venerdì 31 luglio 2015

Le petit macaron d'un vendredi parisienne

"Sono venuto a Parigi, questa città divina senza dio. Non si può descrivere tutto questo, bisogna vedere quanta bellezza, quante belle cose ci sono qui, al centro del mondo."
Béla Bartók

E la volevano smontare...

giovedì 30 luglio 2015

E noi partiamo! - La massima di viaggio n.10

"Viaggiare è come sognare: la differenza è che non tutti, al risveglio, ricordano qualcosa, mentre ognuno conserva calda la memoria della meta da cui è tornato."
Edgar Allan Poe

In attesa di Parigi (fonte: afreeword.wordpress.com)

Parigi, manca poco. Pochissimo. Meno di un'ora e ci imbarcheremo sull'aereo che ci porterà nella capitale europea più bella e romantica del mondo. Personalmente non sto più nella pelle, l'eccitazione è alle stelle! Erano undici anni che aspettavo questo momento...
Bis bald!
Stefano

mercoledì 29 luglio 2015

Memorie di un camminatore - Aneddoti dall'Alta Via n.2 della Valle d'Aosta

Ho sempre pensato - e ogni volta che mi ritrovo tra i monti accresce la mia convinzione - che la montagna abbia sempre qualcosa da raccontare. I sentieri narrano le migrazioni, le speranze, le vite vissute. La roccia dei monti tramanda il susseguirsi delle ere e delle mani che li hanno scalati. Le persone che vivono la montagna, spesso oppure ogni giorno, ma sempre intensamente, potrebbero parlare per ore e ore. E non ci si stuferebbe mai, perché sì, la montagna regala storie che solo pochi altri posti al mondo possono vantare.
In questo post ho raccolto un po' di tutto. Racconti, storie di vita, aneddoti curiosi raccolti sui passi dell'Alta Via n.2 della Valle d'Aosta. Una miscellanea di episodi e fatti seri e semiseri (quindici in totale, elencati in ordine decrescente), con la quale provo a raccontare la montagna valdostana in un altro modo, lasciando da parte per un attimo la bellezza del panorama e dando spazio a spunti di vita vera sulle orme di un grande percorso alpino.
Bis bald!
Stefano

Ad Orvieille

15- Il Cervino. L'Alta Via n.2 della Valle d'Aosta non può essere considerata come l'alta via del Cervino, in quanto non attraversa alcuna delle valli sulle quali si affaccia questa montagna (Valtournenche e Valpelline). Ma, incredibile a dirsi, ho avuto modo di ammirare il Cervino meglio che nell'Alta Via n.1, in ben tre punti (Col Pousseuil, discesa dal Col de la Fricolla, Col de la Crosatie). Non voglio scoraggiare chi desiderasse intraprendere l'Alta Via n.1: il mio problema fu legato al maltempo incontrato nei punti chiave di quell'alta via. A Cheneil, vero balcone sulla Gran Becca, il cielo era più che coperto.

Il Cervino visto dalla discesa del Col de la Fricolla

14- Onte-factor. Il meteo mi ha certamente avvantaggiato, non posso negarlo. Sarei uno stupido a lamentarmi delle condizioni atmosferiche che ho incontrato durante i dieci giorni di alta via, in quanto non ho mai dovuto ricorrere a giacche a vento e mantelline. Ma gli anticicloni Flegetonte prima e Caronte dopo hanno reso più faticoso il mio percorso, soprattutto nei primi e negli ultimi giorni di alta via. Nei primi, soprattutto, quando le quote erano più basse e le gambe non ancora rodate, il caldo ha avuto una certa influenza sulla mia tenuta fisica. Il caldo è stato micidiale: dopo dieci minuti di cammino, una goccia di sudore compariva sulla punta del mio naso, la maglietta andava cambiata ogni ora (o quasi) e periodicamente dovevo strizzare il polsino per far sì che ne uscisse tutto il sudore. Non è uno scherzo neanche quando, alle 10.30 di mattina, il termometro di un rifugio (il Dondena, a 2100 metri circa), segna 27 gradi. Condizioni assolutamente non normali, che mi hanno permesso addirittura di vedere mucche che preferivano farsi un bagno nel torrente invece che pascolare…

27 gradi in montagna!

Pure le mucche hanno caldo...

13- Duro e puro. L'Alta Via è un grande percorso che merita di essere vissuto completamente. Una delle possibili sfaccettature di questa mia filosofia sta nel voler percorrere interamente il sentiero dell'alta via, senza ricorso a scorciatoie o espedienti. E quindi, non ho preso la navetta che da Lillaz va a Cogne, non ho accettato il passaggio che nel lungo e noioso tratto da La Joux a La Thuile mi era stato offerto («Scendi a La Thuile? Vuoi uno strappo?»), non ho provato la scorciatoia del Passo di Planaval nell'ottava tappa, la quale mi avrebbe permesso di risparmiare tre ore di cammino.
Uno strappo in macchina l'ho in realtà accettato (vedi punto 2), ma si capirà che non ho sgarrato. L'Alta Via l'ho camminata completamente dal primo all'ultimo chilometro.

Un tratto di asfalto: da Lillaz a Cogne

12- Marmotte. Fine della tappa n.3, da Champorcher al Rifugio Sogno di Berdzè. Mi trovo in una delle stanze del rifugio, momentaneamente solo, nell'intento di rilassarmi dopo le fatiche della giornata. La finestra è aperta, e "origlio" le conversazioni del team del rifugio con i clienti.
Si parla di marmotte e vengo a conoscenza delle loro metodologie: «Un fischio singolo significa pericolo dall'alto, più fischi significano pericolo dal basso». Molto interessante, io non ne sapevo alcunché. «Me lo dice mio marito, è lui la guida».

Marmotta nei pressi del Rifugio Vittorio Sella

11- Gente da albergo. Una cosa che ho imparato dall'Alta Via n.2 della Valle d'Aosta, dove è molto più consueto pernottare in albergo piuttosto che in rifugio. Gli alberghi valdostani sono frequentati, in linea di massima, da due categorie di persone: gente che cammina duro e gente che è in pensione.
Nella sala colazione dell'albergo di Champorcher, una coppia molto probabilmente di pensionati, ma ancora in discreta forma, dichiara che «dopo la gita al Rifugio Barbustel (700 metri di dislivello e massimo tre ore di cammino) ci fanno malissimo le ginocchia». Sorrido, e brindo a tutti i dolorini che ho già ho e ancora si presenteranno nei futuri dieci chilometri di dislivello in salita.

Le torri della frazione Castello, a Champorcher

10- La parrocchia in vacanza. In procinto di arrivare al Rifugio Deffeyes, noto già da lontano che attorno al rifugio vi è un qual certo movimento. Il motivo è ben presto chiarito: 64 dei 96 posti letto del Rifugio Deffeyes è occupato da un gruppo di ragazzini di una parrocchia (età da scuole medie, provenienza probabilmente lombarda). Ovviamente, il caos che producono si scontra con quella che è la tipica "pace da alte quote". Ma come rimproverarli… sono ragazzini, giovani, esuberanti e pieni di vita, comprendo appieno i loro comportamenti che, comunque (e aggiungo: fortunatamente), mai sfociano nella maleducazione. Quando però sento frasi del tipo «ma qui non c'è un ascensore» oppure «oh, sotto il 3G non prende», allora capisco che sulle giovani generazioni c'è ancora tantissimo lavoro da fare.

