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lunedì 22 agosto 2016

22 agosto 1955 - Dru, la salita impossibile

"Solo ora sento di possedere una valida unità di misura per poter comprendere l'intensità di ciò che ho vissuto quassù. La montagna, le sue rocce, il vuoto erano diventate cose così vive in me da farmi giungere persino, poco alla volta, a compenetrare in loro, a sentirle inconsciamente parte di me stesso tanto da formare con esse un unico corpo. Ora invece, che come in un risveglio posso staccarmi da queste sensazioni e riconciliare i loro valori con la realtà, mi sembra persino di aver sfiorato l'idea di esser sempre vissuto su questa montagna, col solo scopo di soffrire e di salire verso la vetta eternamente irraggiungibile. Per la prima volta sento di avere in pugno il Pilastro del Dru, di aver varcato la barriera che mi separava dalla mia anima e provo un gran desiderio di piangere e di cantare."
Walter Bonatti, Le mie montagne

L'imperioso Dru (fonte: sweclimber. wordpress.com)

Quando si parla di Dru un solo nome può venire alla mente, quello di Walter Bonatti. Il Dru è la montagna che lo fece grande, il Dru è un pugnale di roccia ardita al quale Bonatti si è legato per sei giorni. E al quale Bonatti ha legato il suo destino, di uomo ancor prima che di alpinista. Il fascino che il Dru rilascia negli alpinisti è notevole, soprattutto il pilastro sud-ovest del Petit Dru (che assieme al Grand Dru compone le Aiguilles du Dru). È la parete più impraticabile, una provocazione, una sfida ai limiti dell’impossibile. Il gusto della competizione con l’impossibile è quasi una scelta di vita per Bonatti, che da parecchio tempo ha in mente questa salita. Già nel 1953, prima della spedizione italiana al K2, abbozza il primo tentativo con il fidato compagno di cordata Mauri, ma i parecchi giorni trascorsi in parete, il maltempo, le difficoltà evidenti, consigliano i due a ritirarsi dal tentativo. Ritenta nel luglio 1955 con altri tre fortissimi alpinisti: Mauri, Aiazzi ed Oggioni. Anche stavolta il maltempo (e un piccolo incidente ad Oggioni) rovina i piani di Bonatti, e la ritirata è l’unica via possibile.

I versanti ovest/sud-ovest del Dru. Molto visibile la frana datata 2005 che ha cancellato la via Bonatti (fonte: wikipedia. org)
Il caso del K2, conquistato da Compagnoni e Lacedelli un anno prima, ha manda in crisi Bonatti, molto più dal punto di vista umano ed esistenziale, piuttosto che alpinistico. Il Dru vuole essere per Bonatti la via per riconciliarsi interiormente, per mettere la parola fine su un periodo che, seppur ricco di contenuti alpinistici, era stato vuoto di emozioni per Bonatti. Egli stesso racconta ne Le mie montagne come una improvvisa resurrezione lo coglie dopo il fallimento nell’ultimo tentativo: "Improvvisamente, come una folle idea generata dalla depressione morale, penso di ritornare sul Dru, di vincere da solo e mi impongo di credere che non è vero che sono un uomo finito. Col passare dei giorni, quello che avevo definito un folle proposito diviene via via un raggio di luce, di speranza e infine di fede e, non molto tempo dopo, si può dire che nella mia mente non esiste altro pensiero che quello di scalare il Dru da solo. Più volte mi vedo sospeso sulle sue rocce, lungo il suo canalone, le placche del suo Ramarro e una fiducia quasi miracolosa mi fa credere che ciò è possibile e che deve avvenire. Quasi per incanto, persino le Placche Rosse non sono più così spaventose; riuscirò dunque veramente a riscattare me stesso?"

Da La Stampa del 21 agosto 1955

E dunque, Bonatti sceglie di percorrere in solitaria la lunga salita verso la cima del Dru lungo il pilastro sud-ovest, la sua personalissima soluzione per risorgere dalla sua più cupa crisi interiore. Con sé ha una quantità sconcertante di materiale: ottanta chiodi, due martelli, una piccozza, quindici moschettoni, tre staffe, due corde da quaranta metri e sei cunei di legno. Attrezzatura di sessant'anni fa: io mi chiedo, oltre ai viveri, quanti chili trasportava nel suo sacco?
Con grande intensità Bonatti risale il pilastro sud-ovest in totale solitudine. Ma è una salita durissima. Lo sarebbe per una cordata di grandi scalatori, lo è ancora di più per un uomo solo di fronte ad un muro di granito. La scalata è ovviamente condizionata dalla solitudine. Le manovre sono lente, la progressione è rallentata, in quanto in solitudine si deve aprire la via, scendere, recuperare il materiale e schiodare. Bonatti inventa addirittura un nuovo tipo di assicurazione in parete, come scrive ne Le mie montagne: "Ne ho scoperta una in cui il sacco ha una parte importantissima e da allora non sono più salito di un metro senza prima aver adottato questo sistema, che in seguito chiamerò «a Z». Dopo aver assicurato a un chiodo il sacco attaccato a un capo della corda, mentre io sono attaccato all'altro, riduco d'un terzo il tratto di corda che mi separa dal sacco stesso, facendo un nodo che fisso alla cintura, sulla schiena. Questa manovra mi permette di avanzare, quasi come se fossi attaccato a un compagno di scalata perché, se cadessi, la mia caduta non potrebbe essere maggiore del doppio del tratto di corda che mi lega al chiodo al quale sono ancorato, e il sacco fungerebbe da contrappeso."

