettura de Nel caffè della gioventù perduta di Patrick Modiano, si potrebbe partire proprio dal titolo. L'aggettivo perduto è la chiave di questo enigmatico romanzo del Premio Nobel per la Letteratura 2014. Perché in questa vicenda di ragazzi giovani, squattrinati, bohemien e talvolta anche un tantino loschi, in una Parigi incredibilmente malinconica, la perdizione può essere un'importante chiave di lettura.
Perduta è la trama del libro, che non ha un vero inizio e una vera fine, ma è l'intima esposizione, da quattro punti di vista diversi, con diversa sensibilità, della storia di una giovane ragazza di nome Louki. Si succedono nella narrazione un studente, un investigatore assoldato dal marito di Louki per ritrovarla, la protagonista stessa e il suo amante.
Perduti sono i diversi ricordi che emergono dalle voci narranti lungo il corso del romanzo. Che, tra continui flashback e flashforward, provano ad intrecciarsi per delineare una storia in cui emerge con forza quanto siano fragili i legami (perduti anche quelli? leggendo questo libro, direi di si). Perduto è il classico bar della Rive Gauche in cui ha inizio e ha "idealmente" fine il romanzo, sostituito da una boutique. Perduta è la Parigi delle "zone neutre", dove l'essere umano si deforma fino a snaturarsi. Perduta è la gioventù che descrive Modiano, tra droga e vagabondaggio, allucinazione e illegalità. Ma dalle parole di Modiano la gioventù appare perduta in un senso più grande, e in fondo non è altro che una verità di fatto, perché la giovinezza viene e non torna più. Perduta, quindi.
Perduta è soprattutto Louki, la protagonista attorno a cui ruota il romanzo: sfuggente, disorientata, una ragazza in costante ricerca di affetto e allo stesso tempo in perenne fuga da esso, ma con un fascinoso potere magnetico. Nel caffé della gioventù perduta è letterariamente parlando una Gioconda. Louki è il costante primo piano, Parigi e l'umanità che la popola sono uno sfondo necessario. La loro unione dona vita ad un capolavoro.
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 9/10 

sabato 7 gennaio 2017

Bücher: Il magico potere di sbattersene il c***o

"Era un tipo simpatico, socievole e rispettabile, ma riservava chiaramente i suoi sbattimenti alle cose che per lui erano davvero importanti: avere un bel rapporto con i suoi figli, giocare a golf e tornare a casa tutte le sere in tempo per vedere qualcosa tipo Affari tuoi. E il resto? Se. Ne. Sbatteva. Alla. Grande."
Sarah Knight, Il magico potere di sbattersene il c***o


Il magico potere di sbattersene il c***o: più che un libro, un manuale che vorrebbe insegnare a smettere di perdere tempo e denaro per impegni poco interessanti e conoscenti ai quali non ci sentiamo particolarmente legati. Mi sono avvicinato a questa pubblicazione per caso, grazie a Giulia, che dopo avermi sconvolto con la lettura-trash Il magico potere del riordino (che non ho letto, mi è bastato intravederne alcuni stralci), ha provato a stupirmi con Il magico potere di sbattersene il c***o, che ritenevo potesse dare qualche indicazione utile per vivere con meno ansie e meno preoccupazioni. In estrema sintesi, "sbattersene".
Una buona indicazione c'è ed è l'utilizzo della "linea politica": se qualcosa non vi va, è perché non rientra nella vostra personale linea politica. Un metodo elegante e discreto per dire "no, di questo io me ne sbatto". Gli spunti di interesse finiscono qui, con la "linea politica", il resto è poca cosa.
C'è tanta, troppa confusione in questo manuale dello sbattersene. Si parla di fasi, di liste, di categorie... oggetti che tendono a confondersi facilmente. Ma non è esagerato tabulare qualcosa che il più delle volte non ha sostanza ma è immateriale, come la preoccupazione o l'ansia? Spesso vengono considerate situazioni che poco hanno a che fare con la vita reale di un europeo (l'autrice è americana), ancor più frequentemente certe situazioni vengono generalizzate o non tengono conto di possibili restrizioni. 
Troppe volte si parla di "sbattimenti" e di "sbattersene". Dopo questo tripudio di sbatti-qualcosa il desiderio istintivo è stato quello di sbattersene del libro stesso. Mi piace però arrivare fino in fondo, anche perché l'ironia dell'autrice si fa comunque apprezzare. Proprio per questo ho selezionato alcuni tra i passaggi più interessanti de Il magico potere di sbattersene il c***o...

"Ho smesso di sbattermi per i meeting con quelli delle vendite. Ho smesso di sbattermi per il casual aziendale e per le riunioni informali. Ho smesso di tenere il conto dei miei giorni di vacanza come un carcerato che segna il tempo che gli resta da scontare a forza di crocette sul muro della cella".

