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giovedì 2 agosto 2018

Parigi, venti anni dopo

Stump. Questa storia inizia con uno schianto e tante lacrime: respinto dalla traversa, il pallone calciato da Gigi Di Biagio scappa nel cielo di Parigi, portandosi dietro le speranze di vittoria azzurra al Mondiale 1998. I tifosi italiani piangono e imprecano contro quella che è diventata una maledizione: dopo il 1990 e il 1994, ancora i rigori sbarrano la strada alla Nazionale. Anche Marco Pantani è triste, ma per motivi diversi. Otto giorni prima, il 26 giugno, ha perso la sua guida, l'uomo che nel 1995 aveva creduto in lui nonostante la gamba maciullata, tenuta insieme dal ferro impiantato dai dottori del CTO torinese.
Luciano Pezzi, prima partigiano poi una vita da gregario di Fausto Coppi e un'altra da direttore sportivo iniziata alla grande con Felice Gimondi, era andato a prendersi il Pirata direttamente in ospedale: «Lascia la Carrera e vieni con noi: ti costruisco la squadra intorno. Sei il più forte, vincerai Giro e Tour». Sembravano parole al vento, azzardo destinato al fallimento. E invece il grande saggio aveva visto giusto: nel 1997 Pantani rimesso a nuovo ritrova scatti micidiali e sensazioni giuste sulle salite francesi con una maglia destinata a fare la storia: Mercatone Uno. Sale sul podio, come nel 1994. È il preludio al trionfo in Rosa: arriva nel giugno 1998 dopo un duello all'ultimo respiro col russo Pavel Tonkov. C'è una fotografia che ferma il tempo e restituisce la felicità di quei momenti: Pezzi tiene stretto Marco, lo abbraccia. E il romagnolo sorride, un sorriso bello come quello di un bimbo. C'è di più: il Panta indossa una mantellina gialla, un segno premonitore.
In quel luglio 1998 gli italiani vanno in vacanza scornati per la delusione Mondiale: Zidane trionfa su Ronaldo e alza la Coppa. Il giorno prima, sabato 11, il Tour parte da Dublino. C'è pure il Pirata e non era scontato. Anzi, per tutto il mese precedente sembrava che dovesse accadere il contrario. «Sono scarico mentalmente, dopo la vittoria del Giro ho fatto aldoria per una settimana. Che ci vado a fare in Francia?», ripeteva a tutti il cpaitano della Mercatone. E tutti gli davano ragione, tutti tranne uno: Pezzi, «Marco, dimentica pure sella e pedali per 15 giorni, ma lì devi andarci. Ho studiato il percorso, ci sono le pendenze per fare l'impresa e spezzare la maledizione gialla». Eh già, non ci sono solo i rigori a disturbare il sonno degli sportivi italiani. Per chi vive a pane e bicicletta, il Tour è una ossessione: dal 1965 l'inno di Mameli non fa da ninna nanna all'Arc de Triomphe. Trentatré anni dalla zampata di Gimondi, un'eternità. Pezzi punta tutto sul romagnolo, ma il destino suona alla sua porta: il cuore del vecchio leone smette all'improvviso di battere. Pantani è in Spagna con la squadra, una telefonata gli oscura l'alba: versa lacrime su lacrime. Nei giorni successivi in testa gli rimbombano le parole del suo mentore: «Devi andare al Tour, devi andare al Tour, devi andare al Tour...». E Marco gli rispinde al funerale, mettendo una mano sulla bara: «Ci vado, Luciano. Ci vado». Il resto non lo dice, ma lo pensa: «Ci vado e vinco, Luciano». Anche queste sembrano parole al vento.

Circondato dalla folla sul Galibier (fonte: couleur.cc)

Ma dal quel 26 giugno le cose cambiano: i gregari vedono negli occhi del capitano la scintilla che conoscono bene. Macinano chilometri su chilometri per recuperare il tempo perduto e arrivare alla partenza nelle condizioni migliori. La sfida è a Jan Ullrich, astro nascente e vincitore nel 1997. Il Mondiale viene in soccorso del Panta: la Grande Boucle, per non disturbare il tifo calcistico, posticipa il via di circa una settimana. Ossigeno e allenamenti in più per i muscoli del romagnolo. Ma il gap sembra lo stesso incolmabile: quando il 18 luglio la locomotiva tedesca della Telekom stravince la cronometro a Correze, si prende la maglia gialla e rifila 4' e 21" al Pirata, gli italiani spengono la tv e si concentrano sui bagni al mare. La spiaggia chiama, non ci saranno sorprese.
La Grande Boucle intanto si inerpica sui Pirenei, montagne che infilzano il cielo. Il Panta attacca a ogni tappa: inanella un secondo e un primo posto. Vuoi vedere...? Ullrich è in affanno, le gote sempre più rosse. Il giorno  del giudizio è il 27 luglio, sulle Alpi: da scalare il gigante Galibier, poi picchiata e risalita a Les Deux Alpes. È un pomeriggio estivo che più bugiardo non si può: pioggia gelata, vento, foschia e nuvoloni neri. Ai -4 chilometri da quota 2642 e a circa 50 dal traguardo, il Pirata di alza sui pedali e va all'arrembaggio con la pelata protetta da insolita bandana celeste. La ruota gialla della sua Bianchi solca l'acqua, lascia una scia nell'asfalto banato. E va su ancora, va su canterebbe Gino Paoli. Mezza Italia è incollata alla tv: salta sul divano, grida e scatta in ciabatte tra giardini e salotti. Come per magia quei momenti vivono in una bolla temporale, non vanno più via. Basta chiudere gli occhi per ritrovarsi indietro di 20 anni, ascoltare la voce amica di Adriano De Zan, annusare gli odori, rivivere le emozioni, i battiti del cuore sempre più accelerati. E lo scalatore arrivato dal mare ora va giù, va giù ancora. Poi, dopo la picchiata, di nuovo salita: l'arrivo è vicino, Ullrich sempre più lontano. Vince, il Pirata. Taglia il traguardo con gli occhi chiusi, braccia aperte come ali e il viso che è un matrimonio di sofferenza e gioia.
Sembra un novello Cristo, l'opera madonnara di un artista di strada. È "solo" Marco Pantani. Indossa la maglia gialla mentre il tedesco sbuffa ancora verso Les Deux Alpes: becca quasi 9 minuti dall'italiano. Non rimonta più, non ci sono rigori, gatti neri, macchine in contromano e altre diavolerie. La maledizione del Tour è spezzata, Gimondi alza il braccio del Pirata mentre risuona forte Fratelli d'Italia. «Quel 1998 ha cambiato tutto, facevo piadine e non capivo nulla di ciclismo», ricorda Tonina, la mamma di Marco. «Dopo sembravano tutti impazziti, ma se potessi ridarei indietro coppe e Tour per riavere il mio Antonio Inoki, come chiamavo Marco da piccino. In questi lunghissimi anni ho combattuto per ridare dignità a mio figlio, continuerò a farlo fino all'ultimo respiro. È stato maciullato e abbandonato dopo Madonna di Campiglio. Cosa inimmaginabile solo qualche mese prima». Già, nell'agosto 1998 Cesenatico diventa l'ombelico del mondo: alla festa in piazza arrivano da tutta Italia, c'è pure il premier Romano Prodi e Dario Fo, futuro Nobel, manda un quadro per celebrare l'impresa del romagnolo. Il 199 si tinge di rosa e giallo, è l'"anno di Pantani", è una goduria nazionale. Così, non ci sarà più.
Francesco Ceniti, Sportweek, 7 luglio 2018