Liscia, verticale, come nient'altro (fonte: summitpost.org)

I primi quattro giorni di salita sono inoltre funestati dalle ferite multiple che Bonatti si procura alle mani nell'intento di piantare i chiodi, da una borraccia di alcol che danneggia buona parte dei viveri, e anche da un po' di maltempo, immancabile ad alte quote.
E poi c'è il peso dello scalare in solitudine. Quando solo la roccia e il cielo ti circondano, è un peso che è un macigno. Scrive Bonatti: "La solitudine che mi accompagna è così assoluta, allucinante, che più volte mi sorprendo a parlare inconsciamente, a fare considerazioni ad alta voce, a tradurre insomma in parole tutti i pensieri che attraversano la mia mente. Mi trovo persino a discorrere col sacco, come avesse un'anima, come fosse un vero compagno di cordata."

Con il n.5 la via Bonatti al pilastro sud-ovest del Dru (© Antonio Passaseo)

La chiave di volta arriva durante il quinto giorno. Dopo una serie di tre pendolate effettuate per raggiungere una fessura considerata la via migliore di salita, Bonatti si ritrova una muraglia completamente liscia di roccia. Non ci sono fessure, né a sinistra né a destra. Non c'è via di scampo. Pendolare nuovamente non è più possibile. Salire ancora nemmeno. Scendere in corda doppia, con lo strapiombo che incombe sotto i piedi, è garanzia di morte sicura. Bonatti è bloccato in parete. In un'intervista, disse: "Fu tale la disperazione che rimasi inchiodato per più di un'ora ad un chiodo, io e il sacco, incapace di muovermi. Prima pensai, in un momento di debolezza, di lasciarmi morire, e poi in fondo, avevo lottato quattro giorni e quattro notti per vivere, non potevo di certo lasciarmi morire così."

Da La Stampa Sera del 23 agosto 1955

Bonatti intravede una dozzina di metri sopra di lui delle rocce appuntite, nelle quali vede la possibilità di agganciare dei nodi fatti con la corda. Raccoglie dunque tutta la corda a disposizione, annoda un grappolo all'estremità e lo lancia verso queste roccette, a mo' di lazo, nella speranza che si incastri. I tentativi sono svariati, ma senza successo perché la corda continua a cadere. Poi, dopo una decina di prove, il nodo fa presa. Rimane un unico dubbio: riuscirà quel nodo, incastrato tra le rocce a reggere il peso di un uomo in caduta libera? Non rimane che provare: "Trattengo il respiro e scivolo nel vuoto, così, in pendolata verso destra. Per qualche secondo ho la sensazione di precipitare, poi il volo si smorza e avverto quasi subito che sto iniziando la contropendolata a sinistra. L'ancoraggio ha tenuto! Sono attimi in cui cento pensieri, fulminei, si affacciano alla mente con assoluta chiarezza e si imprimono nell'anima per tutta una vita" (da I miei ricordi).

Da La Stampa del 24 agosto 1955

Il grande ostacolo è superato, il Dru è nelle mani di Bonatti. Quasi. Il Dru, nel suo pilastro sud-ovest è una montagna difficilissima e tale rimarrà per tutta la via seguita da Bonatti, il quale si ritrova a dover affrontare ancora numerosi strapiombi in arrampicata libera, tra cui anche gli ultimi cinquanta metri. Ma la forza nell'aver sconfitto la disperazione, la morte che incombeva, gli dà una carica inarrestabile.
Alle 16.37 del 22 agosto 1955, Bonatti vince la sua sfida solitaria di sei giorni e cinque notti con il Petit Dru, lungo quello che fu poi chiamato il pilastro Bonatti (crollato nell'estate 2005 - dunque la via non è più percorribile), una conquista che è considerata uno dei più grandi exploit della storia dell'alpinismo. Da quel momento Bonatti diventerà una celebrità nel mondo della montagna e raccoglierà tutta l'ammirazione della comunità alpinistica. È sul granito del Dru, dunque, che Bonatti diventa il grande alpinista che tutti conoscono.

mercoledì 10 agosto 2016

10 agosto 1964 - Nell'inferno delle Grandes Jorasses

"Delle tre grandi Nord, la Jorasses ha la prerogativa di non lasciare mai scorgere allo scalatore un qualsiasi segno di vita, anche solo all'orizzonte. Lassù non arriva altro suono che quello della bufera, delle valanghe o delle folgori."
Walter Bonatti, I giorni grandi

La Mer de Glace ai piedi delle Grandes Jorasses (fonte: summitpost.org)

Bonatti e la nord della punta Whymper delle Grandes Jorasses: una salita voluta, desiderata, agognata, a tal punto da presentarsi alla sua base, risalendo per ben sette volte in tre anni il sottostante Ghiacciaio di Leschaux. È una salita dalle difficoltà estreme, al limite della sopportazione umana, in cui niente attorno può dare conforto, perché attorno allo scalatore, si possono sentire solamente la presenza della roccia e del ghiaccio. Su questa parete dalla singolare verticalità, anche il tepore dei raggi del sole non si fa quasi mai sentire.

Walter Bonatti (ferito alla fronte) e Michel Vaucher (fonte: wikipedia.org)

Dopo i sette tentativi in solitaria non andati a buon fine, Bonatti ritenta la salita con Michel Vaucher, fortissimo scalatore ginevrino, uno dei pochi alpinisti – assieme a Mauri e Mazeaud con i quali Bonatti si è fidato ciecamente nel lasciar loro la responsabilità del ruolo di primo di cordata. È il 6 agosto del 1964 quando Bonatti e Vaucher si ripresentano di fronte alla impressionante parete nord delle Grandes Jorasses. Con loro, c'è una quantità non meno sconcertante di attrezzatura per provare l'ascesa: viveri per cinque giorni, cinquanta chiodi e trenta moschettoni. Per le grandi imprese servono grandi quantità di materiale.