In arrivo al Rifugio Deffeyes

9- C'è americana ed americana. Il Rifugio Elisabetta, come tutti i rifugi posti sul percorso del Tour del Monte Bianco, è sovraffollato e frequentato da turisti americani organizzati in comitive che spesso vedono la montagna per la prima volta.
L'arrivo della penultima tappa, la più lunga quanto a chilometraggio, avviene ad un orario relativamente tardivo, tardivo quanto basta per rendersi conto che l'80% dei pernottanti sta già occupando il rifugio. Il gestore del rifugio, con occhi poco convinti, mi piazza in dormitorio (un dormitorio con pochi spazi di manovra) e la ragazza che mi mostra il posto letto esordisce: «questo è il tuo posto, vicino alla signora». Guardo tale signora, credo americana ma sicuramente di madrelingua inglese, non proprio un'icona di bellezza, e rispondo «capperi se si sta stretti qui». La risposta, con sguardo malizioso non si fa attendere: «dai, sono sicura che farete amicizia». Preferisco non rispondere e pensare tra me e me «ma 'sto c***o!».

Rifugio Elisabetta

8- L'emozione del Tor des Géants. Inutile aggiungere che parlando con i valdostani, l'argomento Tor emerga spesso. È molto interessante discuterne con chi il Tor lo vive. Come Mariagrazia, la titolare dell'Hotel Parco Nazionale di Valsavaranche, da anni volontaria al Tor. Quando racconta della sua esperienza in questa folle gara, spuntano quasi le lacrime agli occhi. Perché si rende perfettamente conto di che cosa rappresenta per questi atleti essere accolti con calore nei "punti vita" dai volontari della corsa, perché ricorda bene l'affetto che gli atleti con più partecipazioni al Tor possono contraccambiare nel corso degli anni a chi ha dato tanto a loro. Al punto tale che uno di loro si è ricordato di lei a distanza di un anno. Comprendo un po' di commozione.
Ma il Tor des Géants è anche sofferenza, e sentire dalla voce di una persona che questa corsa la vede ogni anno, che in un'edizione un atleta giapponese si era perso nella notte e i volontari riuscirono a recuperarlo con grande fatica, rintracciando la luce della sua frontale e ascoltando i pianti dell'uomo, nel panico in quanto si credeva perso, accresce in me la convinzione di non volermi cimentare con questo tipo di corse. Rispetto per tutti gli skyrunner, ma personalmente, come già da me affermato in passato, penso che la montagna non possa essere la mia palestra, la montagna vada vissuta e goduta…

Un Rifugio Deffeyes già in clima TdG

7- Luis e Claudia. Nel bailamme del Rifugio Deffeyes, due persone sono emerse davanti a me con limpidezza. Parlo di Luis e Claudia. Lui è portoghese, ma da decenni trapiantato sul Lago di Como. Lei è siciliana ma per amore si è trasferita a Monza. Percorrono insieme la Alta Via n.2 della Valle d'Aosta, ma lo fanno nel senso opposto, da Courmayeur a Donnas. Lei ha paura di non farcela, lui ha la tempra di camminatore instancabile e l'accompagna in questa piccola grande impresa.
Sono due persone genuine, di quelle che la montagna ti fa solitamente conoscere, con le quali trascorrere la serata in rifugio risulta veramente piacevole. Quando poi scopri che Luis, uomo di grande esperienza, può fornirti svariati consigli su come affrontare il cammino di Santiago (lui che periodicamente presta servizio negli ostelli), vorresti che questo dialogo non finisse mai.

Comba des Usselettes

6- Si, ma col tuo fisico! Sul Col de la Crosatie incontro un gruppo di tre escursionisti alsaziani che stanno percorrendo l'Alta Via n.2 nel senso opposto. Entrambi ci rifocilliamo; per loro la salita è stata molto ripida, per me è stata meno ripida ma decisamente più lunga.
Poi iniziamo uno scambio di informazioni – ah, l'inglese, che benedizione – sul percorso. Mi chiede come saranno le prossime salite e io chiedo dove si trovi il Passo Alto, che è il secondo colle da affrontare nella stessa tappa. Me lo mostra e mi indica dove sale il sentiero, descrivendolo come challenging e toccandomi l'addome «yes, but with your body you can do it easily! I'm too fat!»
Si, le alte vie fanno miracoli e non a caso quei pantaloni, dopo otto giorni di cammino intenso, mi stanno decisamente più larghi.

Ultime salite: Col de la Crosatie

5- Il genepy. Quando saluto Sandro, il titolare dell'Albergo Castello da Bonino di Champorcher, una delle persone più gentili conosciute sull'alta via, egli non fa a meno di notare il notevole carico che porto con me sulle spalle. Mi chiede ovviamente che trekking sto percorrendo. Ad un certo punto mi chiede «se il peso del mio zaino non può superare certi limiti». Io lo guardo un po' stranito e penso che un peso che supera i venti chili sia già ben oltre i limiti. «No, perché tempo fa incontrai dei tedeschi che percorrevano l'alta via e rifiutarono una bottiglietta di genepy perché non dovevano eccedere nel carico da trasportare». Gente strana, i tedeschi, eh? Io invece non la rifiuto, così «ne puoi bere un goccio quando sale lo sconforto».
Lo sconforto non mi ha preso – e come potrebbe in queste montagne – e decido di aprire la bottiglietta, a mo' di brindisi, sul Col de Chavannes, l'ultima vera salita dell'Alta Via. Come se volessi festeggiare la fine di una grande avventura, lì, davanti al Monte Bianco.

Un genepy, per brindare alla fine

4- Inseguito da una mandria. Capita anche questo, sulle Alte Vie. Ed è un episodio della prima tappa. Quando attraverso il Giassit de Mouilla mi ritrovo a passare nel bel mezzo di una mandria di mucche intenta a ruminare erba. La cosa solitamente non mi crea grosso disagio. Ma quando mi accorgo, dopo averla sorpassata, che lo strano rumore alle mie spalle era il goffo movimento di questa mandria al mio inseguimento, beh ammetto che mi colse un po' di fifa.
Come è andata a finire? Che appena attraversai il filo della recinzione elettrificata il sogno vaccino di incornarmi a dovere svanì in un nulla di fatto.
Attenzione alla foto: quella è la vera mandria dalla quale sono stato inseguito.

La mandria all'inseguimento

3- Da Gerusalemme ad Aosta. Camminando in montagna, è frequente ritrovare sul percorso escursionisti di diverse nazionalità. Solitamente francesi e tedeschi (o di madrelingua tedesca) la fanno da padrone. A Rhêmes-Notre-Dame ho incontrato addirittura due escursionisti provenienti dall'Israele. Ho conosciuto Roy e Sara in albergo, in quanto pare fossi l'unico cliente in grado di tradurre dall'italiano all'inglese, permettendo la comunicazione fra loro e il team dell'albergo. Anche la titolare è un po' stupita e mi chiede «come avranno mai fatto due israeliani a venire a conoscenza della piccola Valle di Rhêmes». Io già immaginavo la risposta che loro mi confermeranno, «grazie all'Alta Via».
Beh, vi dirò, Roy e Sara sono una bellissima coppia, innamoratissimi e in attesa del loro primo figlio. Lei è incinta, e percorre (con grande coraggio) un'alta via. Oops, mi correggo: due alte vie. Perché il loro programma in montagna era iniziato qualche giorno fa da Gressoney-Saint-Jean sul percorso dell'Alta Via n.1, proseguito da Courmayeur sull'Alta Via n.2 e sarebbe terminato nel giro di due/tre giorni a Cogne. Al loro figlio non potranno che trasmettere grande amore per la montagna. E a loro tre, auguro di cuore tutto il bene del mondo.