domenica 23 aprile 2017

Perché questo destino crudele?

Io sono convinto che un ciclista professionista tenga sempre in considerazione l'eventualità di un incidente sulle strade. Le cadute sono già all'ordine del giorno, in gara, dove ci sono solamente (o quasi) biciclette. Quando ci si allena, poi, ci sono tutti i pericoli delle strade. Il traffico, l'imprudenza alla guida, l'imprevisto, la fatalità.
Però, a questa notizia, non eravamo pronti, no.
Alzarsi un sabato mattina e venire a sapere che Michele Scarponi è morto... è un duro colpo. Per il ciclismo, per chi lo segue e lo ama. Un destino infausto se l'è portato via, troppo giovane. Come uomo ma anche come atleta, nonostante i suoi trentasette anni, perché non c'è anagrafe che possa resistere se in sella sei mosso dalla passione e dalla gioia di pedalare.
Questo destino infausto si è portato via il migliore del gruppo. Forse non in gara, nonostante il successo al Giro nel 2011, sicuramente sul piano umano. A partire dai suoi capitani, che lo ricordano come un gregario affettuoso, per arrivare ai suoi direttori sportivi, che lo commemorano come uno dei capitani più speciali. Sulle salite di Giro e Tour, quando non era coinvolto nella bagarre e lo riconoscevi, non era mai scontroso (come tanti altri), bensì sempre disponibile con i tifosi. Anche solo con un sorriso. Un sorriso di quelli che ne valgono cento, un sorriso che brillava, così accentuato da un volto magrissimo, scavato dai sacrifici e dalla fatica di oltre vent'anni di carriera. Un personaggio affabile al quale non si poteva non voler bene.

Il ciclismo ti ricorderà così, Michele: con il sorriso!

Il ciclismo è più povero, oggi, perché l'Aquila (così come era soprannominato) è andata a volare lungo altre salite, in altri cieli. Ciao, Michele.

martedì 14 febbraio 2017

Quelli che pedalano

E ora mi alzo sui pedali come quando ero bambino
Dopo un po' prendevo il volo dal cancello del giardino
E mio nonno mi aspettava senza dire una parola
Perché io e la bicicletta siamo una cosa sola
E mi rialzo sui pedali ricomincio la fatica
Poi abbraccio i miei gregari passo in cima alla salita
Perché quelli come noi hanno voglia di sognare
E io dal passo del Pordoi chiudo gli occhi e vedo il mare
E vedo te...e aspetto te...
Stadio, E mi alzo sui pedali

Pantani lungo la salita al Col du Galibier nel Tour de France del 1998 (fonte: campi sportivi.com)

San Valentino, per gli appassionati di ciclismo, da tredici anni a questa parte, non può essere semplicemente il giorno degli innamorati. Non quando viene in mente che in questo giorno se ne è andato il più grande eroe del ciclismo moderno.

lunedì 26 dicembre 2016

Bücher: L'ombra del Cannibale

"Quei due ragazzi non l'avevano riconosciuto e tanta altra gente non si voltava quando l'incontrava. Era un uomo come tutti gli altri. Però, a differenza degli altri, aveva così tante storie da raccontare che tre vite non sarebbero bastate. Era un uomo fortunato. Aveva avuto l'opportunità di dimostrare il suo talento senza che nulla ostacolasse il disegno. Altri erano stati fermati da infortuni o da sfortunate casualità della vita. Ogni secondo della sua esistenza era stato scandito con armonia e con la precisione degna del miglior cronometro da competizione. Pareva che Dio avesse posato il dito su Menseel-Kiezegem quando lui era nato e che poi l'avesse seguito in ogni suo spostamento. Non sapeva perché proprio lui fosse Eddy Merckx."
Marco Ballestracci, L'ombra del Cannibale