Grandes Jorasses (fonte: summitpost.org)

La salita inizia in piena notte fonda, in quanto l'attacco della parete è il naturale ricettacolo delle pietre scaricate dalle Grandes Jorasses. L'inizio dell'ascesa si rivela ottimo, ma ben presto salire sulla parete mai calcata prima dall'uomo diventerà un'impresa ai confini massimi delle capacità di sopravvivenza. Un'impresa di quelle che stuzzicano Bonatti, un'impresa di quelle che ha reso grande Bonatti. Una serie di problemi – che per i comuni mortali sarebbe meglio definire drammatici eventi – affligge la salita. Si inizia già dal primo giorno, quando un masso in caduta distrugge una delle due corde tranciandola in cinque spezzoni; annodati, non potranno che creare problemi durante lo scorrimento nei moschettoni. Ma è durante il primo bivacco che succede l'imprevisto che si rivelerà decisivo nel prosieguo dell'ascensione.

La via Bonatti-Vaucher sulla parete nord della Punta Whymper alle Grandes Jorasses (fonte: helias-millerioux.fr)

Nella notte un frastuono fragoroso sveglia Bonatti e Vaucher. È una frana, una frana enorme, che scavalca i due alpinisti ma li ricopre di polvere. Salire su un tratto di parete franato diventa ora impresa ben più complessa, e pericolosa. Infatti, una volta ripresa l'ascensione, il disgelo provoca un'altra scarica di pietre a pochi metri dai due alpinisti. Bonatti viene anche colpito anche da un sasso in piena fronte. Un brutto colpo, che richiede tempo per riprendersi e per i medicamenti. Il secondo bivacco, all'ombra di una parete franata e dopo una giornata decisamente complicata, quasi priva di progressi, con l'aggiunta di una bufera di neve, non è certamente dei più sereni.

Da La Stampa dell'11 agosto 1964

Scalare il giorno successive alla bufera vuol dire districarsi tra camini completamente ricoperti di neve e innalzarsi lungo strapiombi in cui il ghiaccio la fa da padrone. Le possibilità di assicurarsi sono pochissime, Bonatti e Vaucher devono ricorrere a soluzioni fantasiose per ovviare al problema, come lo stesso Bonatti racconta ne I giorni grandi: "l'assicurazione con i chiodi diventa talmente precaria che a volte non riusciamo ad ancorarci al termine dei diciotto metri di fune: allora il secondo di noi, invece di rimanere fermo in assicurazione come vuole la regola, si muove anche lui verso l'alto, per consentire al primo di utilizzare qualche metro di corda in più."

Bonatti e Vaucher acclamati al termine della loro impresa (fonte: supertopo.com)

L'ultimo bivacco in parete è anch'esso non meno tormentato. La temperatura si abbassa fino a -15°C e Bonatti perde il suo sacco da bivacco, caduto nel vuoto. Ci sono ancora duecento metri di salita, che vengono superati con fatica, con un utilizzo spasmodico di chiodi. I due lentamente salgono, salgono. La parete diventa vetta, il sacrificio di quattro giorni diventa vittoria. Una delle poche nord rimasta inviolata, che Bonatti definì "l'ultimo baluardo di un grande alpinismo tradizionale" cede alla forza e alla forza di volontà di Bonatti e Vaucher.

venerdì 29 luglio 2016

Arpy, un lago, una testa e molto di più

Ciao a tutti!
Luglio, sole e tanto caldo, un fine settimana in Italia per il matrimonio di un amico, una domenica libera prima del rientro in Germania. Sono ingredienti perfetti, questi, per trascorrere una giornata in montagna. Avrei potuto cacciarmi su qualche sentiero sperduto, fare un migliaio di metri di dislivello per raggiungere una qualche punta dal bel panorama, per conto mio. Ma avrei potuto anche organizzare una giornata all'aria aperta, brevi passeggiate in compagnia, non dure ma altrettanto piacevoli. E così abbiamo fatto, optando per la miglior compagnia possibile e un luogo forse senza eguali in Valle d'Aosta. Parlo del Colle San Carlo, della Testa d'Arpy e del Lago d'Arpy.

Grandes Jorasses e il Lago d'Arpy.

Il Colle San Carlo, conosciuto più dagli appassionati di ciclismo (essendo una salita durissima) che da quelli di trekking, è il naturale punto di partenza verso le altre due destinazioni citate. Imboccando il sentiero verso nord si sale verso la Testa d'Arpy. Una manciata di minuti, e una cinquantina di metri di dislivello per raggiungere uno dei più accessibili balconi della Valle d'Aosta. Ci accoglie un belvedere di prim'ordine su Monte Bianco e sulle Grandes Jorasses, nonché su Courmayeur, sul Mont de la Saxe e sull'alta Valle centrale. Con una bella giornata, queste montagne non sono solo monumenti alla bellezza che Madre Natura ci ha donato, sono entità vive che paiono brillare di luce propria...

