mercoledì 29 luglio 2015

Memorie di un camminatore - Aneddoti dall'Alta Via n.2 della Valle d'Aosta

Ho sempre pensato - e ogni volta che mi ritrovo tra i monti accresce la mia convinzione - che la montagna abbia sempre qualcosa da raccontare. I sentieri narrano le migrazioni, le speranze, le vite vissute. La roccia dei monti tramanda il susseguirsi delle ere e delle mani che li hanno scalati. Le persone che vivono la montagna, spesso oppure ogni giorno, ma sempre intensamente, potrebbero parlare per ore e ore. E non ci si stuferebbe mai, perché sì, la montagna regala storie che solo pochi altri posti al mondo possono vantare.
In questo post ho raccolto un po' di tutto. Racconti, storie di vita, aneddoti curiosi raccolti sui passi dell'Alta Via n.2 della Valle d'Aosta. Una miscellanea di episodi e fatti seri e semiseri (quindici in totale, elencati in ordine decrescente), con la quale provo a raccontare la montagna valdostana in un altro modo, lasciando da parte per un attimo la bellezza del panorama e dando spazio a spunti di vita vera sulle orme di un grande percorso alpino.
Bis bald!
Stefano

Ad Orvieille

15- Il Cervino. L'Alta Via n.2 della Valle d'Aosta non può essere considerata come l'alta via del Cervino, in quanto non attraversa alcuna delle valli sulle quali si affaccia questa montagna (Valtournenche e Valpelline). Ma, incredibile a dirsi, ho avuto modo di ammirare il Cervino meglio che nell'Alta Via n.1, in ben tre punti (Col Pousseuil, discesa dal Col de la Fricolla, Col de la Crosatie). Non voglio scoraggiare chi desiderasse intraprendere l'Alta Via n.1: il mio problema fu legato al maltempo incontrato nei punti chiave di quell'alta via. A Cheneil, vero balcone sulla Gran Becca, il cielo era più che coperto.

Il Cervino visto dalla discesa del Col de la Fricolla

14- Onte-factor. Il meteo mi ha certamente avvantaggiato, non posso negarlo. Sarei uno stupido a lamentarmi delle condizioni atmosferiche che ho incontrato durante i dieci giorni di alta via, in quanto non ho mai dovuto ricorrere a giacche a vento e mantelline. Ma gli anticicloni Flegetonte prima e Caronte dopo hanno reso più faticoso il mio percorso, soprattutto nei primi e negli ultimi giorni di alta via. Nei primi, soprattutto, quando le quote erano più basse e le gambe non ancora rodate, il caldo ha avuto una certa influenza sulla mia tenuta fisica. Il caldo è stato micidiale: dopo dieci minuti di cammino, una goccia di sudore compariva sulla punta del mio naso, la maglietta andava cambiata ogni ora (o quasi) e periodicamente dovevo strizzare il polsino per far sì che ne uscisse tutto il sudore. Non è uno scherzo neanche quando, alle 10.30 di mattina, il termometro di un rifugio (il Dondena, a 2100 metri circa), segna 27 gradi. Condizioni assolutamente non normali, che mi hanno permesso addirittura di vedere mucche che preferivano farsi un bagno nel torrente invece che pascolare…

27 gradi in montagna!

Pure le mucche hanno caldo...

13- Duro e puro. L'Alta Via è un grande percorso che merita di essere vissuto completamente. Una delle possibili sfaccettature di questa mia filosofia sta nel voler percorrere interamente il sentiero dell'alta via, senza ricorso a scorciatoie o espedienti. E quindi, non ho preso la navetta che da Lillaz va a Cogne, non ho accettato il passaggio che nel lungo e noioso tratto da La Joux a La Thuile mi era stato offerto («Scendi a La Thuile? Vuoi uno strappo?»), non ho provato la scorciatoia del Passo di Planaval nell'ottava tappa, la quale mi avrebbe permesso di risparmiare tre ore di cammino.
Uno strappo in macchina l'ho in realtà accettato (vedi punto 2), ma si capirà che non ho sgarrato. L'Alta Via l'ho camminata completamente dal primo all'ultimo chilometro.