Ballestracci e un altro capolavoro: L'ombra del Cannibale, libro incentrato sulla figura del più forte ciclista di tutti i tempi, Eddy Merckx. Si, un capolavoro. Un romanzo composto di tanti racconti che raccontano una carriera ineguagliabile e delineano la personalità del campione belga.
Perché Cannibale? Perché la voglia di vincere di Merckx era senza paragoni: ai suoi avversari, solo le briciole (e il nostro Gimondi lo sa bene). Dunque cosa è l'ombra del Cannibale? Era il lato più nascosto della sua etica ciclistica: non si trattava di vincere per il gusto di vincere o per detronizzare l'avversario, ma perché è giusto che sia il più forte a vincere, perché è la cosa più sensata e corretta. Se sei il più forte non puoi buttare i sacrifici, fisici e non solo, di una vita, bisogna puntare al massimo. E il più forte era indubbiamente Eddy Merckx. Era il numero uno, sapeva di esserlo, ma con grande serenità accettava la sconfitta, purché questa fosse giusta e conquistata con onore.
L'ombra del Cannibale sono le centinaia di storie che Merckx ha direttamente o indirettamente influenzato, alcune di queste raccontate da Ballestracci con toni che sconfinano nell'epica. Come il dramma di Jean-Pierre Monseré, l'astro nascente del ciclismo belga morto investito da un auto durante una corsa minore. Come le beffe subite da Franco Bitossi al Mondiale di Gap del 1972 e il secondo posto di Baronchelli al Giro del 1974 per soli diciotto secondi dopo il prodigioso recupero di Merckx. Come la vendetta su Cyrille Guimard a Bordeaux, come il dramma di Luis Ocaña sulla discesa del Col de Menté - forse il punto più bello di tutto il romanzo. In L'ombra del Cannibale la figura di Merckx e la psicologia che stava dietro il campione vengono magistralmente illustrate tramite alcune tappe chiave della sua carriera: i primi allenamenti in sella facendo il fattorino, le prime corse vinte da ragazzino, dal primo Mondiale fino alla debacle che ne segnerà il declino, nella tappa di Pra Loup nel Tour 1975.
L'ombra del Cannibale è anche un libro perfetto per tramandare momenti di storia di ciclismo che non c'è più. La morte di Tom Simpson sul Mont Ventoux o l'assalto a Bartali e Robic sul Col d'Aspin sono vicende drammatiche che appartengono ad uno sport che, oggi, non esiste più. Nel romantico e malinconico finale, durante il quale ho dovuto trattenere la lacrimuccia, Ballestracci opera una riflessione sul ciclismo del Duemila, immaginando un Merckx ormai avviato verso i sessant'anni, che ripercorre le strade sulle quali ha bruciato energie e sparso sudore e vede un mondo che non è più il suo. Nel ciclismo iperprogrammato di oggi, di figure come Eddy Merckx, senza la paura di vincere, ci sarebbe bisogno come il pane.
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 10/10 

martedì 6 dicembre 2016

Il fanciullo del Bondone

"La sua voce è un respiro sottile sottile: «Freddo, freddo». Massaggi al cuore, una tazza di brodo ingollata a cucchiaini. Via la maglia fradicia di dosso. Una tuta calda, il ragazzo scompare sotto le coperte, scosso da un tremito convulso che non vuole calmarsi. Il viso da scugnizzo piano piano riprende colore, Gaul, che di solito parla in francese, si esprime in italiano: «Chi è primo in classifica generale?». «Un certo signor Gaul». «Impossibile!». Pare un fanciullo, un bimbo, un pallido sorriso gli fiorisce sulle labbra esangui."
di Gigi Boccacini, La Stampa, 9 giugno 1956

Il campione lussemburghese Charly Gaul (8 dicembre 1932 - 6 dicembre 2005) soccorso dopo l'epica vittoria sul Monte Bondone nel Giro d'Italia del 1956 (fonte: pinterest.com)

Dici neve e dici ciclismo. Di pagine da leggenda ce ne sono state tante, ma come la vittoria di Charly Gaul sul Monte Bondone, probabilmente non ne verranno più scritte. Non solo Coppi e Bartali, non solo Gimondi e Pantani, non solo Merckx e Hinault. Nell'Olimpo dei più grandi di sempre c'è anche questo ragazzotto gracile, tremendo quando la strada si arrampica sulla montagna, scalatore formidabile.

domenica 2 ottobre 2016

Bücher: Da me in poi

"Sono grato al ciclismo, per tutte le opportunità che mi ha dato, per le soddisfazioni enormi che mi ha regalato, insieme alla stima di tanta gente, al benessere e a molto altro. Dicono che il nostro sport sia bestiale, forse è anche vero, soprattutto cinquant'anni fa, con le strade bianche e le bici molto meno tecnologiche di oggi. Ma io ho sempre pensato che andare in miniera fosse molto, molto peggio. Non ho mai dimenticato i sacrifici di mio padre, gli anni di lontananza, molto più duri e difficili da sopportare delle mie lunghe assenze da casa per le corse. È così tanto quello che ho ricevuto che non farò in tempo a restituire altrettanto. Cerco di farlo rendendomi disponibile più che posso. Mi piace ascoltare le persone, essere gentile e affabile, almeno quanto brusco e scostante ero negli anni da atleta. In cambio mi ritorna l'affetto e la considerazione di tutti. E questo mi fa vivere meglio."
Felice Gimondi, Da me in poi


Dopo quattro mesi dall'incontro con Felice Gimondi, in quel di Pinerolo in occasione dell'arrivo del Giro d'Italia, riesco finalmente a leggere la sua biografia, Da me in poi. Una biografia decisamente atipica quella del vincitore di tre Giri d'Italia, un Tour de France, una Vuelta a España e di un Campionato del Mondo: non è un racconto cronologico in prima persona di ciò che il campione italiano ha combinato sulle strade di tutto il mondo a cavallo tra gli Anni '60 e gli Anni '70, no. Non è solo questo. Nella sua biografia, Gimondi si trasforma in una lente nella quale analizza il ciclismo degli ultimi cinquant'anni. Gimondi racconta la sua epoca, dominata dall'eterno duello tra lui e il "Cannibale", il belga Eddy Merckx. Un'epoca costellata di grandissimi atleti che correvano tutto l'anno e non puntavano ad uno-due obiettivi all'anno, gli ultimi anni della fase più romantica del ciclismo "romantico". Per passare poi a dare uno sguardo al ciclismo più moderno, commentandolo con grande onestà e trasparenza.
Nel raccontare il ciclismo che è stato e che è attualmente, si delinea chiaramente il carattere di Gimondi: persona semplice, burbera e leale, senza sfumature, di posizioni nette. Come il rifiuto di certa tecnologia (radioline), l'ammissione di "inferiorità" atletica con Eddy Merckx, il rifiuto della programmazione esasperata della stagione, il suo giudizio sulla vicenda umana di Marco Pantani (sulla quale Gimondi ha voce in capitolo, essendo stato il presidente della squadra in cui militava Pantani nel 2000). Affilato, ma senza arroganza. Da me in poi non è solo il romanzo della vita di un grande ciclista quale Gimondi è stato, ma il racconto di un uomo, con tutti i suoi pregi e difetti. E, nonostante la sua età (Gimondi è un classe 1942), Gimondi ha sempre un occhio puntato al futuro. Futuro che per lui è nella multidisciplinarità - non solo ciclismo su strada, ma anche pista e mountain-bike - un punto di vista molto interessante per chi si vuole affacciare a questo sport.
Da me in poi è sicuramente un bel manuale non solo per chi ama il ciclismo e la sua storia ma anche per chi vuole intraprendere un percorso sportivo. Se si vuole fare sport con profitto, da amatore o da professionista, c'è una sola via, fatta di duro allenamento, passione, fatica e sacrificio, la stessa percorsa con successo da Felice Gimondi.
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 9/10 

martedì 28 giugno 2016

Lezione di vita

Ciao a tutti!
Nei giorni che ho trascorso in Italia a maggio, prima di sposarmi, conservo tanti bei ricordi. Il giorno del Giro d'Italia, in una Pinerolo tutta vestita di rosa, per esempio, è stato qualcosa di assolutamente incredibile. I bei tempi al seguito del Giro d'Italia, del Tour de France e delle grandi classiche, in compagnia della combriccola di amici più fidati, sono ormai passati e chissà quando ritorneranno con regolarità. Mi accontento però di questo, e delle emozioni che da esso scaturiscono.