Che balcone sul Monte Bianco e sulle Grandes Jorasses, la Testa d'Arpy! Foto di archivio, 28 agosto 2011

Queste montagne sono un libro aperto, chissà quante storie potrebbero raccontare. Ci sono le storie più felici, di grandi conquiste alpinistiche, di grandi acrobazie, in parete e sul filo di creste innevate. Ci sono le storie più funeste, quelle che raccontano grandi tragedie: un po' per caso ci ritroviamo di fronte al Monte Bianco proprio il giorno successivo al 55esimo anniversario della tragedia del Frêney.
Ci sono storie piccole, come la mia, perché sotto questi monti ho incontrato tanta, tantissima felicità al termine delle alte vie valdostane. Il Monte Bianco, sia nell'Alta Via n.1 (scendendo dalla Val Ferret) che nell'Alta Via n.2 (scendendo dalla Val Veny: vedi post) è la cornice attorno ad un quadro fatto della gioia silenziosa che nasce dalla fatica e dalla conclusione di un lungo percorso tra le montagne.

Flora in esplosione. Foto di archivio, 11 luglio 2009

Dal Colle San Carlo, imboccando il comodissimo sentiero opposto a quello per la Testa d'Arpy, verso sud, si può raggiungere in un'ora l'omonimo lago, una vera e propria perla della Valle d'Aosta. Non c'è molto da salire (un centinaio di metri), e si rimane quasi sempre all'ombra di larici e di pini. Quando questi ultimi iniziano a diradarsi, rimane sempre, e non dico poco, una vista eccezionale sulle Grandes Jorasses. Il lago d'Arpy è uno specchio meraviglioso dove brillano i riflessi delle Grandes Jorasses e del verde delle praterie e dei pendii che lo circondano.
Quando raggiungiamo il lago troviamo veramente tanta gente sulla sua riva. In fondo, è una meta facile da raggiungere. E molto attraente. Personalmente, consiglio una gita al Lago d'Arpy a tutti quelli che vogliono avvicinarsi alla montagna, alle montagne valdostane, senza faticare tanto oppure senza andarsi a cacciare su sentieri impervi e per escursionisti di esperienza. Ed in più, c'è la possibilità di stare al sole, all'ombra, con i piedi nell'acqua, circondati da prati, rocce e rododendri. Posti con tutte queste caratteristiche non sono facili da trovare.

Il Lago d'Arpy visto dal sentiero per il Lago di Pietra Rossa. Foto di archivio, 11 luglio 2009

Io stesso ho perso il conto delle volte nelle quali sono venuto qui con amici. Se non vi ho convinto con le mie parole sulla mia ultima visita al Lago d'Arpy, qualche giorno fa, allora lasciatevi convincere dalle foto che negli anni ho scattato in questo posto...
Bis bald!
Stefano




















sabato 23 luglio 2016

23 luglio 1951 - Un ragazzo diventa leggenda sul Grand Capucin

"Il mio sguardo era ancora là, su quel complesso di guglie dove spiccava un superbo pilastro rosso dominante la scena. La sua verticalità era assoluta, sconcertante; la sola idea di immaginarsi appesi lassù dava quasi il capogiro. Ricordo che uno dei miei primi pensieri fu di chiedermi se qualcuno avesse mai osato scalare quella guglia, di cui ignoravo ancora il nome."
Walter Bonatti, Montagne di una vita

La maestosa colonna di granito rosso del Grand Capucin (fonte: wikipedia.com)

È l'estate del 1949 quando un ragazzo di diciannove anni, nel bel mezzo del ghiacciaio del Gigante, viene rapito da una guglia del gruppo del Mont Blanc du Tacul: una colonna di granito rosso, alta quasi mezzo chilometro. È il Grand Capucin, un monolite il cui nome francese deriva dalla sua sagoma affilata, che ricorda quella di un frate cappuccino. La sua parete orientale, un'impressionante rete di fessure e strapiombi, è qualcosa di considerato impossibile da scalare. È una parete vergine, uno dei "problemi alpinistici" rimasti insoluti. Quella parete rapisce letteralmente Bonatti...

Tutta la verticalità della parete est del Grand Capucin (fonte: cornodicavento.com)

Il primo tentativo è nel 1950, con l'amico monzese Camillo Barzaghi, ma la scalata si interrompe bruscamente per il maltempo. Un paio di settimane dopo, Bonatti ci riprova con il torinese Luciano Ghigo, conosciuto per caso nel campeggio di Courmayeur. Una scalata lunghissima, eterna. Le difficoltà sono estreme fin da subito e la salita si rivela laboriosa, con tratti di arrampicata libera, su una roccia dove è impossibile piantare chiodi. Ma dopo tre giorni, iniziano a scarseggiare anche le provviste, l'acqua prima di tutto. E nel frattempo, a mettere i bastoni tra le ruote, ci si mette anche il meteo. Una violenta nevicata imperversa sul Monte Bianco. Ma non c'è via di ritirata: bisogna superare uno dei passaggi più difficili della salita, una placca liscia di quaranta metri. Sopra di essa si trova una cengia nevosa lungo la quale uscire verso la parete nord e tentare la ritirata. Che si rivelerà assai rocambolesca, tramite una serie di calate in corda doppia. Durante una di questa, Bonatti si ritrova addirittura appeso a testa in giù... Bonatti e Ghigo escono dalla situazione problematica, ma si ripresentano ai piedi del Grand Capucin solo un anno dopo.