Un tratto di asfalto: da Lillaz a Cogne

12- Marmotte. Fine della tappa n.3, da Champorcher al Rifugio Sogno di Berdzè. Mi trovo in una delle stanze del rifugio, momentaneamente solo, nell'intento di rilassarmi dopo le fatiche della giornata. La finestra è aperta, e "origlio" le conversazioni del team del rifugio con i clienti.
Si parla di marmotte e vengo a conoscenza delle loro metodologie: «Un fischio singolo significa pericolo dall'alto, più fischi significano pericolo dal basso». Molto interessante, io non ne sapevo alcunché. «Me lo dice mio marito, è lui la guida».

Marmotta nei pressi del Rifugio Vittorio Sella

11- Gente da albergo. Una cosa che ho imparato dall'Alta Via n.2 della Valle d'Aosta, dove è molto più consueto pernottare in albergo piuttosto che in rifugio. Gli alberghi valdostani sono frequentati, in linea di massima, da due categorie di persone: gente che cammina duro e gente che è in pensione.
Nella sala colazione dell'albergo di Champorcher, una coppia molto probabilmente di pensionati, ma ancora in discreta forma, dichiara che «dopo la gita al Rifugio Barbustel (700 metri di dislivello e massimo tre ore di cammino) ci fanno malissimo le ginocchia». Sorrido, e brindo a tutti i dolorini che ho già ho e ancora si presenteranno nei futuri dieci chilometri di dislivello in salita.

Le torri della frazione Castello, a Champorcher

10- La parrocchia in vacanza. In procinto di arrivare al Rifugio Deffeyes, noto già da lontano che attorno al rifugio vi è un qual certo movimento. Il motivo è ben presto chiarito: 64 dei 96 posti letto del Rifugio Deffeyes è occupato da un gruppo di ragazzini di una parrocchia (età da scuole medie, provenienza probabilmente lombarda). Ovviamente, il caos che producono si scontra con quella che è la tipica "pace da alte quote". Ma come rimproverarli… sono ragazzini, giovani, esuberanti e pieni di vita, comprendo appieno i loro comportamenti che, comunque (e aggiungo: fortunatamente), mai sfociano nella maleducazione. Quando però sento frasi del tipo «ma qui non c'è un ascensore» oppure «oh, sotto il 3G non prende», allora capisco che sulle giovani generazioni c'è ancora tantissimo lavoro da fare.

In arrivo al Rifugio Deffeyes

9- C'è americana ed americana. Il Rifugio Elisabetta, come tutti i rifugi posti sul percorso del Tour del Monte Bianco, è sovraffollato e frequentato da turisti americani organizzati in comitive che spesso vedono la montagna per la prima volta.
L'arrivo della penultima tappa, la più lunga quanto a chilometraggio, avviene ad un orario relativamente tardivo, tardivo quanto basta per rendersi conto che l'80% dei pernottanti sta già occupando il rifugio. Il gestore del rifugio, con occhi poco convinti, mi piazza in dormitorio (un dormitorio con pochi spazi di manovra) e la ragazza che mi mostra il posto letto esordisce: «questo è il tuo posto, vicino alla signora». Guardo tale signora, credo americana ma sicuramente di madrelingua inglese, non proprio un'icona di bellezza, e rispondo «capperi se si sta stretti qui». La risposta, con sguardo malizioso non si fa attendere: «dai, sono sicura che farete amicizia». Preferisco non rispondere e pensare tra me e me «ma 'sto c***o!».

Rifugio Elisabetta

8- L'emozione del Tor des Géants. Inutile aggiungere che parlando con i valdostani, l'argomento Tor emerga spesso. È molto interessante discuterne con chi il Tor lo vive. Come Mariagrazia, la titolare dell'Hotel Parco Nazionale di Valsavaranche, da anni volontaria al Tor. Quando racconta della sua esperienza in questa folle gara, spuntano quasi le lacrime agli occhi. Perché si rende perfettamente conto di che cosa rappresenta per questi atleti essere accolti con calore nei "punti vita" dai volontari della corsa, perché ricorda bene l'affetto che gli atleti con più partecipazioni al Tor possono contraccambiare nel corso degli anni a chi ha dato tanto a loro. Al punto tale che uno di loro si è ricordato di lei a distanza di un anno. Comprendo un po' di commozione.
Ma il Tor des Géants è anche sofferenza, e sentire dalla voce di una persona che questa corsa la vede ogni anno, che in un'edizione un atleta giapponese si era perso nella notte e i volontari riuscirono a recuperarlo con grande fatica, rintracciando la luce della sua frontale e ascoltando i pianti dell'uomo, nel panico in quanto si credeva perso, accresce in me la convinzione di non volermi cimentare con questo tipo di corse. Rispetto per tutti gli skyrunner, ma personalmente, come già da me affermato in passato, penso che la montagna non possa essere la mia palestra, la montagna vada vissuta e goduta…