Un Gimondi intento ad autografare libri...

DI questo giorno, ricordo con piacere l'incontro con Felice Gimondi. Non gli ho parlato, eh - magari, ma con tutta la gente che c'era... - ma l'ho sentito. Le sue parole di grande vecchio del ciclismo sono musica per le mie orecchie. A Pinerolo presenta il suo libro, Da me in poi, in cui racconta la sua carriera in sella ad una bicicletta, la sua rivalità con Eddy Merckx e riscrive, secondo la sua visione, la storia del ciclismo moderno. Le sue parole aiutano a comprendere un mondo, fuori e dentro la ristretta cerchia del ciclismo - completamente diverso da quello di oggi. Un esempio è l'aneddoto legato ai suoi primi anni di corsa: prima di passare professionista faceva il postino, professione che gli consentiva di restare in allenamento. Quando fu chiamato ad affrontare il suo primo Tour, quello che poi vinse, nel 1965, «mio padre mi diede il permesso e così iniziò l’avventura; mi dissi: provaci e, se va bene, al ritorno dai le dimissioni da postino e fai solo il corridore».

...e a raccontare il ciclismo

Ma la grande lezione di Felice Gimondi, quella l'ho vista mentre firmava gli autografi. Ad un certo punto si avvicina un ragazzetto (dieci-dodici anni), che gli chiede un autografo sul suo libro. Indossa una maglietta di una squadra dilettantistica; Gimondi la nota e gli chiede: «Fai le corse?». Il ragazzino annuisce. Gimondi continua, con tono severo ma amorevole: «Guarda che per fare il corridore servono due cose: parlare poco e menare duro». Una lezione di vita in diretta, griffata Felice Gimondi, campione del mondo.
Bis bald!
Stefano

domenica 26 giugno 2016

Venti per cento

Il Giro d'Italia a Pinerolo: non di certo una novità. Con questa città, le due ruote hanno un rapporto più che speciale, che va dalla più grande affermazione in solitaria che il ciclismo ricordi, ossia l'impresa di Fausto Coppi nel 1949 fino all'arrivo di tappa del Tour de France nel 2011. A Pinerolo il Giro non lascia mai tracce banali, perché da buona porta verso le montagne, si presta a finali di tappa altamente spettacolari.

La (allora) maglia rosa Steven Kruijswijk a guidare il suo gruppo all'inizio del muro verso San Maurizio

La prima ed unica volta in cui mi sono trovato a Pinerolo per una corsa ciclistica era in occasione dell'arrivo di tappa del Giro d'Italia, nel 2009. In quella frazione, l'arrivo era preceduto dall'ascesa a Pramartino (versante val Chisone) e a San Maurizio (arrivando dalla Val Lemina), e vinse Danilo Di Luca. 2016: le salite sono le stesse, ma Pramartino si attacca dalla Val Lemina e a San Maurizio ci si arriva dal centro, iniziando l'ascesa da Via Principi d'Acaja. Quella rampa la conosco benissimo, e immagino che da affrontarla in bici, soprattutto dopo oltre due settimane di corsa e oltre duecento chilometri nelle gambe, sia micidiale. Più che una salita, è un muro, come quelli delle Fiandre. Le pendenze, quando la strada si restringe, vanno a toccare il 20%. Nell'unico giorno a mia disposizione per venire a vedere il Giro d'Italia, so bene che Via Principi d'Acaja è la miglior posizione per ammirare lo spettacolo della corsa rosa.

L'arrivo del Giro 2016 a Pinerolo

È il 26 maggio 2016 e il Giro d'Italia affronta la giornata più lunga, quella dei 240 chilometri della tappa Muggiò-Pinerolo. Io... nel giro di due giorni mi sposo, ma chissenefrega, il Giro passa ad una manciata di chilometri da casa e per ovvi motivi sono in Italia. Non voglio rinunciare. Mi fiondo a Pinerolo con lauto anticipo, per godermi una città tutta rosa - si, tutta rosa! (vedi post) - per tornare a gioire dell'ebbrezza di una corsa ciclistica e di tutto ciò ad essa collegata: maglie rosa ovunque, tifosi scatenati, facce festanti, una bella mostra sul legame tra Pinerolo e il ciclismo...

Tutti pazzi per il giapponese

E il grande attendere dei ciclisti, delle smorfie di fatica sui volti dei corridori, della gente assiepata ovunque, degli incitamenti a squarciagola del pubblico, i bambini che seguono attoniti pedalate legnose, la grande massa di schiene che si inarcano con sofferenza su una salita, una salita in cui ogni 100 metri si sale di venti in altitudine. Questo è lo spettacolo del ciclismo, questa è la magia del Giro d'Italia!

Un tifoso improbabile

Il gruppo all'attacco della salita...

...e un po' più dietro, Vincenzo Nibali

Quella schiena che si inarca

La fuga beffata

Le facce della fatica

Una marea di caschetti

Bis bald!
Stefano

domenica 29 maggio 2016

Viva Nibali, viva il Giro!