Tutte le vie della est del Grand Capucin; la numero 10, tratteggiata in bianco è la Bonatti-Ghigo (fonte: climbandmore.com)

Questa ha ora molti meno segreti per i due alpinisti. In due giorni risalgono ciò che era stato scalato in quattro durante il tentativo dell'anno prima. Quindi, rimane l'ultimo tratto di salita, che Bonatti descrive così, "il vuoto è tornato impressionante, ma la roccia è salda e ben fessurata; non c'è verso tuttavia di guadaganre un solo metro di parete senza ricorrere ai chiodi". Tra acrobazie al limite e il continuo martellare sui chiodi, la giornata si chiude con un piccolo incidente, dal quale Bonatti esce grazie alla sua forza prodigiosa: un chiodo si stacca e Bonatti cade nel vuoto per qualche metro, prima di potersi attaccare ad una sporgenza. La terza giornata di salita si chiude così, e i due trascorrono la notte appesi nel vuoto. Dormire su una corda che circonda le gambe e con qualche fiocco di neve che cade, beh, non è proprio il massimo del comfort. Ma la via di uscita non è lontana.

La Stampa del 25 luglio 1951 celebra l'impresa di Bonatti e Ghigo

Seguendo una piccola fessura Bonatti e Ghigo si portano alla base del "cappuccio" che dà il nome alla montagna. Alcune placche coperte dalla neve, poi un camino nascosto dal ghiaccio. Un ultimo salto, poi la vetta. Sono le 14.30 del 23 luglio 1951, quando due ragazzi, poco più che ventenni, Walter Bonatti e Luciano Ghigo, realizzano un'impresa fino a quel momento considerata pura utopia. Per Bonatti, il Grand Capucin non sarà che la prima delle "prime salite", l'affermazione che lo farà entrare di diritto nel firmamento alpinistico. Nasce qui, sul granito rosso del Grand Capucin, la leggenda di Walter Bonatti.

domenica 17 luglio 2016

Bücher: Frêney 1961

"E pensare che un giorno, in un angolo recondito del suo cuore, aveva sperato di abbandonare la vita proprio in questo modo! Di vederla scivolare via nel vento delle sue montagne; d'altronde in che altro modo sarebbe potuto morire? Lui amava solo la montagna, e per essa sarebbe morto più volentieri che per qualsiasi altra cosa. Finalmente poteva vedere il confine tra la terra e il cielo, tante volte sfiorato ma mai raggiunto pienamente come in quel momento. Allora alcune voci confuse nel cuore gli suggeriscono di spiare nei suoi ricordi, di guardare tutta la sua esistenza, di lasciarsi andare alle immagini di una vita intera. Si ricordò delle notti stellate quando camminava verso una parete e sentiva i ramponi che scricchiolavano mordendo il ghiaccio. Avanzava così accompagnato da quel rumore, sotto il firmamento illuminato. A volte aveva avuto l'impressione che fossero le stelle a scricchiolare. Che tutto il firmamento emanasse quello scricchiolio. E quante volte aveva visto levarsi il sole? Durante la sua vita di alpinista, Oggioni si era alzato quasi sempre prima della grande stella, come un devoto prima del suo dio. E ogni volta, quando arrivava la palla di luce, sentiva il ghiacciaio reagire al caldo improvviso. Il fischio delle pietre che cadevano liberate dalla morsa del gelo. Lo vedeva girare per tutto il giorno, il sole, disegnando con le ombre figure sempre più allungate sulla roccia. L'alpinismo! Quanti soli diversi aveva visto. Quante albe, quanti mezzogiorno accecanti. Quanti tramonti! Che non avrebbe più avuto davanti agli occhi."
Marco Albino Ferrari, Frêney 1961


Un'opera straordinaria in un contesto di immane tragedia: questo il primo pensiero che ho avuto dopo aver riletto (cinque anni dopo la prima volta) Frêney 1961, il romanzo-cronaca di Marco Albino Ferrari sul dramma del Pilone Centrale del Frêney. In assoluto, uno dei volumi di "letteratura di montagna" che conservo con più affetto, per tanti motivi. Innanzitutto perché mi ha aiutato a comprendere la figura non solo alpinistica ma soprattutto umana di Walter Bonatti. In secondo luogo, perché non è solo il racconto di una delle più grandi tragedie della storia dell'alpinismo - forse la più grande della seconda metà del XX secolo - ma un vero e proprio romanzo thriller.
Per chi non conoscesse la vicenda, consiglio di leggere questo mio post più approfondito in cui ho raccontato questa pagina di alpinismo. In breve, nel luglio 1961 una cordata italo-francese di sette uomini, tra cui Bonatti, si ritrova bloccata dal maltempo sulla parete del Pilone Centrale del Frêney per circa quattro giorni, salvo poi tentare una disperata ritirata, che in condizioni proibitive, porterà alla morte di quattro dei sette componenti della spedizione. Ferrari, che di montagne è un grande esperto (è direttore di Meridiani Montagne), racconta con grande dovizia di particolari e dettagli puramente tecnici la cronaca della salita, del bivacco e della ritirata. Ma grazie alla documentazione dell'epoca (giornali in primis) e alle testimonianze di chi è sopravvissuto alla tragedia (Bonatti, Gallieni, Mazeaud) e di chi ha vissuto in prima persona quei giorni drammatici, Ferrari ha ricostruito scene di grande carica emotiva, i dialoghi tra gli alpinisti, i pensieri e riflessioni dei protagonisti nei momenti di tensione. Ha ricostruito in parole i timori degli alpinisti e lo sgomento di familiari e conoscenti a valle. Rendendo questi fatti di mera cronaca un avvincente romanzo thriller, in cui il susseguirsi degli eventi è costantemente intervallato da colpi di scena.
Nel racconto della tragedia, Ferrari lascia sempre una porta aperta alla speranza: anche leggendo per la seconda volta questo libro, e nonostante la vicenda fosse a me ben nota, mi rimane sempre la sensazione che in questa storia, da un momento all'altro, possa esserci un punto di svolta positivo. Fulmini in ogni dove, bufere di neve, bivacchi all'addiaccio, ritirata in condizioni impossibili, lo sfinimento che uccide, crepacci traditori, corde ghiacciate, soccorsi che non arriveranno mai, la pazzia che prende il sopravvento... eppure lo spiraglio per un finale felice c'è sempre. Proprio quello spiraglio che Bonatti inseguì in quegli sciagurati giorni , fiducioso che non sarebbe stata la sua fine, consapevole che solo mantenendo accesa nel cuore e negli occhi la luce della speranza, si poteva uscire dall'incubo.
Frêney 1961: un libro di montagna, adatto anche a chi la montagna non la conosce, ma anche un formidabile thriller, da leggere tutto d'un fiato.
A presto!
Stefano