Un Rifugio Deffeyes già in clima TdG

7- Luis e Claudia. Nel bailamme del Rifugio Deffeyes, due persone sono emerse davanti a me con limpidezza. Parlo di Luis e Claudia. Lui è portoghese, ma da decenni trapiantato sul Lago di Como. Lei è siciliana ma per amore si è trasferita a Monza. Percorrono insieme la Alta Via n.2 della Valle d'Aosta, ma lo fanno nel senso opposto, da Courmayeur a Donnas. Lei ha paura di non farcela, lui ha la tempra di camminatore instancabile e l'accompagna in questa piccola grande impresa.
Sono due persone genuine, di quelle che la montagna ti fa solitamente conoscere, con le quali trascorrere la serata in rifugio risulta veramente piacevole. Quando poi scopri che Luis, uomo di grande esperienza, può fornirti svariati consigli su come affrontare il cammino di Santiago (lui che periodicamente presta servizio negli ostelli), vorresti che questo dialogo non finisse mai.

Comba des Usselettes

6- Si, ma col tuo fisico! Sul Col de la Crosatie incontro un gruppo di tre escursionisti alsaziani che stanno percorrendo l'Alta Via n.2 nel senso opposto. Entrambi ci rifocilliamo; per loro la salita è stata molto ripida, per me è stata meno ripida ma decisamente più lunga.
Poi iniziamo uno scambio di informazioni – ah, l'inglese, che benedizione – sul percorso. Mi chiede come saranno le prossime salite e io chiedo dove si trovi il Passo Alto, che è il secondo colle da affrontare nella stessa tappa. Me lo mostra e mi indica dove sale il sentiero, descrivendolo come challenging e toccandomi l'addome «yes, but with your body you can do it easily! I'm too fat!»
Si, le alte vie fanno miracoli e non a caso quei pantaloni, dopo otto giorni di cammino intenso, mi stanno decisamente più larghi.

Ultime salite: Col de la Crosatie

5- Il genepy. Quando saluto Sandro, il titolare dell'Albergo Castello da Bonino di Champorcher, una delle persone più gentili conosciute sull'alta via, egli non fa a meno di notare il notevole carico che porto con me sulle spalle. Mi chiede ovviamente che trekking sto percorrendo. Ad un certo punto mi chiede «se il peso del mio zaino non può superare certi limiti». Io lo guardo un po' stranito e penso che un peso che supera i venti chili sia già ben oltre i limiti. «No, perché tempo fa incontrai dei tedeschi che percorrevano l'alta via e rifiutarono una bottiglietta di genepy perché non dovevano eccedere nel carico da trasportare». Gente strana, i tedeschi, eh? Io invece non la rifiuto, così «ne puoi bere un goccio quando sale lo sconforto».
Lo sconforto non mi ha preso – e come potrebbe in queste montagne – e decido di aprire la bottiglietta, a mo' di brindisi, sul Col de Chavannes, l'ultima vera salita dell'Alta Via. Come se volessi festeggiare la fine di una grande avventura, lì, davanti al Monte Bianco.

Un genepy, per brindare alla fine

4- Inseguito da una mandria. Capita anche questo, sulle Alte Vie. Ed è un episodio della prima tappa. Quando attraverso il Giassit de Mouilla mi ritrovo a passare nel bel mezzo di una mandria di mucche intenta a ruminare erba. La cosa solitamente non mi crea grosso disagio. Ma quando mi accorgo, dopo averla sorpassata, che lo strano rumore alle mie spalle era il goffo movimento di questa mandria al mio inseguimento, beh ammetto che mi colse un po' di fifa.
Come è andata a finire? Che appena attraversai il filo della recinzione elettrificata il sogno vaccino di incornarmi a dovere svanì in un nulla di fatto.
Attenzione alla foto: quella è la vera mandria dalla quale sono stato inseguito.