"Quando diventi campione non puoi più nasconderti. Devi accogliere i favori dei pronostici e vincere un Giro “scontato”, devi correre sotto pressione e sotto i riflettori, devi incassare le critiche se non vai. Quando le attese di una nazione s'avvolgono alle tue gambe, queste si faranno lente e ogni attacco ti sembrerà fatale. Vedrai Dumoulin staccarti in maglia rosa sulle prime salite, vedrai Chaves spingerti nel baratro delle Dolomiti, vedrai Kruijswijk seminarti contro il tempo. E il cielo d'Italia sopra le guglie di roccia si coprirà d'azzurro tenebra.
Concedeteci il merito di non aver sprecato dell'inchiostro per l'epitaffio di Vincenzo Nibali. Nemmeno quando il suo Giro era rimasto appeso a un filo, sull'orlo del ritiro e al netto di un esame clinico. Si cercavano delle cause e molti hanno annaspato nella fretta: dalle pedivelle troppo lunghe per uno scalatore, a un Tour dell'Oman corso (e vinto) solo per impegni promozionali. Vincenzo è in scadenza di contratto, Vincenzo è distratto dal Bahrein, Vincenzo pensa già alle Olimpiadi. Vincenzo è vecchio. Vincenzo non è più quello del Tour.
Vincenzo non ha la forza degli antichi fasti ma sulle Alpi cercherà d'”inventarsi qualcosa”. Sul Colle dell'Agnello però, un altro gancio quando Chaves cambia ritmo in piedi sui pedali.Vincenzo sta crollando... No, Vincenzo sta ribaltando il Giro d'Italia. Primo, perché Vincenzo ha un angelo custode chiamato Michele Scarponi, il signor Cima Coppi, pretoriano della guardia Astana. Secondo, perché Vincenzo ha un cuore grande così.
Nibali fiuta l'aria del Tour de France e stravolge la Corsa Rosa dal suo epicentro transalpino. L'impresa di Risoul è fatta della materia dei sogni, ma sembra il colpo di coda del campione ferito, di un fuoriclasse che, scopertosi umano, ha raschiato il fondo per un trionfo d'autore. Eppure le Alpi sono il Valhalla degli eroi, Sant'Anna di Vinadio è il traguardo della stroria, il Colle della Lombarda è il terreno dell'epica. Consacrato en plein air nel Santuario dei monti marittimi, Nibali è tornato re del Giro con un salto triplo dalle Cime di Lavaredo. Dal senso di Vincenzo per la neve, alla rotta del normale per farsi leggenda. Viva Nibali, lunga vita alla maglia rosa."
Fabio Disingrini, Eurosport, 28 maggio 2016

Uno squalo in rosa (fonte: lapresse.it)

Oh, io mi sono sposato questo weekend, ma sono riuscito per qualche minuto ad assistere ad una delle più grandi resurrezioni sportive degli ultimi anni.
Venerdì stavo preparando la macchina per il grande giorno quando mio papà accorre a chiamarmi: "vieni su a vedere, c'è Nibali primo". Sinceramente, chi dava ancora alcune chances di vittoria al corridore siciliano? Sabato ero nel bel mezzo della cerimonia quando spunta tra gli invitati il tablet di Elisa ed uno streaming della diretta del Giro: la tentazione è troppo forte per non buttare l'occhio su ciò che stava succedendo a Sant'Anna di Vinadio. Sinceramente, chi non sperava a quel punto che vincere il Giro poteva essere impresa possibile?
Il miracolo a cui tutti non riuscivano a credere è riuscito. Il talento non si discute, se riesci in qualcosa riuscito solo a gente come Anquetil, Gimondi, Merckx, Hinault e Contador, ossia vincere tutte le grandi corse a tappe. Ma la gamba può non essere quella dei giorni migliori, e quella di Nibali non lo è stata di certo per molto tempo. Se all'Alpe di Siusi prendi due minuti da un semisconosciuto olandese e sul Fai della Paganella ne paghi quasi altrettanti, vuol proprio dire che qualcosa non gira. Chi non lo penserebbe. Poi c'è il colpo di scena. Le ruote della maglia rosa sulla neve, e tutto che si riapre. L'orgoglio e il coraggio a Risoul, l'entusiasmo e la forza sulle rampe del Colle della Lombarda. Quelle ultime centinaia di metri me le ricordo eccome. Nibali è un ossesso sui pedali, lo spinge la visione della maglia rosa, lo spingono migliaia di tifosi a casa, sulla Lombarda e a Sant'Anna di Vinadio, anche quelli occupati da una festa di matrimonio (la mia).

La chiave di volta, il trionfo a Risoul (fonte: superscommesse.com)

E così questa giornata già indimenticabile di suo, diventa ancora più speciale. Racconterò ai miei figli, "mi sono sposato un caldo sabato di maggio, un giorno in cui vidi un miracolo nelle forme di un'araba fenice colorata l'azzurro e di tricolore che desiderava ardentemente vestirsi di rosa".
Bis bald!
Stefano

mercoledì 27 aprile 2016

Bücher: Campionissimi

"Arrivati all'ultimo chilometro, al triangolo rosso che annuncia la fine della corsa, ci accorgiamo di quanta sofferenza ci sia nella vita dei corridori. E di quanti, tra loro, abbiano lo sguardo triste. Non è solo la durezza delle salite o delle pietre sotto le ruote, a volte è una specie di maledizione, o di malasorte [...] Perché il ciclismo è magnifico e spietato, gonfio di sogni e improvvisi risvegli. Mostra la bellezza del dolore su una bicicletta dove tutti, da bambini, siamo stati felici."
Maurizio Crosetti, Campionissimi


Ciao a tutti!
Pochi altri sport come il ciclismo sono in grado di fornire storie. Tutte diverse, l'una dall'altra. Se il calcio non può limitarsi alla semplice e pura esaltazione del singolo in quanto sport di squadra, il ciclismo può andare molto più in profondità, scavando nei sentimenti umani di questi atleti, da soli in sella ad una bicicletta, con la loro fatica e il loro dolore. I quali, talvolta, vanno a legarsi con qualcosa di ancora più grande, il sentimento popolare. E allora queste storie diventano leggenda.
Le storie che Maurizio Crosetti racconta in Campionissimi sono sicuramente leggenda. Perché leggende sono le imprese dei trenta ciclisti che Crosetti ha voluto inserire in questo volume, che ripercorre la grande storia del ciclismo dagli albori delle prime pionieristiche stagioni del ciclismo di Binda e Girardengo fino alle storie più recenti di fuoriclasse come Indurain e Pantani. Passando naturalmente per l'epopea di Coppi e Bartali e gli anni di Merckx e Gimondi. Campionissimi racconta le gesta dei più grandi, romanzi scritti nei tormenti delle più dure salite del Giro d'Italia o nel brevissimo istante della volata, sulle dure pietre delle classiche del Nord o nelle strategie tattiche di una corsa crudele come il Mondiale. Storie che di grande intensità, che raccontano il ciclismo in tutta la sua "ferocia".
Perché nelle ore trascorse davanti alla televisione nell'attesa che la corsa emetta il proprio responso, ma anche dal vivo, nella lunga attesa e poi nel veloce passaggio dei corridori, c'è qualcosa che sempre sfugge. Dietro la maschera di fatica del corridore, c'è un'anima, un carattere, c'è una guerra interiore che da fuori non si può comprendere pienamente. La tristezza di Ocaña, le frustrazioni di Gimondi, l'astuzia di Magni, la rabbia di Bettini, tanto per citare alcuni esempi tra i più personalmente apprezzati. Questo libro va oltre l'atleta e il grande gesto sportivo, semplicemente condensa in poco più di duecento pagine cento anni di battaglie per il primo posto al traguardo con le battaglie personali dei ciclisti, uomini prima di tutto.
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 9/10 