"Avviandomi verso i trenta, mi sono fidanzata e ho cominciato a organizzare il mio matrimonio, un’impresa che richiede una vera e propria cornucopia di sbattimenti: il budget, la location, il catering, il vestito, le foto, i fiori, l’orchestra, la lista degli ospiti, gli inviti (con tanto di testo da stampare e spessore del cartoncino), le promesse matrimoniali, la torta nuziale e tutto il resto...la lista è infinita. Di molte di queste cose mi importava davvero, ma di altre per niente: eppure mi sono sbattuta per ogni singola rogna perché non pensavo di avere un’alternativa. Mi sono stressata al punto che definirmi "felice e contenta" non poteva essere più lontano dalla realtà. Quando è arrivato il gran giorno avevo l’emicrania, un mal di stomaco persistente e un’orticaria dello stesso rosa confetto dei fiorellini del mio vestito. Ripensandoci: aveva davvero senso litigare con mio marito per decidere se suonare Brown eyed girl di Van Morrison al ricevimento?"

"Il numero di sbattimenti che dovete dare in prima persona è un bene finito e prezioso. Se ne date via troppi, rimanete senza (è come andare in rosso con il vostro conto in banca), e il risultato è che vi sentite ansiosi, stressati e disperati."

"Uno dei motivi per cui i bambini se ne sbattono alla grande è che non hanno esperienza della vita. Le loro menti sono intatte perché non hanno ancora incamerato tutte le cazzate del mondo. Non hanno niente da riordinare, parlandone a livello mentale. Tutte le fortune, razza di stronzetti."

"Forse penserete: «Non riuscirò mai a smettere di preoccuparmi di quello che pensano gli altri. Ce l’ho nel DNA!». Ascoltatemi bene: il vostro DNA non vi porterà granché lontano. Per vivere la migliore delle vite dovete craccare il sistema."

"Se siete stati sinceri e gentili, e potete uscirne tranquilli, con la consapevolezza che ve ne sbattete di quello che pensa Stacey, e lei non vi può criticare per qualsiasi cosa abbiate detto. Come vi fa sentire tutto questo? Per nulla dispiaciuti."

"Se il fatto di sbattervene influenza direttamente qualcun altro (come rifiutarsi di comprare del burro di arachidi fatto in casa o tranciare giudizi sulle scelte genitoriali degli amici), siate sinceri e gentili rispetto alla vostra decisione, cercate di metterla in termini di divergenza di opinioni, e il 99 per cento delle volte filerà tutto liscio."

"Per massimizzare il vostro potenziale di felicità, dovete considerare le conseguenze prima di impegnarvi in uno sbattimento."

"Ascoltatemi bene, so che siete elettrizzati all'idea di applicare il Metodo NotSorry e non vedete l’ora di mandare a fanculo vostro cognato con i suoi sms di gruppo sulle politiche nazionali di immigrazione... però non cedete alla tentazione. Posso testimoniare che cominciare con i parenti è puntare dritto alla catastrofe."

"La colpa non è un’emozione felice. È più come quella sensazione che provate quando avvertite un prurito improvviso e atroce alla zona inguinale, ma siete circondati da un sacco di gente e non potete grattarvi, e fareste qualsiasi cosa per avere un po’ di sollievo. Ecco cos'è il senso di colpa."

"È una verità universalmente riconosciuta che i componenti di una famiglia tendono a pensare che gli altri componenti della medesima famiglia debbano farsi in quattro per loro solo perché hanno lo stesso DNA."

"Quando ci si sposa, sostanzialmente si raddoppiano in un sol colpo i propri sbattimenti. È come quando vi danno un bonus sul lavoro, e voi, «Evvai!», e poi ve lo tassano al 50 per cento, e voi, «Evvaf!»."

"È già abbastanza dover lavorare tutti insieme giorno dopo giorno: dobbiamo anche lavorare sul nostro modo di lavorare? È come essere fra gli interpreti di un brutto film di Fellini, ma bevendo un caffè ancor peggiore."

"Lascia che te la rimbalzi in altri termini. Vorresti che gli altri si sentissero in dovere e/o colpa al punto da fare qualcosa per te controvoglia? La risposta a questa domanda dovrebbe essere sempre no, altrimenti sei uno stronzo. E non sapresti quello che pensano, a meno che loro non se la sentano di dirtelo, e viceversa."