Giudizio: 10/10 

sabato 16 luglio 2016

16 luglio 1961 - Frêney

«Sono arrivati, sono arrivati» gridava qualcuno. Poi, con un sorriso, il primo che Bonatti vide quella mattina, il giornalista si mise a parlare: «Siamo a Courmayeur, quello di fianco a me è Walter Bonatti, appena sceso dalla sua avventura sul tetto d'Europa. Allora Bonatti... dica ai nostri telespettatori: com'è andata?» fece Emilio Fede con la sua faccia un po' inebetita. Bonatti lo guardo negli occhi e solo allora capì veramente che era tornato nell'altra metà del suo mondo. «Mazeaud mi ha detto che Oggioni è morto...» disse piangendo. «Come mai vi siete salvati solo voi?» Tutti gli occhi della gente erano puntati su du lui. E Bonatti, di fronte a Bianca, pronunciò una frase che fece felice Emilio Fede: «Ci siamo salvati solo noi tre: Mazeaud, Gallieni e io. Gli unici che avevano una donna e un amore ad aspettarli». Poi lo mandò via con un gesto e andò da Bianca.
Marco Albino Ferrari, Frêney 1961

Da La Stampa Sera, 15 luglio 1961

Un grande alpinista, una leggenda delle montagne, un gigante delle grandi pareti, non si dimostra tale solo nella vittoria e nelle imprese. È tale anche nella tragedia. Quella che Walter Bonatti ha vissuto in prima persona, sicuramente la più grande della sua carriera alpinistica, probabilmente una le più nefaste e allo stesso tra le più "celebrate" dell'intera storia dell'alpinismo, ha aiutato a celebrare ancora di più la sua già maiuscola figura di alpinista. Ma soprattutto ha celebrato l'uomo Bonatti, in grado di rimanere forte nella catastrofe, umano nella disgrazia. L'evento in questione risale al luglio del 1961 ed è tristemente conosciuto come la tragedia del Pilone Centrale del Frêney.

Da La Stampa Sera, 16 luglio 1961

Il Pilone Centrale del Frêney era un obiettivo ambito da più di un alpinista, in quanto era l'unico dei pilastri del Monte Bianco, sul versante italiano, ad essere rimasto inviolato. Walter Bonatti e Andrea Oggioni lo studiano da tempo, ma è una salita complessa anche nella preparazione. La salita fino alla base del pilone è lunga, massacrante. Sono poche le settimane in cui ci sono le condizioni climatiche e di roccia ideali alla salita. Questo pilone, poi, è il parafulmini del Monte Bianco, trovarsi qui durante una tempesta, beh, vuol dire andare incontro alla morte. Nel luglio del 1961 sembrano esserci le condizioni giuste per la salita. Bonatti e Oggioni, assieme al loro amico Roberto Gallieni, partono per il Bivacco della Fourche, avamposto tra il il Ghiacciaio del Frêney e il Ghiacciaio della Brenva.

Il Pilone Centrale del Frêney (fonte: montagna.tv)

Qui ritrovano però un altro gruppo di alpinisti, parigini, anche loro con l'obiettivo del Pilone Centrale del Frêney. Non sono degli sprovveduti, anzi, si tratta di alcuni tra i migliori esponenti dell'alpinismo francese: il carismatico Pierre Mazeaud, l'imponente Antoine Vieille, il preparatissimo Pierre Kohlmann e il talentuoso Robert Guillaume. Tra le due cordate si crea subito uno spirito di intesa e di collaborazione, grazie al quale decidono di unirsi per dare l'assalto al Monte Bianco salendo lungo il Pilone del Frêney.

Da La Stampa, 16 luglio 1961

È il lunedì del 10 luglio 1961, quando i sette iniziano la salita sul granito rosso del Frêney. Tutto procede per il meglio fino al pomeriggio del martedì successivo. Quando Mazeaud, passato in testa, sta per approcciare la salita all'ultimo tratto del pilone, l'insidiosa cuspide sommitale che sarà ribattezzata "Chandelle", nubi minacciose si affacciano velocemente all'orizzonte. Mazeaud è costretto a scendere, spaventato dall'elettricità di cui si stava saturando l'aria. Lascia un martello in parete: quello sarà il punto più alto che la cordata italo-francese riuscirà a raggiungere sul Pilone Centrale del Frêney in quei terribili giorni del luglio 1961. E da quel momento inizia il dramma: il francese Kohlmann viene colpito da un fulmine, che lo centra nell'apparecchio acustico, rendendolo sordo e annerendogli il volto. Per Kohlmann è l'inizio del calvario.