mercoledì 13 gennaio 2016

Un uomo sempre in salita

"Pantani fa una strada tutta sua, in salita. Eppure è lì, ci sta dietro, non li molla, agile, diritto come una freccia, proprio come quando scatta sulle sue montagne e senti fare crack: la forza di gravità si spezza in due: una è per Pantani e lo fa volare su, l'altra è quella nostra, normale che ci trascina in basso. A un certo punto, questa forza lo chiama e lui risponde; nessun movimento, nessun gesto superfluo, impeccabile e implacabile. Un taglio secco, che non ammette repliche, correzioni, pentimenti. Quando Pantani sente che la salita è salita e che la sua gravità comincia a funzionare, taglia via quell'invisibile, resistentissimo filo che lega i corridori tra loro, stringe occhi e denti, orecchie ritte alla voce che gli ha imposto questo tremendo-stupendo mestiere, ed è aut-aut."
Massimo Cacciari

Il viso sereno di Marco Pantani con la maglia gialla sulle spalle... (fonte: biciexpresscatania.it)

Quanto manca un corridore così al ciclismo, allo sport, all'Italia. Ogni anno è un'assenza sempre più pesante e apparentemente incolmabile...

sabato 26 dicembre 2015

Bücher: Imerio

"Mentre attendeva che il ventre generoso della certosa partorisce le testimonianze fotografiche di quel giorno, 8 giugno 1960, Alessio prese a recuperare informazioni su ciò che era accaduto sulla strada che unisce Trento a Bormio: duecentoventinove chilometri appuntiti dal Campo Carlo Magno al Passo del Tonale, culminanti poi su quello che alcuni cronisti avevano rinominato, già prima della corsa, con l'epiteto di «Monte Maledetto»: il Passo di Gavia. La cronaca raccontava dell'epica sfida tra Gastone Nencini e Jacques Anquetil, con il corridore italiano gettato lungo la spaventosa discesa del Gavia per tentare di recuperare i tre minuti e due secondi di distacco che lo separavano dal francese maglia rosa, conquistati nella cronometro Seregno-Lecco che Jacquot aveva imperiosamente vinto. Nencini rischiò la vita, oltrepassò i limiti dell'equilibrismo, ma perse il Giro per ventotto secondi. La sua impresa lungo la discesa dal monte, però, lo equiparò per valore al vincitore e appena un mese dopo la sua carriera venne coronata dalla vittoria al Tour de France. Jacques Anquetil e Gastone Nencini erano eroi splendidi, riverberanti di gloria, ma quell'8 giugno 1960, lungo la strada che saliva e scendeva dal Passo di Gavia, altri personaggi si erano forgiati. Uno tra loro aveva la cristallina fisionomia dell'eroe tragico, e in quel giorno indimenticabile aveva indossato i panni di Ettore. Era un ragazzo veneto di ventitré anni: secco e, a guardarlo bene, un po' zoppo. Un ragazzo ardente nel nome: Imerio."
Marco Ballestracci, Imerio


Tutto il senso del libro di cui mi accingo a parlare sta nel suo sottotitolo: “romanzo di dannate fatiche”. Non bisogna però cadere nell'errore di credere che Imerio, di Marco Ballestracci, sia soltanto un libro su una storia di ciclismo; e nemmeno una biografia sul ciclista che ha ispirato il romanzo, Imerio Massignan. Imerio è un viaggio dentro un pezzo di storia dell'Italia, e più in particolare del Veneto, la regione da cui proviene l'autore.
Imerio Massignan non fu un ciclista di quelli che riempivano gli albi d'oro. Nonostante le sue enormi doti da scalatore, non vinse molto, a causa di un pessimo rapporto con la fortuna e a causa delle circostanze "politiche" avverse. Eppure la storia di questo corridore veneto, uno dei più forti all'interno del movimento ciclistico italiano a cavallo tra gli anni '50 e gli anni '60, è quasi un pretesto per raccontare il fenomeno dell'emigrazione. In Imerio, la fatica di Massignan sui pedali viaggia parallelamente a quella dei suoi compaesani che lasciavano la propria terra per andare a lavorare in Francia o in Svizzera, da braccianti, o da manovali. Perché il lavoro, nel Veneto del secondo dopoguerra, era una specie di chimera. E allora bisognava partire. Ballestracci racconta bene questo periodo storico (glielo chiederò, se è figlio di emigranti) e descrive ancora meglio i sentimenti degli emigrati – anch'io, che ho lasciato l'Italia, sebbene in ben altra situazione, mi ritrovo spesso nelle sue parole. Lo fa con estrema genuinità, utilizzando in parte il dialetto veneto.
Ciò che più mi ha profondamente colpito di Imerio, è il racconto dell'orgoglio dell'italiano all'estero. Commoventi, quelle emozioni. Sono le emozioni degli operai italiani che supplicano il loro superiore francese per ottenere un giorno di permesso, con l'unico scopo di poter raggiungere le strade del Tour, con la speranza che in quel giorno di fuga da una realtà fatta di sudore e sacrificio, fosse un italiano (o magari un veneto, talvolta un compaesano!) ad alzare le braccia al cielo. E che, nonostante i disastri della guerra, nonostante la povertà, fosse più forte l'orgoglio nell'essere italiani.
A presto!
Stefano