La mandria all'inseguimento

3- Da Gerusalemme ad Aosta. Camminando in montagna, è frequente ritrovare sul percorso escursionisti di diverse nazionalità. Solitamente francesi e tedeschi (o di madrelingua tedesca) la fanno da padrone. A Rhêmes-Notre-Dame ho incontrato addirittura due escursionisti provenienti dall'Israele. Ho conosciuto Roy e Sara in albergo, in quanto pare fossi l'unico cliente in grado di tradurre dall'italiano all'inglese, permettendo la comunicazione fra loro e il team dell'albergo. Anche la titolare è un po' stupita e mi chiede «come avranno mai fatto due israeliani a venire a conoscenza della piccola Valle di Rhêmes». Io già immaginavo la risposta che loro mi confermeranno, «grazie all'Alta Via».
Beh, vi dirò, Roy e Sara sono una bellissima coppia, innamoratissimi e in attesa del loro primo figlio. Lei è incinta, e percorre (con grande coraggio) un'alta via. Oops, mi correggo: due alte vie. Perché il loro programma in montagna era iniziato qualche giorno fa da Gressoney-Saint-Jean sul percorso dell'Alta Via n.1, proseguito da Courmayeur sull'Alta Via n.2 e sarebbe terminato nel giro di due/tre giorni a Cogne. Al loro figlio non potranno che trasmettere grande amore per la montagna. E a loro tre, auguro di cuore tutto il bene del mondo.

La verdissima Val di Rhêmes

2- Quattro chilometri in meno. Il posto tappa scelto per l'arrivo a Valsavarenche non è stato esattamente dei più comodi. Ma l'unico albergo presente nella frazione Eaux Rousses, dove passa appunto l'Alta Via, era già esaurito un mese prima. Mi trovo a dover ripiegare sulla frazione Degioz; dover perdere un'ora (o poco meno) per camminare su asfalto un tratto che non fa parte del tracciato dell'Alta Via, conscio che avrei dovuto salire 1300 metri di dislivello, non mi entusiasma particolarmente.
Chiedo alla Mariagrazia dell'Hotel Parco Nazionale se ci sono navette in transito in Valsavaranche e se si, in quali orari. Ci sono, e gli orari non sono affatto malvagi. Oppure, dice Mariagrazia, ti accompagno io in macchina, «tanto devo andare a Eaux Rousses a prendere il pane appena sfornato, sempre che tu non ti spaventi della mia macchina scassata». Appuntamento alle 8 nell'ingresso dell'hotel, per uno strappo fino all'imbocco della salita per il Col d'Entrelor.
E infinita riconoscenza per un grosso favore che mi è stato fatto.

4h15' alla cima, avrei dovuto aggiungerne un'altra?

1- Cambiare vita. Questa è per me la storia più bella da raccontare e quindi me la sono tenuta per ultima. È la storia di Stefano, guida naturalistica e gestore del rifugio Sogno di Berdzé.
Stefano non è un valdostano, e proviene da un luogo che piatto non è ma ha poco a che fare con i monti: Roma. Lavora in uno studio di commercialisti, ma inizia a frequentare i rifugi degli Appennini, e inizia ad appassionarsi alla natura e alla montagna. Una decina di anni fa, il grande salto: da Roma lascia lavoro e famiglia per trasferirsi a Cogne, dove trova lavoro in un albergo. Poi, si apre una grande occasione, la gestione di un rifugio alpino, il Rifugio Sogno di Berdzé, che da troppo tempo è in mano a gestioni errate. Con la moglie Elisa ne rilevano la gestione e lo trasformano nel rifugio più accogliente di tutta l'Alta Via n.2, un rifugio dove anche trascorrere due settimane di vacanza sarebbe un'idea tutt'altro che folle.
Cambiare vita si può, ma bisogna volerlo veramente e soprattutto bisogna crederci. Parlando con Stefano, emerge chiaramente l'entusiasmo di una persona che ama la montagna e il contatto con la natura più pura. Queste sono le figure che la montagna ti fa conoscere, le persone dalle quali non si può che assorbire l'energia più positiva possibile. Persone da Alta Via, insomma.

Il vallone dell'Urtier e il Rifugio Sogno di Berdzè

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