La verdissima Val di Rhêmes

2- Quattro chilometri in meno. Il posto tappa scelto per l'arrivo a Valsavarenche non è stato esattamente dei più comodi. Ma l'unico albergo presente nella frazione Eaux Rousses, dove passa appunto l'Alta Via, era già esaurito un mese prima. Mi trovo a dover ripiegare sulla frazione Degioz; dover perdere un'ora (o poco meno) per camminare su asfalto un tratto che non fa parte del tracciato dell'Alta Via, conscio che avrei dovuto salire 1300 metri di dislivello, non mi entusiasma particolarmente.
Chiedo alla Mariagrazia dell'Hotel Parco Nazionale se ci sono navette in transito in Valsavaranche e se si, in quali orari. Ci sono, e gli orari non sono affatto malvagi. Oppure, dice Mariagrazia, ti accompagno io in macchina, «tanto devo andare a Eaux Rousses a prendere il pane appena sfornato, sempre che tu non ti spaventi della mia macchina scassata». Appuntamento alle 8 nell'ingresso dell'hotel, per uno strappo fino all'imbocco della salita per il Col d'Entrelor.
E infinita riconoscenza per un grosso favore che mi è stato fatto.

4h15' alla cima, avrei dovuto aggiungerne un'altra?

1- Cambiare vita. Questa è per me la storia più bella da raccontare e quindi me la sono tenuta per ultima. È la storia di Stefano, guida naturalistica e gestore del rifugio Sogno di Berdzé.
Stefano non è un valdostano, e proviene da un luogo che piatto non è ma ha poco a che fare con i monti: Roma. Lavora in uno studio di commercialisti, ma inizia a frequentare i rifugi degli Appennini, e inizia ad appassionarsi alla natura e alla montagna. Una decina di anni fa, il grande salto: da Roma lascia lavoro e famiglia per trasferirsi a Cogne, dove trova lavoro in un albergo. Poi, si apre una grande occasione, la gestione di un rifugio alpino, il Rifugio Sogno di Berdzé, che da troppo tempo è in mano a gestioni errate. Con la moglie Elisa ne rilevano la gestione e lo trasformano nel rifugio più accogliente di tutta l'Alta Via n.2, un rifugio dove anche trascorrere due settimane di vacanza sarebbe un'idea tutt'altro che folle.
Cambiare vita si può, ma bisogna volerlo veramente e soprattutto bisogna crederci. Parlando con Stefano, emerge chiaramente l'entusiasmo di una persona che ama la montagna e il contatto con la natura più pura. Queste sono le figure che la montagna ti fa conoscere, le persone dalle quali non si può che assorbire l'energia più positiva possibile. Persone da Alta Via, insomma.

Il vallone dell'Urtier e il Rifugio Sogno di Berdzè

martedì 28 luglio 2015

Bücher: Una sera a Parigi

"Ricordi, Alain, che mi chiedevi sempre come mai i film erano la cosa che amavo di più? Oggi voglio dirtelo: la strada più breve è quella che va dagli occhi al cuore. Non dimenticarlo mai, ragazzo mio."
   Nicolas Barreau, Una sera a Parigi
 

Ciao a tutti!
Sull'onda dell'entusiasmo suscitato da Gli ingredienti segreti dell'amore, sto continuando la full immersion nelle incantevoli atmosfere parigine descritte nei libri di Nicolas Barreau. È il momento de Una sera a Parigi. La vacanza parigina è sempre di più alle porte (-48 ore!), e i libri di Barreau sono il migliore avvicinamento alla settimana nella Ville Lumière. Nonché un ottimo modo per sognare.
Si, perché le storie che Barreau racconta fanno sognare. Si, a volte si sconfina nel surreale – e in Una sera a Parigi la trama tocca i confini dell'assurdo. Ma come nella suo bestseller più famoso, l'intreccio di eventi che rende incredibile questo libro, ha un potere di attrazione pazzesco nel tenere incollato il lettore alle pagine. Non ha forse dell'incredibile che nel giro di ventiquattro ore un uomo semplice, Alain Bonnard, riesca prima a conquistare la donna sognata da mesi e conosca dopo la persona che lo renderà celebre, ma per la quale il suo sogno d'amore dovrà concludersi? Si, posso garantirlo, è una storia (e un libro) incredibile. Il finale è (quasi) prevedibile, ma i colpi di scena che si susseguono, la continua ricerca dell'indizio decisivo rendono Una sera a Parigi una sorta de Il codice Da Vinci in salsa sentimentale.
Dalle fragranze culinarie alle atmosfere di un vecchio cinema d'essai, questo è il salto che Barreau compie in questo romanzo. È un salto eseguito perfettamente, perché le citazioni cinematografiche sono ricche, tratte da film di spessore e soprattutto mai scontate. Ovviamente i riferimenti al grande cinema francese (Truffaut, Sautet, Cocteau) si sprecano, ma c'è molto spazio per altri filoni. Su tutti la commedia americana d'autore – a Woody Allen è ispirato uno dei personaggi chiave del romanzo – e il cinema italiano: a Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore è ispirato il nome del cinematografo di Alain Bonnard, un luogo che evoca ricordi passati, IL luogo dove il cinema proietta gli spettatori in un'altra dimensione senza aver bisogno di effetti speciali, il luogo dove si può trovare la soluzione di ogni problema, anche di quelli sentimentali di Alain. Una sera a Parigi è in assoluto una perfetta dichiarazione d'amore nei confronti del cinema d'autore.
In Una sera a Parigi c'è veramente di tutto: onirismo, passione, grande cinema, ironia, dialoghi serrati. E quel tocco unico che solo l'ambientazione parigina (altri luoghi da segnare: Rue Bonaparte, Pont Alexandre III, Rue de Bourgogne) può dare ad una bella storia d'amore.
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 10/10 

lunedì 27 luglio 2015

Moleskine, vecchia cultura europea in montagna

"Non si tratta di un taccuino qualunque. È un pezzo da museo, un'autentica “moleskine”, apprezzatissima da scrittori come Céline e Hemingway, che ormai non si trova più nelle cartolerie. Bruce [Chatwin, ndb] mi suggerì di fare come lui prima di usarla: numerare i fogli, annotare sul retro di copertina almeno due indirizzi nel mondo, e scrivere sulla prima pagina una promessa di ricompensa a chi restituirà il taccuino in caso di smarrimento. […] Bruce mi spiegò che le moleskine uscivano dalle mani di un rilegatore artigiano di Tours, la cui famiglia le fabbricava fin dagli inizi del secolo, ma che dopo la morte dell'artigiano, nel 1986, nessuno dei suoi discendenti aveva voluto continuare la tradizione. Non bisogna lamentarsene. Sono le regole del gioco imposte da una pseudomodernità che giorno dopo giorno elimina riti, abitudini e dettagli di qualcosa che ben presto ricorderemo con nostalgia, e chiameremo vecchia cultura europea. Quando Bruce seppe che le “moleskine” stavano per esaurirsi, comprò tutte quelle che trovò, ed è proprio su uno dei suoi taccuini che scrivo questi appunti."
Luis Sepúlveda, Patagonia Express

Meraviglia!

