domenica 3 agosto 2014

Quella lacrima che sale sul podio

"Ma alla fine ha pianto. Mezza lacrima, forse due. Ma alla fine ha pianto. Di sfinimento, di commozione, di emozione. Ma alla fine ha pianto. Ha serrato la mascella, si è mangiato le labbra, ha deglutito i brividi. Ma alla fine ha pianto.
Vincenzo Nibali era un ragazzo che un giorno ha chiuso in valigia i suoi primi 15 anni di vita e ha imparato che non si piange. Non serve, non vale, non aiuta. Perché è un siciliano, anche se piccolo, vanta orgoglio e fierezza. Perché un guerriero, anche se in bicicletta, non deve mai dimostrarsi debole, fragile, invulnerabile. Perché un corsaro, anche se non necessariamente nero, non ha sentimenti, altrimenti li nasconde, li soffoca, li strozza. Capitava così quando aveva nostalgia di casa e di bottega, di arancini e cannoli, di mare e campagna. Così quando vedeva gli altri corridori scattargli in faccia, quando obbediva per aiutare un capitano meno forte di lui, quando l'asfalto improvvisamente gli slittava sotto le ruote. Così sempre, spesso, talvolta. Così da piccolo, così da grande. Così anche in questo Tour de France, 3660.5 chilometri, 89 ore 59 secondi e 6 secondi, ma una rincorsa lunga otto mesi. Fino a ieri.


Un nuovo uomo solo al comando (fonte: gazzetta.it)

Più facile essere un uomo solo al comando, anche sull'Hautacam, che un uomo solo sul podio, soprattutto se sui Campi Elisi. Nibali aveva gli occhi lucidi quando ha superato l'ultimo traguardo, quando si è abbracciato con i compagni, quando è sceso dalla bicicletta ma stavolta quasi separandosi, quando è stato sommerso da genitori e amici, quando si è stretto a Rachele, la moglie, e a Emma, la figlia, quando ha dichiarato «con la mia vittoria, ma non solo con quella, spero di ridare fiducia a questo sport, il ciclismo è cambiato e possiamo esserne fieri». Ma poi gli otto gradini per salire sul palcoscenico lo hanno steso più del pavé di Arenberg, più dei passi alpini e dei colli pirenaici, più degli attacchi dei francesi e dei ventagli degli americani, più delle volate dei tedeschi e del peso degli assenti. Il discorso era previsto, poi preparato, infine letto: «Nei giorni scorsi quando mi chiedevano qual era stato fino a quel punto del Tour il momento più bello, avevo anticipato che nessuna gioia per una vittoria poteva essere paragonabile a ciò che si prova quando ci si trova su questo podio sugli Champs Elysée. Ora che mi trovo veramente qui, sul gradino più alto, devo dire che è ancora più bello di quanto potessi immaginare». E, fra i ringraziamenti, finalmente ha ceduto, inciampando con la voce, come una bici con la gomma forata o la catena saltata: «Se non avessi accanto Rachele, la mia prima bimba Emma e non avessi avuto fin dalle prime pedalate in bici il sostegno di genitori come i miei, non so se qui ci sarei arrivato lo stesso». Eccole qui: mezza lacrima, forse una, al massimo due. Ma decisive.


Sul gradino più alto del podio (fonte: Presse Sports)

Intanto, dietro le quinte, si ricreavano il clan dei messinesi, la banda dei toscani, il popolo degli italiani. Il padre e la madre siciliani, il padre e la madre toscani, il cognato, il fratello del cognato, lo zio, l'amico del fratello del cognato, il ragioniere, il parrucchiere, il primo allenatore, Carlo Alberto, Raniero, lo spezzino, Meri, il marito di Meri e il fratello di Meri, mancava Arianna ma era come se ci fosse. Parentele mischiate ad amicizie intrecciate a soprannomi. Voci mischiate a cori intrecciati a inni. L'elmo di Scipio e i pedali di Vincenzo. A mille chilometri di distanza, il presidente del Consiglio Matteo Renzi si univa alla festa: «La Francia si deve fidare di noi - ha detto presenziando al porto di Genova - per la Concordia e per il grande Nibali».



Nel fango e nel freddo di Arenberg (fonte: enricovivian.blogspot.com)

Grande Nibali, e grande anche Rachele, che si rimpiccioliva dietro il suo uomo. Ricordando: «Carino. È la prima cosa che ho pensato la prima volta che l'ho visto». Confessando: «Gli avevo detto: "Se vinci, veniamo; se no, no". Ha funzionato». Minacciando: «Adesso, se perde la testa, lo rimettiamo subito in riga». Sospirando: «Com'è magro. Ha le spalline a uccellino. Se è troppo magro, poi sfiguro io». Spiegando: «Non sono io, ma Emma. Da quando c'è lei, è più rilassato, tranquillo sereno. Ed è perfino più simpatico. Senza Emma il gesto del ciuccio, attraversando il traguardo, non lo avrebbe mai osato farlo». Sostenendo: «È un siciliano atipico. Bianco, freddo, timido». Rivelando: «Mi si è autopresentato Mario Cipollini. Sono rimasta senza parole. Statuario, monumentale. Voleva vedere Emma».



Bernard Hinault lo inconona tra i grandissimi (fonte: redkiteprayer.com)

Emma non aveva bisogno di rimpicciolirsi. Cinque mesi, oggi. Un abitino vaporoso giallo cangiante. Una fascia bianca con una margherita tra i capelli. I piedini nudi. La pelle candida. Le guance a soffietto. Gli occhi che viaggiavano dal papà alla mamma, dai Cannibali di Mastromarco a quelli di Messina. Non ricorderà nulla di questa festa alberata, di questo rito ciclistico, di questa serata parigina, di questa voglia di Italia e di italiani in testa, in cima, in alto. Ma Vincenzo saprà raccontargliela, ricamando nei dettagli. E a distanza di chilometri e anni, da vecchio siciliano guerriero corsaro, finalmente si farà accarezzare, un'altra volta, da mezza lacrima, forse una, al massimo due."
di Marco Pastonesi, La Gazzetta del Sport, 28 luglio 2014



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