Giudizio: 10/10 

sabato 24 ottobre 2015

Bücher: Il grande Airone

"In un pomeriggio di quasi primavera, un bambino sta giocando su un prato di Villa Borghese a Roma, sorvegliato dall'occhio vigile dei genitori. Il bambino lascia i suoi giochi perché ha sentito dire che oggi, 19 marzo, si corre la Milano-Sanremo. «Babbo», chiede il bambino, «chi ha vinto la Milano-Sanremo?» Come fa un pover'uomo alla fine degli anni Quaranta, che se ne sta a Villa Borghese a godersi il primo sole di primavera, a sapere chi ha vinto la Milano-Sanremo? Cerca di spiegare la difficoltà a suo figlio, che però non vuole sentire ragioni, ma poi finisce per trovarsi di fronte a un'alternativa: una sonora sculacciata o tirare ad indovinare. Siccome il babbo è un sostenitore ante litteram dell'educazione basata sulla persuasione, sceglie la seconda soluzione. «Coppi, ha vinto Coppi, va bene?» Il bambino torna ai suoi giochi poco persuaso. Ma la sera alla radio sente la notizia: Fausto Coppi ha vinto la Milano-Sanremo. «Come lo sapevi?», chiede il bambino. «Era facile», risponde il babbo, «vince sempre lui...» Da quel giorno il bambino tiene per Coppi, anche se in famiglia sono toscani e quindi bartaliani."
Giancarlo Governi, Il grande Airone


Chi ama il ciclismo non può fare a meno di questo libro, uno dei più completi su colui che è unanimemente riconosciuto come il più grande campione delle due ruote di tutti i tempi. Parlo del Campionissimo, Fausto Coppi. Un grande dello sport italiano in senso assoluto, un mostro in sella ad una bicicletta. Quello che non tutti sanno è la sua importanza nel contesto storico del dopoguerra italiano. Il grande Airone, libro del giornalista ed autore televisivo Giancarlo Governi, mette in luce proprio questo aspetto meno conosciuto agli appassionati. Il grande Airone fu pubblicato per la prima volta nel 1995 e ripubblicato nel 2010 con sostanziali aggiornamenti, che includono le testimonianze di un "certo" Gino Bartali, altro mito delle due ruote.
Proprio con Bartali, Coppi condivise il destino del ciclismo italiano negli anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta. La loro fu una semplice rivalità sportiva, se ci si limita a considerare il loro rapporto interpersonale. L'opinione pubblica trasformò la rivalità in un dualismo fra due diverse visioni del mondo - e soprattutto due contrapposte appartenenze politiche: il piemontese Coppi a fianco del Partito Comunista e il toscano Bartali con la Democrazia Cristiana (nonostante entrambi non furono mai iscritti a questi partiti politici). Negli ultimi anni Cinquanta, quando l'Intramontabile Bartali decise di abbandonare le corse, i due si avvicinarono notevolmente sul piano umano, diventando due amici fraterni, accomunati dalle grandi vittorie ma da anche simili tragedie (entrambi persero i fratelli più giovani durante competizioni ciclistiche). I racconti sull'amicizia tra i due grandi fuoriclasse che divisero l'Italia pre-miracolo economico sono una delle parti più riuscite - e commoventi - del libro.
In secondo luogo – ma non meno importante, anzi forse ancora più significativo a livello storico – il libro di Governi mette in luce tutto il bigottismo imperante in quel periodo in Italia. La vita privata di Coppi, le sue vicende extraconiugali con la "Dama Bianca", furono oggetto di discussione in tutta Italia, addirittura a livello politico. A riguardo ne sapevo qualcosa, raccontato dai miei genitori e sentito in televisione a contorno dei racconti delle imprese coppiane. La gogna mediatica che dovette subire Coppi non mi stupì, ma non potevo immaginare che "solo" poco più di mezzo secolo fa, una donna potesse venire rinchiusa in prigione come una delinquente comune per la sola colpa di amare un altro uomo. Un episodio che fa riflettere sull'arretratezza del pensiero comune in Italia.
E poi c'è la storia della sua infanzia, trascorsa nella campagna alessandrina, gli inizi su una bicicletta con cui lavorava da fattorino, le prime corse, la vittoria all'esordio, nel suo primo Giro d'Italia. Il record dell'ora e la campagna d'Africa durante la Seconda Guerra Mondiale. Le grandi vittorie, le doppiette Giro-Tour e il Campionato del Mondo. Se proprio devo trovare una pecca in questo libro è il mancato riferimento ad una delle imprese più belle, la vittoria della Cuneo-Pinerolo nel Giro del 1949, simbolo della sua eterna grandezza. Ma ripeto, ne Il grande Airone è concentrata tutta la dimensione sportiva e soprattutto umana di Coppi. Sono pagine di sport e di vita che emozionano ancora, anche a distanza di decenni.
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 9/10 

lunedì 14 settembre 2015

L'Italia che vince a settembre - Parte 2

La sbornia di esultanze dovuta ai successi delle racchette rosa a Flushing Meadows (vedi post) ha forse fatto passare in secondo piano quella che è stata un'altra grandissima impresa. Si cambia continente, si torna in Europa; e si cambia sport, passando al ciclismo. Ieri a Madrid è andato in scena l'ultimo atto dell'edizione 2015 della Vuelta a España ed è stato il grande giorno di Fabio Aru. Il giovane ciclista sardo è riuscito nell'impresa di vincere la sua prima grande corsa a tappe, avendo la meglio su un'agguerrita concorrenza: il fresco vincitore del Tour Chris Froome, il vincitore del Giro 2014 Nairo Quintana e l'indomito scalatore catalano Purito Rodriguez. Aru succede quindi sul trono della Vuelta, per quanto riguarda i ciclisti nostrani, ad Angelo Conterno, Felice Gimondi, Giovanni Battaglin, Marco Giovannetti e Vincenzo Nibali.