Quando lessi Patagonia Express di Luis Sepúlveda venni a scoprire che le moleskine avevano una storia immensa alle loro spalle. Erano i taccuini in cui prendevano appunti signori come Wilde, Picasso e Hemingway, frutto di un lavoro artigianale in vendita nelle cartolerie parigine. Il marchio attuale, registrato da una società milanese, ha riportato in vita un modello "leggendario" di taccuino. Fu in quel momento (un anno e mezzo fa), nel quale lessi le parole di Sepúlveda su Bruce Chatwin, uno dei più grandi narratori di viaggi, che decisi che la mia prossima avventura in montagna sarebbe stata scritta su una moleskine.
Ho dovuto aspettare l'Alta Via n.2 della Valle d'Aosta per procurarmi finalmente una semplicissima moleskine, un quaderno nero con un elastico di chiusura e un nastrino segnalibro (e l'immancabile tasca a soffietto all'interno). Con la quale ho in sostanza raccontato la mia ultima esperienza nelle Alpi. Non vi ho scritto i post (la tecnologia da questo punto di vista è insuperabile), ma vi ho costantemente annotato, nei momenti di pausa, fatti, immagini ed emozioni vissuti fino a quel momento. Per non dimenticare niente, assolutamente niente di ciò che ho vissuto in questi dieci giorni.
In scrittura sul Col d'Entrelor

Cosa è stata questa "moleskine-experience"? Un modo diverso di vivere il mio viaggio in montagna, un modo alternativo di scrivere pagine di un blog che è nato tre anni fa proprio grazie ad un'avventura sui monti valdostani. Scrivere, ripeto e sottolineo su carta, le immagini di un percorso che attraversa le Alpi più belle è... unico. Unico nel ricordo di passi saliti con fatica e poi descritti con le parole che escono in quel momento. Unico nel ricordo di parole che, a distanza di anni, verranno rilette con il sorriso stampato sulle labbra. Unico nel pensiero di chi guarderà questo taccuino nei giorni e negli anni che verranno.
Dopo quest'ultima alta via, di una cosa sono certo. Non c'è viaggio senza moleskine.
Bis bald!
Stefano

domenica 26 luglio 2015

Tappa in Svizzera: Sufnersee

Ciao a tutti!
Sufnersee, un nome che ai più dirà poco a nulla. Cosa più che comprensibile, non a tutti capita di fare in auto un viaggio di 800 chilometri tra Italia e Germania una decina di volte all'anno. Questo luogo, nel cuore della regione svizzera dei Grigioni, ad una cinquantina di chilometri da Coira, è da me considerato una delle meraviglie del viaggio. Il tratto svizzero di viaggio è molto lungo; l'autostrada che taglia da nord a sud la Svizzera orientale tramite il tunnel del San Bernardino è tortuosa e i limiti di velocità sono rigorosamente bassi. Ma quando si arriva al Sufnersee, per un attimo, la frustrazione di quel tratto, mai noioso, ma stressante per chi è alla guida, se ne va all'istante.

Panchina vista lago

Il Sufnersee prende il nome dal minuscolo villaggio di origine walser di Sufers, che conta circa un centinaio di abitanti stabili. Se si lascia l'autostrada, e si prova a percorrere le strade locali sembra di trovarsi in un piccolo paradiso perduto, quasi dimenticato dalla civiltà, nonostante la tipica cura svizzera nel mantenere più ordinato possibile ogni singolo angolo. Ma tutta la valle del Reno, specialmente a quote più elevate, pare quasi disabitata.

Il Sufnersee visto dalla diga che lo contiene

Il Sufnersee è un lago artificiale, sulla sponda orientale si trova ovviamente una poderosa diga, peraltro camminabile. A distanza di quasi due anni dal mio primo "contatto" con il Sufnersee e, anche in preda alla calura che gli anticicloni Flegetonte e Caronte hanno riservato all'Europa in questo torrido luglio, ho pensato che una sosta sul Sufnersee poteva essere un'ottima opzione per spezzare il mio lungo viaggio tra Italia e Germania. Farlo qui, ha un significato simbolico. La bellezza del Sufnersee è tale che, in un contesto di viaggio, mi piace paragonarlo a ciò che le scogliere di Étretat rappresentarono per Claude Monet: impressioni diverse ad ogni ora del giorno e ad ogni stagione. Perché questo lago l'ho visto in diverse condizioni: nel fiorire dell'estate, avvolto dal riflesso di un argenteo strato di ghiaccio, rischiarato dalle stelle di una notte primaverile, in un grigio inverno, circondato dai colori autunnali della foresta, illuminato dalla luna piena proprio quando la prima neve è scesa. Ce n'è per tutti i gusti, ma io, io non mi stufo mai di osservarlo con stupore.

Sufers

Dunque, mi fermo a osservarti meglio, Sufnersee. E scopro che un bellissimo sentiero ti circonda, dal quale posso ammirarti, specchio azzurro in un magnifico intorno di colori... il verde delle praterie dei Grigioni, il grigio delle pareti rocciose che il Reno ha gradualmente scavato, il bianco del Rheinwaldhorn e del Vogelhorn, laddove ghiacciai al confine col Ticino tentano una strenua resistenza con queste infernali estati. Poi, qualche casupola e un campanile bianco, per non dimenticarsi di quel piccolo villaggio di minatori che è Sufers, posto sulle sponde del lago, quasi a volerne rivendicare la paternità.
Ci rivediamo presto, Sufnersee.
Bis bald!
Stefano

sabato 25 luglio 2015

Bücher: Gli ingredienti segreti dell'amore

"L'ho vista sorridere, e il suo sorriso mi ha stregato a tal punto che l'ho rubato. L'ho preso in prestito e fatto mio. L'ho portato con me. Non so se sia possibile innamorarsi di un sorriso. A ogni modo in quel sorriso ho trovato l'ispirazione per una storia."
Nicolas Barreau, Gli ingredienti segreti dell'amore
   
   
Questa è una rilettura. Sempre alla ricerca di luoghi, storie e parole nuove, mi capita raramente di rileggere un libro. L'unico caso che io ricordi è Addio alle armi di Ernest Hemingway, il libro che amo di più in assoluto. Ma questo, Gli ingredienti segreti dell'amore di Nicolas Barreau, per me è un libro speciale. Perché, a suo modo, mi fa rivivere i dolcissimi giorni in cui mi innamorai della mia futura moglie, Giulia. Direi che è già un buon motivo per rileggerlo. Poi c'è l'altro motivo. Fra meno di una settimana saremo a Parigi. Cosa c'è di meglio se non provare a tuffarsi nell'atmosfera parigina leggendo i libri di uno scrittore (stando a quanto dichiara l'editore - Nicolas Barreau è un nome immaginario) parigino ma di madre tedesca, che ha studiato alla Sorbona e ha lavorato per anni in una libreria della Rive Gauche. I quali libri, tra l'altro, presentano una copertina con un oggetto molto simbolico in comune: la Tour Eiffel. Ok, sono dei bestseller internazionali, ammazzati dalla critica, frutto di ricerche di mercato studiate appositamente, eccetera eccetera. Chissenefrega! Tre anni fa acquistai questo libro, rapito dalla freschezza del titolo e della copertina, e completai in un sol giorno, totalmente immerso nella vicenda, la lettura di questo libro. Perché non rifarlo ora, in procinto di partire per "la ville lumière", e raddoppiando con altri due suoi volumi?
Gli ingredienti segreti dell'amore non è proprio un romanzo rosa. La storia d'amore tra Aurélie Bredin e André Chabanais è sicuramente l'asse portante del libro. Ma qui c'è molto di più. Ci sono situazioni ironiche, sul confine del grottesco. C'è l'atmosfera parigina, per me assolutamente unica. C'è la cucina francese, rappresentata da Aurélie, proprietaria di un ristorante di Saint-Germain-des-Prés, che spero di apprezzare maggiormente dopo la vacanza a Parigi ma dalla quale sono ora incuriosito. C'è un bel ritratto del mondo dell'editoria, a me completamente sconosciuto. C'è una trama semplice in un contesto completo, adatta ad un film hollywoodiano. E guardando a ciò che vedrò fra pochi giorni, ci sono appunti per un viaggio. Il Café Procope, La Coupole, Saint-Germain-des-Prés, la Rive Gauche.
Diffidate dalle recensioni negative che trovate in rete. Chi cerca evasione, può trovare in Gli ingredienti segreti dell'amore un ottimo diversivo.
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 10/10 