Da La Stampa Sera, 14 luglio 1961

Bonatti, che del Monte Bianco è profondo conoscitore, e sul quale ha già scritto la storia dell'alpinismo, sa che i temporali di luglio non sono mai particolarmente lunghi. Si trovano a circa 150 metri per raggiungere la cresta sommitale che li avrebbe portati in cima al Bianco, dal quale avrebbero avuto una facile via d'uscita. Sei ore di bel tempo e tutto si sarebbe risolto con un semplice spavento e un'impresa in tasca. Bonatti è convinto di liquidare la situazione con un bivacco all'addiaccio, in attesa di una finestra di sole. Che non arriverà mai.
Per tre notti, i sette alpinisti sono costretti a bivaccare su una piccola cengia nel bel mezzo della parete, che si riempirà progressivamente di neve, in posizioni scomodissime, a temperature rigidissime, nutrendosi di carne secca e ingurgitando vitamine, costantemente esposti al pericolo di essere centrati dai fulmini. Intanto, tutte le vie di uscita si coprono inesorabilmente di neve, rendendo difficile ogni manovra, le loro, e quelle dei loro soccorritori, che nel frattempo stanno organizzandosi. Ogni appiglio in parete è ricoperto dalla neve, dunque è impossibile uscire in vetta; superare un ghiacciaio dopo una tempesta è come camminare su un filo sospeso nel vuoto, ogni crepaccio nascosto può essere la fine.

Da La Stampa Sera, 18 luglio 1961

All'alba di venerdì 14 luglio Bonatti e Mazeaud convengono che non si può indugiare oltre, bisogna scendere. La via di uscita non può che essere una: ripercorrere la parete del pilone sfruttando il materiale lasciato sulla parete, superare l'insidioso tratto dei Rochers Gruber, risalire il Colle dell'Innominata per poi ripiegare sulla Capanna Gamba. È l'unica via di salvezza. Bonatti, in cuor suo, sa che è un'impresa disperata ma prega tutti di mantenere la calma, perché solo con la calma si può uscire da quella situazione. E spera che i soccorritori stiano già muovendosi verso di loro.

Da La Stampa Sera, 18 luglio 1961

Purtroppo questo non avverrà, la squadra di soccorso capitanata dalla guida Ulisse Brunod, erroneamente, raggiungerà il Bivacco Lampugnani invece di muoversi verso il Colle dell'Innominata.
Il "viaggio della speranza" di Bonatti e compagni sarà un vero e proprio calvario. Fatta eccezione per Bonatti e Gallieni, gli altri componenti della cordata sono allo stremo delle forze, sfigurati, denutriti e massacrati dalla tempesta. Ogni movimento è rallentato perché non ci sono più le forze: serve quasi un giorno per scendere da una parete complicatissima da scendere. Farsi largo nella neve altissima, poi, rende ogni manovra più complicata. È una via crucis. Il primo a morire è Antoine Vieille, ai Rochers Gruber, di sfinimento. Poi, sul Ghiacciaio del Frêney, è la volta di Robert Guillaume, che cade in un crepaccio.

Da La Stampa, 18 luglio 1961

L'ultimo ostacolo, prima di trovare la salvezza nella Capanna Gamba, è il Colle dell'Innominata, la cui salita, già difficile di per sé, è ancora più ardua per via della neve. Andrea Oggioni, sfinito e privo ormai di energie, bloccato da un nodo di corde ormai ghiacciate, non riuscirà a raggiungere il colle. Per Kohlmann, ormai in preda alla pazzia, la fine sarà a pochi metri dalla Capanna Gamba: un movimento brusco di Gallieni viene inteso da Kohlmann come un'aggressione. Bonatti e Gallieni, in quel momento in testa, devono liberarsene e lasciarlo al suo destino, in quanto il rifugio è ad un passo e lì avrebbero potuto dare l'allarme.
Nella Capanna Gamba tutto è spento e tutto tace, oltre venti soccorritori stanno dormendo al caldo mentre fuori sette uomini stanno morendo (e alcuni, morti, lo sono già da ore). L'arrivo di Bonatti e Gallieni mette in moto l'intervento della squadra di soccorso, che riuscirà ancora a salvare Mazeaud, ma nulla potrà per Kohlmann e Oggioni. Si conclude qui, la domenica del 16 luglio 1961, una delle più grandi tragedie alpinistiche della seconda metà del XX secolo.

Bonatti in salvo a Courmayeur con la compagna Bianca (fonte: realtasopravvalutata.blogspot.com)

Il post-Frêney durerà a lungo e produrrà un ampio dibattito nell'opinione pubblica italiana, che si dividerà in due schieramenti, pro- e contro-Bonatti. I sostenitori di Bonatti accusarono i soccorsi di essere stati negligenti, in quanto fu inutile dirigersi al Bivacco Lampugnani quando era palese che non avrebbero mai potuto ripiegare in quella direzione, e ottusi, poiché Brunod avrebbe allontanato in malo modo le indicazioni provenienti da due alpinisti messisi in salvo in quegli stessi giorni, i quali affermavano di aver sentito delle voci provenienti dal Ghiacciaio del Frêney. Gli accusatori di Bonatti, invece, lessero nella morte di Oggioni il sacrificio di un amico, mentre il grande alpinista si era messo "comodamente" in salvo. Perché Bonatti si e altri quattro no? Solo la testimonianza di Mazeaud prima, e un risolutorio articolo, firmato dall'illustre penna di Dino Buzzati, scagioneranno l'operato di Walter Bonatti, definito proprio da Mazeaud "autorevole ed umano".