"Avete mai sentito parlare del teorema della Scimmia instancabile? È stato usato in un episodio dei Simpsons in cui Mr. Burns tiene incatenate alla scrivania mille scimmie che lavorano a mille macchine da scrivere: l’idea è che, con un tempo sufficiente a disposizione, le scimmie possano arrivare a comporre le opere di Dickens. Nella sostanza è così che viene formulata una missione di impresa, ed è per questo che potrete sbattervene di memorizzarla o rispettarla. È il prodotto di un numero incalcolabile di ore di brainstorming e di gruppi di discussione che danno origine al testo pubblicitario più insulso e generalizzato, meno potenzialmente offensivo e non di rado più imbecille che possa mai essere creato da un gruppo di scimmie in qualunque ufficio direzionale del mondo."

Bis bald!
Stefano

Giudizio: 4/10 

giovedì 5 gennaio 2017

Saluti da Asbury Park

Sticker smiles sweet as gunner breathes deep, his ankles caked in mud
And I said, "Hey, gunner man, that's quicksand, that's quicksand that ain't mud
Have you thrown your senses to the war or did you lose them in the flood?"
Bruce Springsteen, Lost in the flood


Fortunatamente c'è la radio a ricordarmi certe notizie (viva la radio!). È il 5 gennaio, un giorno come altri. Non nel mondo nella musica, però. Era il 5 gennaio del 1973 e nei negozi di dischi faceva la sua comparsa il primo album in studio di Bruce Springsteen, Greetings from Asbury Park, N.J.. Non il successo commerciale che furono gli album che vennero pubblicati negli anni successivi, come Born to run o The river, ma il primo piccolo passo verso l'inarrestabile ascesa di The Boss, un ascesa che lo ha portato nel 2016 ad incassare dai propri concerti 268 milioni di dollari: nessuno come lui nel mondo.
5 gennaio, una data in apparenza insignificante, una data che segnò la storia della musica.

lunedì 2 gennaio 2017

Sulle tracce dell'Alta Via - Pace e visioni al Rifugio Bonatti

"Vede, io vivo in Germania in pianta stabile da qualche anno, torno in Italia solamente per qualche giorno all'anno. Questa è la quarta volta che vengo al Bonatti. Non tornavo da oltre quattro anni, sono voluto venire proprio perché ne percepivo la necessità. Quando ho bisogno di cercare la pace lontano dalla frenesia della nostra civiltà, so di poter trovare la soluzione al Bonatti. Soprattutto in inverno."
un dialogo (ipotetico)

Senza didascalia alcuna
Una sola giornata a disposizione per tornare tra i monti che amo. Una sola giornata a disposizione, perché nella tradizionale settimana di vacanza che mi è concessa tra Natale e Capodanno, vorrei fare tante cose, ma poi c'è la famiglia, ci sono gli amici e tante piccole incombenze che richiedono di essere sistemate. Una sola giornata a disposizione significa una cosa ben precisa: la meta devo sceglierla bene. Nel ristretto novero dei luoghi ai quali mi sono idealmente legato, andando per montagne, forse quello che porto più nel cuore è quel pendio sul quale sorge il Rifugio Bonatti, laddove basta un movimento veloce del collo per raggiungere con lo sguardo la Val Veny prima e le Petites Jorasses dopo. E ad esso ho legato indissolubilmente il ricordo dell'Alta Via dei Giganti.

Una campana all'ombra dell'Aiguille Noire de Peuterey

Raggiungere il Rifugio Bonatti in inverno comporta un piccolo sacrificio. Bisogna alzarsi presto: questa per me è sempre stata una abnegazione (relativa), ma d'inverno lo è ancora di più. Non lo faccio per sadomasochismo, eh. Ci sono tre evidenti motivi: il traffico della tangenziale torinese e della Torino-Aosta sono ridotti quando il sole è ben lungi dal sorgere; la Val Ferret, che in inverno si trasforma in una meravigliosa pista da fondo, è meno affollata; soprattutto, partire presto significa poter raggiungere in auto la frazione di Planpincieux, che oltre le 9 di mattina è raggiungibile solo per mezzo di una navetta.
È un sacrificio, questo, che viene ricompensato velocemente quando nel tratto autostradale tra Aosta e il tunnel del Monte Bianco inizia ad affacciarsi con forza la sagoma maestosa della cima più alta d'Europa. Sono fortunato perché il Monte Bianco è uno specchio di luce. Nonostante l'innevamento non sia dei più abbondanti, c'è neve a sufficienza per riflettere vigorosamente le prime intense luci dell'alba.