venerdì 24 luglio 2015

La lunga salita verso il Cervino - Parte seconda

La seconda parte dell'avvincente storia che porta l'uomo in cima al Cervino è fatta di avventure durate un decennio, di uomini d'altri tempi, tenaci e coraggiosi, di ideali patriottici che oggi sembrano spariti, di forza di volontà. La seconda parte della prima salita al Cervino è riassunta nella figura di un uomo, la guida valdostana di Valtournenche Jean-Antoine Carrel.

Il versante italiano del Cervino (© Stefania Grasso)

Descrivere una figura come quella di Jean-Antoine Carrel è cosa tutt'altro che semplice. Era chiamato “il Bersagliere”, perché aveva servito la patria nelle guerre di Indipendenza. Fu questa un'esperienza che lo rese un uomo dal forte spirito nazionalista ed orgoglioso di rappresentare l'Italia in quella che veniva considerata una missione simbolica. Salire il Cervino, pochi anni dopo l'Unità d'Italia, era il mezzo migliore per dichiarare al mondo la grande capacità e l'indipendenza del popolo italiano. Carrel fu addirittura incaricato da un esponente di spicco della politica italiana, l'allora Ministro delle Finanze e fondatore del CAI, il biellese Quintino Sella, di salire fino alla vetta del Cervino nel suo versante italiano, di salirla per dimostrare che il popolo italiano può superare i propri i limiti tramite atti di coraggio eroici (e c'è da fidarsi, centocinquanta anni fa salire sul Cervino era veramente un atto di eroismo).
Non era solo la "questione di stato" ad animare Carrel. Nonostante molte storie terribili venissero narrate sul conto della Gran Becca, Carrel era fermamente convinto di poter vincere quel "mostro" di roccia e ghiaccio. Fu l'unico, assieme all'amico-rivale Edward Whymper, a credere nella fattibilità dell'impresa.

Jean-Antoine Carrel nel disegno di Leonardo Bistolfi per Il Monte Cervino di Guido Rey

Dal 1857, l'anno del primo tentativo, un po' pionieristico, con l'Abbé Gorret, passarono otto lunghi anni prima di poter salire in vetta. La "questione di stato" divenne in tutto e per tutto una questione personale per Carrel, che questa ascensione la sognò per troppo tempo. I tentativi furono tanti: con l'inglese Whymper, che lo scelse come guida in molteplici occasioni grazie alle formidabili doti di scalatore; con l'irlandese Tyndall, durante il quale tentativo, si fermarono sull'omonimo Pic Tyndall nel famoso passaggio dell'Enjambée; con il fratello Jean-Jacques, il solo con il quale avrebbe voluto veramente arrivare in vetta.
Carrel sapeva bene che l'unico rivale per la conquista del Cervino poteva solamente essere Whymper che, più organizzato e con maggiori mezzi a disposizione, ebbe infine la meglio. Come già raccontato nella prima parte del racconto (vedi post), le fasi che precedettero i tentativi del 14 luglio 1865 furono un concentrato di tatticismo raramente visto in precedenza in montagna. Whymper tenta la salita dalla cresta dell'Hörnli – quella secondo lui più facile da percorrere – Carrel riprova per l'ennesima volta dalla cresta del Leone – l'unica che potesse essere scalata per questioni di patria e per l'onore della Valtournenche. La corsa, il sogno di Carrel verso i 4478 metri si infrange sul passaggio della Cravate, da dove lui e i suoi uomini osservano la festa di Whymper e della sua cordata. La battaglia con l'inglese è persa, e mestamente tornano a Valtournenche, ignari della tragedia che colpì la discesa della spedizione vittoriosa sul Cervino. Il morale di Carrel è a terra. Serve tutto l'impegno di Felice Giordano e in particolar modo dell'Abbé Gorret, per risollevare l'umore di Carrel. Devono salire quella montagna, lo devono fare per la Valtournenche, per la Valle d'Aosta e per l'Italia. Lo devono fare senza clienti, Carrel non vuole mettere in pericolo i suoi compagni caricandosi la responsabilità di ulteriori clienti. Giordano non farà parte della spedizione, saranno Carrel e Gorret assieme ad altri due valligiani, Jean-Baptiste Bich e Jean-Augustine Meynet, a riprovare la salita.

Cervino e non solo

Lascio che siano le parole di Guido Rey ne Il Monte Cervino a raccontare la prima ascesa italiana al Cervino.

Il giorno di domenica 16, dopo aver sentito la messa alla cappella di Breuil, la piccola squadra partì. Giordano rimase, triste e solo al Giomein. «Feci il grave sacrificio di attendere ancora ai piedi del picco, invece di salirlo, – egli scrive in altra sua lettera al Sella – e ti assicuro che questo fu per me un vivissimo dolore».
Li vide col cannocchiale attendarsi al solito bivacco ai piedi della Torre alle 2 pomeridiane. Amé Gorret ha narrato con giovanile entusiasmo questa salita: «Enfin nous traversons le Col du Lion et nous touchons à la pyramide du Mont Cervin. Ce Mont Cervin était donc là, devant moi; nous allions l'attaquer par un dernier et supreme effort; l'étais impressionné, et mes compagnons comme moi; mon coeur battait fort... j'aurais voulu pouvoir l'embrasser ce mont Cervin!»
Il giorno seguente proseguono la salita e raggiungono il segnale di Tyndall. «Nous allions entrer – scrive Gorret, - en pays inconnu, aucun n'êtant allé plus loin».
A questo punto si divisero le opinioni: Gorret proponeva di salire per la cresta e affrontare direttamente l'ultima torre, Carrel propendeva per svoltare a ponente del picco, e superarlo per il versante di Zmutt. Prevalse naturalmente il volere di Carrel, che era il capo e che malgrado la disfatta non aveva perduto l'abitudine del comando. Varcano il passo dell'Enjambée e costeggiano il pendio vertiginoso per afferrare la cresta di Zmutt. Un passo falso di uno della comitiva è una caduta di ghiaccioli dall'alto inducono a riprendere la linea diretta dell'ascesa, e questo tragitto per ritornare sulla cresta di Breuil riesce difficilissimo. Cade un sasso che ferisce Gorret al braccio.
Giungono infine alla base dell'ultima torre. «Nous nous trouvâmes – scrive Gorret – en un endroit presque raisonnable. Quoique cet endroit ne soit pas plus large de deux métres, et qu'il presente une inclinaison de 75 pour 100, nous l'âppelames de tous les noms favorables: le corridor, la galerie, le chemin de fer, etc, etc…»
Credettero di essere al termine delle difficoltà; ma un canalone di roccia che prima non avevano avvertito li separava dall'ultima cresta ove la via sarebbe stata facile. Scendere tutti quattro giù pel canalone non era prudente, giacché non si sapeva ove appendere la corda che avrebbe servito nel ritorno. Il tempo stringeva; convenne ridurre la squadra: Gorret fece il sacrificio, e con lui rimase Meynet. Poco tempo dopo Carrel e Bich erano sulla vetta, «et moi, - scrive Gorret, - pour ne pas me laisser prendre du sommeil, j'expliquais à Meynet la beauté des montagnes et des campagnes de la vallée».
Intanto al Giomein Giordano signora sul suo diario: «Bellissimo tempo; alle 9.30 veduto Carrel e uomini all'Epaule, poi non si videro più. Poi nebbia assai attorno alla cima. Verso le 3.30 si scoprì un poco e vedemmo la nostra bandiera sulla vetta di ponente del Cervino. La bandiera inglese pare uno sciallo nero posto sulla neve, al mezzo.
Dopo queste parole è tracciato sul taccuino un profilo della vetta con le due bandiere, e accanto ad una è scritto: Italia! Il giorno dopo a mezzodì giunsero di ritorno, sani e salvi, i vincitori. Nello scendere avevano veduto tutte le bandiere sventolare sul Giomein in segno di gioia; la fatica, l'ansia della lotta, l'emozione del pericolo erano scomparse. Il loro arrivo fu un trionfo.