Da La Stampa Sera, 18 luglio 1961

La montagna quel luglio del 1961 respinse Bonatti, e quell'avventura costò la vita ad un suo amico fraterno ed altri tre compagni di cordata. Fu una ferita dura da rimarginare per Bonatti. Ma allo stesso tempo, anche grazie alla Legione d'Onore che gli fu conferita dalla Francia, il mondo conobbe l'uomo Bonatti, animo limpido ed integerrimo, nella gioia e nel dolore.

mercoledì 6 luglio 2016

6 luglio 1959 - Brouillard, una prima di ghiaccio e folgore

"Al tramonto il vento del nord disperde la tempesta, come d'incanto. Illuminato dagli ultimi raggi radenti, il cono del Monte Bianco riappare etereo nel vento polare che fa fumare le sue creste. Ora abbiamo veramente vinto. Domani prima del sorgere del sole scenderemo a valle. Con il naso schiacciato contro i vetri, Oggioni ammira ancora una volta la sua vetta che, ironia della sorte, ha potuto toccare prima ancora che vedere. Poi cala la notte, ci avvolgiamo nei nostri sacchi gommati, e come tante altre volte ascoltiamo l'urlo del vento, ma con la ritrovata gioia di vivere."
Walter Bonatti, I miei ricordi

Il Pilastro Rosso di Brouillard (fonte: gulliver.it)

Il Monte Bianco è per Walter Bonatti la sede preferita per allenamenti impegnativi ed esperimenti alpinistici, ripetendo le vie storiche, nonché il terreno di caccia per nuove prime ascensioni. Prima del 1959, il curriculum alpinistico di Bonatti sul massiccio più alto d'Europa conta già alcune prime ascensioni di grande rilievo, come la prima salita della parete est del Grand Pilier d'Angle. Ma anche veri e propri exploit, come la famosa salita al Grand Capucin lungo la parete est e l'impresa in solitaria sulla parete sud-ovest dell'Aiguille du Dru.

Da La Stampa dell'8 luglio 1959

Bonatti nel luglio del 1959 vuole aggiungere un'altra prima assoluta: una salita al Monte Bianco, risalendo il Pilastro Rosso di Brouillard, e seguendo dunque la cresta di Brouillard per arrivare in vetta. In questa impresa non sarà solo ma accompagnato da uno dei pochi alpinisti con cui si è legato in cordata con fiducia, Andrea Oggioni.
Questa salita è ricordata da Bonatti non come la più complessa, nonostante la definisca «una delle più belle, più lunghe e più difficili scalate che abbiano come punto d'arrivo il Monte Bianco» ma come una delle più funestate dalle condizioni meteorologiche. La salita del pilastro, di per sé, procederà alla grande, se non per la stalattite di ghiaccio dalla quale partono schegge che colpiscono Oggioni in pieno volto. Questa, nelle diciotto ore di ascesa, risulterà essere l'unico inconveniente, un'inezia a confronto con ciò che li aspetterà.

L'itinerario seguito per salire il Bianco passando per il Pilastro Rosso di Brouillard

Superato il Pilastro Rosso di Brouillard, c'è ancora da percorrere la cresta per arrivare in vetta. I due si fermano poco oltre, per iniziare il bivacco, e rimandano al giorno dopo il completamento dell'itinerario. Nella notte, Bonatti, da alpinista consumato nonostante la giovane età, si accorge che qualcosa sta cambiando, che il maltempo sta arrivando. Non c'è tempo da perdere, bisogna ripartire. E bisogna farlo in fretta. Alle 5.10 del mattino ripartono spediti lungo la cresta: la via d'uscita più logica è la salita in vetta per poi riparare sul versante francese e sulla capanna Vallot. Ma prima, bisogna salire sul Picco Luigi Amedeo e sul Monte Bianco di Courmayeur.

Da La Stampa dell'8 luglio 1959

Il temporale infuria già sul Vallese, e velocemente sta per arrivare sul Monte Bianco. La tempesta è veloce, ma di grande potenza. Il vento produce un rumore tale da impedire qualsiasi tipo di comunicazione. Ogni forma è confusa nel ghiaccio e nella nebbia. I lampi sono ovunque attorno a loro, Bonatti e Oggioni si ritrovano obbligati a gettare periodicamente la piccozza sul ghiaccio per non rischiare di rimanere fulminati - cosa peraltro non facile, perché l'aria è carica di elettricità al punto tale che gli oggetti tendono a sembrare incollati alle mani.
Ma finalmente, dopo cinque ore di calvario nel maltempo più furioso, spuntano alcune orme: è la vetta. Le fatiche, raddoppiate, triplicate dalla tempesta, stanno per finire. Per entrambi c'è un moto di gioia, per averla scampata, per aver portato a termine l'impresa - e per Oggioni, è la prima volta sul Monte Bianco.

La verticalità del granito rosso del Pilastro di Brouillard (fonte: teamctblog.climbingtechnology.com)

Ancora due ore e i due potranno ripararsi nella capanna Vallot. La brutta avventura sarà solo più ricordo e la paura lascerà lo spazio alla soddisfazione per l'impresa.
È un'impresa, questa, non la più famosa - pochi infatti collegano il nome di Bonatti al Pilastro Rosso di Brouillard - ma sicuramente una di quelle che meglio illustra la tempra indomabile di Walter Bonatti e le sue capacità alpinistiche a 360°, che includono la bravura nel tirarsi fuori dai guai. Non di sola scalata, insomma, sono fatti i fuoriclasse dell'alpinismo.

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