A Planpincieux, appena sceso dall'auto

All'imbocco della Val Ferret trovo la strada aperta. Risalgo velocemente la tortuosa lingua d'asfalto che conduce a Planpincieux, ansioso di poter iniziare a piedi la strada verso il Bonatti. Tutto è ghiacciato, così duro che non servono neanche le ciaspole. Non si affonda in questa neve, indurita dagli ultimi giorni di gelo e senza ulteriori innevamenti. Lascio le ciaspole in macchina, dunque, e inizio la mia risalita della Val Ferret.
Il percorso che porta verso il Rifugio Bonatti consta essenzialmente di due parti: prima, la risalita della Val Ferret, a fianco della pista per lo sci nordico, lunga ma pianeggiante, con favolosi scorci sul Monte Bianco - tra i più belli che si possano incontrare; dopo, inizia la salita vera e propria, sul versante orografico sinistro della Val Ferret: da coprire ci sono poco più di trecento metri di dislivello.

Lo spuntone di roccia della Punta Walker delle Grandes Jorasses

La salita inizia dopo i tornanti che si incontrano dopo l'abitato di Lavachey, ad un'ora di cammino da Planpincieux. Si abbandona il comodo sentiero che conduce al Rifugio Elena, svoltando a destra e risalendo il pendio opposto a quello di Grandes e Petites Jorasses. Basta seguire le tracce di chi è già salito nei giorni precedenti, con sci o ciaspole verso il rifugio - nel bosco è assai semplice, fuori un po' meno. Ricordavo il sentiero decisamente più duro. Forse perché lo affronto con comodo, senza fretta alcuna, o forse perché questa volta lo percorro con equipaggiamento leggero (un ricambio, il thermos e una banana). Servono trenta/quaranta minuti per risalire questo pendio, che nel tratto finale, prima che compaia finalmente il rifugio, diventa ripidissimo, dalle inclinazioni degne di Kitzbühel e Wengen.

L'ultimo ripido pendio con vista Monte Bianco

Al rifugio ci siamo io e il rifugio stesso – suoi abitanti inclusi. Tutto tace, non c'è alcun rumore che possa scalfire questo silenzio. L'unico segno di vita in questo biancore è il fumo che esce dal comignolo, chiara indicazione che il rifugio è aperto e vivo. Rimango un po' lì fuori, a contemplare la meraviglia che la natura che ha creato e ci permette di ammirare. Però il rifugio è ancora all'ombra e se non il sole non illumina, in inverno, c'è da battere i denti. Riparo all'interno del rifugio. Chiedo un tè e soprattutto chiedo se posso sedermi dove voglio.

Spunta il Rifugio Bonatti

Perché nell'interno del rifugio – lo dico da sempre, è uno dei rifugi più belli che io abbia mai visto – c'è una posizione dal quale si può vedere veramente tutto. La Val Veny, il Monte Bianco. Tutto quello di cui avevo bisogno in quel momento. La visione più bella, in compagnia del calore del rifugio e di un tè caldo. Guardo e contemplo con aria felice, rilassata. Di fronte allo spettacolo di questa montagna, sorseggiando con calma il mio tè – non c'è fretta, ripeto – mi sorprendo a sorridere. La visione continua ancora, perché a quel punto una buona polenta concia non me la può più negare nessuno. Tutto di fronte a quell'opera d'arte che ho di fronte, tra le foto di Bonatti che tappezzano l'interno del rifugio.

Il freddo panorama del Monte Bianco dal caldo del Rifugio Bonatti

La Val Veny, con le sue Pyramides Calcaires e il tratto finale del ghiacciaio del Miage. Tutta la cresta di Peuterey, dalla quale spunta l'Aiguille des Glaciers, e lungo la quale si guardano due giganti: l'Aiguille Noire e l'Aiguille Blanche, rispettivamente il re e il suo trono, avamposti terreni del Monte Bianco e del Monte Bianco di Courmayeur, che raramente brillano di luce così intensa nel suo versante del Pilier d'Angle (dove proprio Bonatti firmò una delle sue imprese più famose - vedi post). La Punta Walker delle Grandes Jorasses e le Petites Jorasses, sono i due Golia che guardano con aria spavalda tutti i Davide che da sotto non possono far altro che ammirare e sognare. Sognare le montagne più belle, qui si può. Ora è facile comprendere perché io sia voluto venire proprio qui.

Ombre sulla Val Ferret

Scendo a valle tra gioia e malinconia. Sono ben conscio che passerà del tempo prima che io ritorni qui, ma so che oggi ho fatto il pieno di carburante per i mesi che verranno. Ad accompagnarmi, nei prossimi giorni, così lontano da queste montagne, ci saranno le immagini di una giornata che aspettavo da tempo e che no, non poteva deludermi.
Bis bald!
Stefano

domenica 1 gennaio 2017

Buon 2017!

Un anno di felicità.
12 mesi di salute.
52 settimane di sorrisi.
365 giorni di affetto e di amore.
8760 ore piene di vitalità e di energia.
525600 secondi carichi di gioia e di positività.
Che il 2017 possa essere tutto questo. Tanti Auguri di Buon Anno Nuovo!


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