Tutta la maestosità della parete sud del Cervino (© Enzo Verga)

La vetta era stata conquistata anche nel versante italiano. La Valtournenche era in festa.
Qualcuno, ancora oggi, si chiede chi abbia vinto. La vittoria è di Whymper, il primo a raggiungere la vetta ma che, anche per troppa fretta, subì le conseguenze del disastro nella discesa, o di Carrel, che vinse un versante più arduo (in condizioni sociali più difficili di quelle di Whymper), riportando sana e salva la spedizione intera? Non mi piace pensare all'alpinismo, o alla montagna in genere, come ad un terreno di sfide e di lotte per una vittoria. Mi piace pensare che siano stati entrambi, con i loro ideali, il loro coraggio e la loro ostinazione, a conquistare il Cervino. E a accendere la fiamma di un sogno che continua, immutato nel tempo se non più grande, a riscaldare il cuore degli appassionati della montagna.

giovedì 23 luglio 2015

La lunga salita verso il Cervino - Parte prima

Centocinquanta anni fa, erano le 13 circa, un distinto signore londinese, Edward Whymper, e una guida di Chamonix, Michel Auguste Croz toccarono per la prima volta la vetta del Cervino, la montagna più celebre e probabilmente la più bella del mondo. Whymper, il sognatore che proveniva da una terra tutt'altro che ricca di montagne, e Croz, l'ardimentosa guida francese, avevano capeggiato una spedizione composta da altre due guide, gli svizzeri Peter Taugwalder padre e figlio e altri due clienti inglesi, Douglas Hadow, Lord Francis Douglas e Charles Hudson, partendo il giorno prima da Zermatt e risalendo la cresta dell'Hörnli. Poco dopo “l'ora colma di vita gloriosa”, una caduta di Hadow fece precipitare per circa mille metri, sulla parete nord, lui e altri tre membri della cordata. Quell'impresa, realizzata su una vetta allora ritenuta impossibile da salire e sul quale conto gli indigeni avevano architettato un sacco di storie raccapriccianti, fu anche la tragedia, la prima in alta montagna, che segnerà l'inizio dell'alpinismo moderno e la fine dell'alpinismo di conquista.

Una delle incisioni di Edward Whymper nel suo famoso libro Scrambles amongst the Alps in the Years 1860-69 (fonte: commons.wikimedia.org)

I primi tentativi di salita della “Gran Becca” (così veniva chiamato il Cervino dagli abitanti della Valtournenche) risalgono al 1857, e furono di Jean-Antoine Carrel, un valdostano della Valtournenche, un uomo tutto d'un pezzo, che veniva soprannominato “il Bersagliere”. A quei tempi la montagna era affollata di ricchi turisti, spesso anglais, che ingaggiavano le guide del posto per salire in cima alle montagne. Tra questi vi era Edward Whymper, un disegnatore che durante un viaggio in Savoia vide anche il Cervino e ne rimase folgorato. Raggiungere la sua vetta, negli anni tra il 1861, anno del primo tentativo e il 1865, l'anno della conquista, divenne per Whymper una vera e propria ossessione, al punto tale da provare addirittura una volta in completa solitudine – salvo poi tornare mestamente al Breuil dopo un volo in un canalone. Carrel era la guida migliore per tentare un qualcosa che allora era considerato irrealizzabile, per la tempra stessa di Carrel e per la convinzione di Carrel che quella vetta non era irraggiungibile. Carrel e Whymper impararono a conoscersi e a stimarsi l'un l'altro, avevano provato ripetutamente l'assalto alla vetta, sempre dal versante italiano, ma ne furono sempre respinti.

La normale svizzera al Cervino illuminata dalle guide alpine di Zermatt (© Robert Bösch)

Nel corso di cinque estati sulle Alpi, Whymper affina la tecnica di salita e si conquista una discreta fama nel panorama alpinistico. Non sale da solo ma con alcune fidate guide. Su tutti, proprio Michel Croz, e gli svizzeri Christian Almer e Franz Biener. Con loro, compirà alcune prime di notevole importanza, tra cui Barre des Écrins, Mont Dolent, Aiguille d'Argentière, Grand Cornier, Grandes Jorasses (Punta Whymper) e Aiguille Verte. A quel punto si sente pronto per tentare l'assalto definitivo al Cervino, ma senza Croz (impegnato con altri clienti), Almer e Biener (supponevano irrealizzabile una salita al Cervino). Whymper vuole solo Carrel per la salita al Cervino, ma Carrel pare sia impegnato con altri clienti di “una distintissima famiglia”.

Edward Whymper (fonte: srf.ch)

La “distintissima famiglia” era in realtà una spedizione nazionale organizzata dall'allora ministro nonché fondatore del CAI, Quintino Sella, e da Felice Giordano, uno dei primi alpinisti-geologi dell'epoca. Le montagne erano allora affare di stato, poter “fare proprio” il Cervino - dopo che solo quattro anni prima la montagna simbolo del Piemonte, il Monviso, era stato conquistato da inglesi e francesi – era questione nazionale. Whymper non si dà vinto per vinto e, nonostante la fregatura, capisce che c'è ancora spazio per poter arrivare in cima per primo. Le condizioni meteo innanzitutto non sono le migliori per arrivare in cima. Ha una sola scelta, superare il Colle del Teodulo per arrivare a Zermatt, cercare una guida locale e tentare l'assalto dalla cresta dell'Hörnli, che conosceva meno bene ma che, per conformazione geologica, avrebbe potuto offrirsi meglio alla scalata. La fortuna pare girare dalla parte di Whymper, in quanto a Zermatt incontra proprio Croz, il quale si era liberato del suo cliente; Croz era proprio in procinto di partire in direzione Cervino con altri clienti, gli inglesi Hadow, Hudson e Douglas e altre due guide, Taugwalder padre e figlio. Whymper non aveva fiducia nell'inesperto Hadow, ma il reverendo Hudson garantiva per lui.

Il Cervino nelle sue parti est e nord

La partenza è fissata per il 13 luglio 1865 da Zermatt. Superano quota 3300 metri, dove bivaccano per la notte, e ripartono la mattina successiva per il tratto finale di salita. Il quale procede scorrevole, quasi “facile”, per molte ore. Poi giungono ad un tratto che appare insuperabile, che li costringe a deviare dalla cresta sulla parete nord per salire una parte più complessa di salita, prima di riportarsi sulla cresta, a breve distanza dalla cima. Il timore di Whymper è che la spedizione italiana li abbia preceduti. L'inglese e la sua guida francese Croz si slegano con foga dalle corde e corrono fino alla punta (la leggenda narra che toccarono l'apice contemporaneamente), dove non trovano tracce degli italiani. Certo, la spedizione italiana, più numerosa e laboriosa, era ancora sul Pic Tyndall – mancavano poche centinaia di metri alla vetta. I vincitori del Cervino si misero a gridare per richiamare l'attenzione di Carrel e compagni che, rattristati, si ritirarono per tornare a Valtournenche.

La croce di vetta della "Gran Becca"

Poi arriva il momento di scendere. Whymper è preoccupato dall'atteggiamento mostrato durante la salita da Hadow e si decide dunque di affiancarlo a Croz, primo di discesa e il più esperto del gruppo. La discesa è lenta, si procede “di conserva”, e Croz è continuamente impegnato a sistemare la posizione dei piedi sulla roccia di Hadow, insicuro e inadatto ad una tale montagna. A pochi metri dall'uscita del tratto più complicato, quello sulla parete nord, Hadow scivolò colpendo con i piedi Croz sulla schiena. Hadow e Croz precipitarono in avanti, senza riuscire ad attaccarsi alla piccozza, trascinando con sé nella caduta sia Hudson che Douglas. Whymper e i due Taugwalder, richiamati dalle grida disperate dei quattro compagni si aggrapparono alla roccia. Fu lì che la corda di canapa tra Taugwalder padre e Douglas si allungò fino a rompersi: i quattro precipitarono sulla parete per oltre mille metri, schiantandosi contro le rocce e arrestando il loro salto nel vuoto solamente nel ghiacciaio alla base del Cervino. Non fu ovviamente facile per Whymper e i due Taugwalder ricominciare la discesa, lo shock fu grande. Al loro arrivo a Zermatt i tre sopravvissuti furono accusati di superficialità e di negligenza, alcuni ipotizzarono avessero spezzato di proposito la corda. Se superficialità ci fu, fu da parte di Taugwalder padre nella scelta di quella corda di canapa (inizialmente portata come corda di riserva), vecchia e usurata. Questo fattore scagionò in parte l'operato dei tre sopravvissuti, i quali dovettero comunque convivere fino alla morte con il peso di questa tragica esperienza.

La vecchia capanna dell'Hörnlihütte

La prima salita del Cervino segnò un confine importante nella storia dell'alpinismo. Le grandi montagne erano state conquistate, e la tragedia del 14 luglio 1865 apriva nuovi scenari e considerazioni: in montagna si poteva morire. Per qualche anno, l'unico versante scalato fu quello italiano, lungo la cresta del Leone (salito per la prima volta qualche giorno dopo – ma questa è un'altra storia), mentre per qualche anno la cresta dell'Hörnli venne considerata maledetta. Ma la cresta dell'Hörnli, la via normale svizzera, per la sua facilità, ebbe in seguito maggior frequentazione, e sicuramente ciò ebbe un impatto nel superiore sviluppo turistico (ancora attuale) di Zermatt rispetto a Valtournenche e Breuil-Cervinia.

La caduta di Croz, Hadow, Hudson e Douglas nella famosa illustrazione di Gustave Dorè (fonte: wikipedia.org)

La prima salita del Cervino è inoltre il primo caso di rivalità e competizione per la conquista di una montagna. I personaggi in questione, Edward Whymper e Jean-Antoine Carrel, personalità dalle caratteristiche completamente opposte, giocarono nel 1865 una partita a scacchi nella quale l'inglese, seppur a caro prezzo, uscì vincitore. Ma la sfida, nonostante trucchi e giochi tattici, rimase sempre nei confini del rispetto e della stima reciproca, fattore che rese questo “duello” assolutamente memorabile. Carrel rimase la guida preferita di Whymper, che lo volle con sé per le sue escursioni alpinistiche post-Cervino, nelle Ande.

mercoledì 22 luglio 2015

Bücher: Tor des Géants

"Ogni viottolo parte baldanzoso verso l'alto, ti spiazza con iprovvise impennate. Si procede tra alberi e rocce che chiudono la visuale, poi all'improvviso il paesaggio si apre. Ancora su, attraversando conche pietrose e morene. E finalmente, una finestra, Anzi, una fenêtre. Difficile definire in altro modo questi "affacci" da cui sembra di dominare il mondo. Ci si sente aquile e camosci, pietre e vento."
Paola Pignatelli, Tor des Géants


Lungo l'Alta Via n.2 ho incontrato un'albergatrice che mi ha presentato con emozione questo libro, un tour fotografico alla scoperta del trail più duro del mondo, il Tor des Géants: 330 chilometri di corsa sulle montagne della Valle d'Aosta, tre giorni di fatica (per gli atleti più forti) su e giù da una valle all'altra, sempre all'interno della regione che raccoglie nel suo territorio le più alte vette d'Europa.
Devo essere sincero, da tempo avevo adocchiato questo volume, percorrere l'Alta Via mi aveva convinto ad acquistarlo. L'incontro con lei, valdostana e volontaria del Tor, che mi ha presentato questa corsa (e questo libro) con occhi quasi lucidi dall'emozione. Nelle fasi di riposo di una serata di Alta Via ho sfogliato le pagine di questo libro (fotografie di Stefano Torrione e testi di Paola Pignatelli) e ci ho ritrovato tutta la gioia della "conquista" di un traguardo nella salita di questi monti. Come premio per l'Alta Via conclusa, a Courmayeur, mi sono regalato questo libro...
...e l'ho finito in poche decine di minuti. Perché le emozioni delle Alte Vie, anche se vissute da me in maniera completamente diversa rispetto agli skyrunner del Tor, sono quelle di chi ama la montagna. Ho rivisto e ripercorso tutte quelle sensazioni in poche pagine e tante foto, con le quali l'autore ha colto appieno tutta la sofferenza che la fatica di correre (in salita, poi...) scrive sui volti degli atleti. Sofferenze che ben conosco. I passaggi più spettacolari del Tor - penso alle discese dalla Fenêtre de Tsan o dal Col de la Crosatie - e i suoi panorami sono fantasticamente ritratti. E poi, ci sono i testi che accompagnano e descrivono le varie fasi della corsa, arricchiti da citazioni messe al posto giusto.
Un volume irrinunciabile, dunque, per chi ama la corsa e la montagna, che trovano il connubio più estremo proprio nel Tor des Géants. Un must per tutti coloro che amano farsi travolgere dalle emozioni delle sofferenze e delle fatiche più grandi che si possano sopportare.
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 9/10 

martedì 21 luglio 2015

Alta Via n.2 della Valle d'Aosta, un piccolo bilancio

Ciao a tutti!
È difficile tracciare un bilancio di questa esperienza appena conclusa, sono passati ancora pochi giorni da quando ho terminato l'Alta Via n.2 della Valle d'Aosta e tanti pensieri, tante immagini affollano caoticamente la mia testa. Più di una persona mi ha chiesto se l'Alta Via n.1 era più bella. Giudicare è sostanzialmente impossibile. Queste sono montagne incredibili, dire che una sia esteticamente migliore di un'altra è operazione discutibile. Il Gran Paradiso è meglio del Monte Rosa? Il ghiacciaio del Rutor è più affascinante del Grand Combin? Il Cervino? Lui lo vedi perfettamente da entrambe le vie. Dirò che sono entrambi percorsi bellissimi, consiglio di fare entrambi, per poter godere appieno delle meraviglie naturalistiche valdostane.
Un dato di fatto importante è il fattore meteo. Già tre anni fa, sull'Alta Via dei Giganti mi ritenni fortunato, ma stavolta... Dieci giorni di sole, pochissime nuvole e zero pioggia. Zero pioggia... in montagna è praticamente impossibile non incontrare anche qualche gocciolina nell'arco di dieci giorni. Solo sole e tanto caldo, gli anticicloni Flegetonte e Caronte non hanno lasciato scampo. Il caldo è stato tremendo, soprattutto nei primi e negli ultimi giorni di cammino, da cambiarsi le maglie ogni ora e dover bere fino a sei litri di acqua al giorno.

Lasciando il Rifugio V. Sella
Una piccola delusione c'è stata, dal punto di vista naturalistico. Alcune fioriture si sono rivelate le grandi assenti, come i rododendri, spesso "bruciati" dal caldo, e soprattutto genzianelle e genziane, queste ultime mai incontrate sul percorso. La fauna non è stata da meno e la fama del Parco Nazionale del Gran Paradiso non ha trovata conferma. Fatta eccezione per le tante marmotte, in dieci giorni di cammino ho incrociato un camoscio (a quote stranamente basse) e uno stambecco. Dove sono finiti tutti gli stambecchi che pascolano al Rifugio Vittorio Sella?

Segui il segnavia

È stata dura come l'Alta Via n.1? Difficile da paragonare le difficoltà delle due alte vie e soprattutto le sensazioni di fatica. il caldo ha reso più faticose alcune giornate, ma nel complesso credo che l'Alta Via n.1 sia stata più faticosa e tecnicamente complessa. Mancava una tappa come quella dal Rifugio Coda a Niel (dodici ore circa di cammino senza punti di appoggio, a parte un bivacco), nonostante la frazione da Crest a Champorcher avesse una durata decisamente notevole. Assenti i tratti in cresta e con corde fisse, come nel caso della tappa che porta al Rifugio Coda; sì, qualche corda sul Col Lauson c'è, ma è totalmente ininfluente. Nessun tratto è risultato veramente pericoloso sull'Alta Via n.2, mentre sull'Alta Via n.1 qualche zona discutibile (penso alla discesa da Col de Vessonaz) la si poteva trovare.

Il Monte Bianco dal Col de la Crosatie

Emozioni? Tante, tantissime. Le montagne le conoscevo, ma non mi sono stufato di vederle e rivederle. Anche da nuove angolazioni: in Valsavarenche, ad esempio, non ero mai andato. C'è l'emozione del panorama meraviglioso, quello che solo la montagna può dare, e c'è l'emozione dei racconti di chi vive la montagna. Ho incontrato molta gente in cammino sui sentieri dell'Alta Via (e non solo) in questi dieci giorni. Italiani, inglesi, francesi e anche extraeuropei: le storie di chi ama la montagna non sono mai banali. Cercherò, poco alla volta, di raccontarle. Il tutto, condito dalle immagini di questi dieci giorni. Perché alla fine, ciò che più rimane dentro sono proprio le immagini delle montagne per me più belle del mondo!

lunedì 20 luglio 2015

Il Cervino racconta...

Ciao a tutti!
Come già raccontato venerdì, in occasione della conclusione dell'Alta Via n.2 della Valle d'Aosta, questo momento per me di grande emozione ha coinciso con un grande anniversario: l'anniversario dei centocinquanta anni della prima salita al Cervino nel suo versante italiano. Era il 17 luglio del 1865 quando Jean-Antoine Carrel, Jean-Baptiste Bich, assieme a Jean-Augustin Meynet e all'Abbé Gorret, salirono per la prima volta il Cervino seguendo quasi integralmente la cresta sud-ovest, detta "del Leone". E lo fecero "per la Valtournenche, per l'Italia".

Mario Calabresi, Sandro Filippini, Reinhold Messner, Hervé Barmasse e Catherine Destivelle a Cervino sopra le righe

Valtournenche non poteva rimanere indifferente a questo evento. Venerdì 17 luglio, due eventi hanno caratterizzato la giornata della valle italiana del Cervino. Il primo, nel pomeriggio, è stato "Cervino sopra le righe", un incontro a sfondo letterario svoltosi nell'Auditorium di Valtournenche, condotto dal direttore de La Stampa Mario Calabresi, con tre alpinisti d'eccezione, Reinhold Messner, Hervé Barmasse e Catherine Destivelle, e con la partecipazione di Mario Filippini. Il secondo, nella serata, è stato "Il Cervino racconta", a Saint Vincent, in cui Kay Rush ha condotto, assieme ai già citati alpinisti, ai quali si è unito un altro fuoriclasse dell'alpinismo di oggi, Simon Anthamatten, una serata multimediale. Entrambi gli eventi hanno avuto come tema unico questa grande montagna, che ha acceso i sogni degli uomini centocinquanta anni fa, e continua a farlo oggi.

Selfie con Hervé...

...e dedica

Tutta il mio programma dell'Alta Via è stato studiato in funzione di venerdì. Volevo tremendamente esserci: gente come Barmasse e Messner, figure che rappresentano il radioso presente e il glorioso passato dell'alpinismo italiano, non le puoi incontrare ogni giorno. A modo loro, sono due figure straordinarie. Messner è un narratore eccezionale, sa incantare la platea con spiegazioni dettagliate, che non cadono in fredde citazioni, ma che provengono chiaramente dal cuore, con animosità (e senza autocelebrazionismi). Barmasse, l'alpinista di casa, rappresentante della quarta generazione di guide, emoziona tutti, raccontando con un sorriso genuino, il significato che ha per lui, nativo della Valtournenche, questa montagna. E con la stessa serenità firma e dedica libri ai suoi fan. Personaggi che sono ricchezza, personaggi di cui l'Italia deve essere orgogliosa.

I quattro alpinisti con la piccozza celebrativa della Grivel

Per vederli, ho chiuso con estrema rapidità l'Alta Via, ho preso i primi treni disponibili, corso notevolmente in autostrada e sulla statale della Valtournenche. Ne è valsa la pena. Sono stati due eventi memorabili per chi ama la montagna e i suoi uomini, in grado di incollare i presenti alle parole dei protagonisti. Dal ricordo degli eventi di centocinquanta anni fa, di quelle salite e di quella tragedia che, secondo Messner, "ha reso più famosa la salita svizzera del Cervino", alla memoria di Walter Bonatti, un pilastro dell'alpinismo che sul Cervino aveva capito che oltre non era più possibile fare. Dalle discussioni sulla montagna di oggi, per Messner solamente più sport (non velati gli attacchi lanciati a Ueli Steck e soprattutto a Kilian Jornet) o turismo, alle speranze per la montagna di domani, dove si spera che grazie a figure come Barmasse, possa nuovamente germogliare il seme dell'avventura, quello spirito di Ulisse che le giovani generazioni devono continuare a mantenere vivo.

Pazza gioia!

Sono tornato in Germania, oltre che alle immagini straordinarie dell'Alta Via ancora impresse negli occhi, con le parole di questi straordinari "artisti" della montagna. Ispirazione che mi accompagnerà, impulso che ha già rimbalzato da una parte dell'altra della mia testa durante il mio viaggio di ritorno di ieri. E che continuerà imperterrito nei prossimi mesi. Da Valtournenche e da Courmayeur ho fatto man bassa di letteratura alpina, per future immersioni nei racconti dei grandi alpinisti.
Bis bald!
Stefano

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