All'arrivo di Cercedilla, conscio della propria vittoria (fonte: roadbikeaction.com)

Il talento di Aru era fuori discussione, e l'ha dimostrato in più di una occasione durante le grandi corse a tappe, sia nelle ultime due partecipazioni al Giro d'Italia che alla Vuelta 2014. Aru ha ottenuto sull'asfalto spagnolo la consacrazione definitiva come grande protagonista del futuro e personaggio in grado di raccogliere le redini del ciclismo italiano nelle corse a tappe dopo le affermazioni (che tutti si augurano non siano ancora finite) di Nibali. La Vuelta è stata un'ottima dimostrazione di classe, perché la concorrenza, come già detto, era notevolissima: oltre ai tre citati precedentemente, ai nastri di partenza della Vuelta 2015 si sono presentati anche corridori del livello di Valverde, Nibali e Majka. Senza dimenticare l'olandese Tom Dumoulin, grande sorpresa di questa corsa: tenace in salita, dove ha saputo egregiamente limitare i danni, ha fatto valere la sua forza nelle prove contro il tempo, ed è stato infine l'osso più duro da superare per Aru.

A Madrid, con il simbolo del trionfo (© Javier Lizon/EPA)

Anche il percorso ha reso ancora più importante l'affermazione di Aru. Tanti gli arrivi in salita (nove!), alcuni di essi durissimi, come quelli a Cortals d'Encamp e a Cercedilla, dove Aru non ha trionfato ma ha fatto la differenza sui suoi rivali e costruito la conquista della roja. La prova a cronometro ha invece affermato che c'è molto da lavorare, ma si può sperare in un futuro molto radioso. Il ciclismo italiano ha fame di nuove vittorie, e sono tanti gli italiani che attendono nuovamente di sentire l'inno di Mameli sugli Champs Elysées.
Bis bald!
Stefano

giovedì 18 giugno 2015

Indiani nella nebbia: il Giro d'Italia sul Colle delle Finestre

Ciao a tutti!
Giro d'Italia, seconda parte. Dopo il venerdì valdostano, tocca al sabato piemontese con la Saint-Vincent-Sestriere. Nonostante la partenza ancora in Valle d'Aosta, l'ultima tappa in grado di scrivere le sorti del Giro d'Italia 2015 è totalmente concentrata in Piemonte. Questa è la tappa sicuramente da me più attesa, perché prevede lo scollinamento di una montagna dalla storia ciclistica recente ma che ha già saputo scrivere storie intense, fatte di attacchi all'arma bianca e crisi inaspettate. Parlo del Colle delle Finestre, salita che va toccare la quota di 2176 metri (Cima Coppi del Giro 2015) dopo aver superato in 18,5 chilometri di lunghezza un dislivello di quasi 1700 metri e l'impressionante cifra di quarantacinque tornanti (29 dei quali nei primi quattro chilometri). E soprattutto, con gli ultimi otto chilometri in sterrato, come agli albori del ciclismo, ai tempi dei tubolari appesi sulle spalle dei ciclisti.

Panorama dal Colle delle Finestre - lato Val di Susa

Il Colle delle Finestre è, al pari di altre salite relativamente recenti ma già entrate nella leggenda come il Monte Zoncolan o il Passo del Mortirolo, un vero e proprio stadio del ciclismo. Il Colle delle Finestre poi, è quello con la migliore visuale. Dall'alto si può seguire la corsa a partire da circa tre chilometri dallo scollinamento, talmente è ampia la visuale dalla cima. Lassù, in alto, ci sono gli "indiani" ad aspettare il passaggio dei ciclisti.

Foto ricordo in cima

Partiamo non troppo tardi da Usseaux, uno dei punti dai quali ci si può avvicinare al Colle delle Finestre (dal versante opposto rispetto a quello dei ciclisti) tramite navetta. Ma noi abbiamo le gambe e le usiamo, grazie al bel sentiero che porta verso Pian dell'Alpe e quindi al colle. Anche stavolta il ciclismo è una bella opportunità per fare del buon trekking. Arriviamo in cima che è quasi ora di pranzo. C'è già tantissima gente, così tanta che bisogna dimenarsi per poter fare una foto col cartello che indica "Colle delle Finestre 2176 m s.l.m.". Il bello è che ne viene su tantissima, a piedi o in bici, e tanta ne verrà ancora. Come faranno a stare tutti quanti lì? Si può, perché il Colle delle Finestre è un anfiteatro naturale che sembra progettato per ospitare una corsa ciclistica.

Zakarin (a sinistra) e Landa (a destra) in fuga a poche centinaia di metri dalla Cima Coppi 2015

Saliamo al vecchio forte, che versa in pessime condizioni, prima di sistemarci un pochino più lontani dal caos degli ultimi metri di salita. Scegliamo il penultimo tornante come posizione ideale per vedere la corsa: la visuale è lunga sugli spettacolari tornanti del Colle delle Finestre e in quel punto la strada è ancora ripida. Guardando dal basso verso l'alto osserviamo gli "indiani". Si, è questo ciò che possono vedere i corridori, un  esercito di tifosi in loro attesa, non con arco e frecce, ma con mani battenti e urla di incoraggiamento. Nell'attesa che la macchina del Giro si avvicini, sullo sterrato del Colle delle Finestre passa un po' di tutto, ma soprattutto è immensa la moltitudine di ciclisti amatoriali che, tra fatiche disumane, ce la mette tutta a salire fino a qui con la propria bici. Tra di loro, anche qualche ragazza, qualche bambino (!!!) e alcuni temerari che, da veri puristi del ciclismo pionieristico, risalgono il Colle delle Finestre con le stesse di bici di ottant'anni fa. Senza farsi mancare nulla, peraltro: salgono addirittura con le divise di vecchie squadre ciclistiche, appartenenti ad un passato glorioso.

Fine (o quasi) delle fatiche...

Intanto, dalla Val di Susa inizia a salire un nebbione che non ci fa ben sperare, ma almeno riduce il pericolo di pioggia. Iniziano a passare le prime ammiraglie dei team e qui ha inizio lo show dei tifosi, che si divertono a imbrattare le targhe delle auto al seguito dei ciclisti. Tutti quanti ridono, ma gli autisti decisamente meno. Anche perché guidare qui, su questi stretti tornanti in sterrato, è cosa assai ardua... l'odore di frizione si spande forte nei duemila metri del Colle delle Finestre. Poi, finalmente giunge la macchina di inizio corsa: che abbia inizio lo spettacolo!

Una maglia rosa in crisi nera

C'è una fuga in corso, ma sui tornanti del Colle delle Finestre rimane da solo Zakarin. Dietro vanno troppo forte, soprattutto Landa, che scatta, stacca tutti e scollina per primo e da solo sulla Cima Coppi del 2015. Ma dietro succede qualcosa di importante: Contador va in crisi e chiude il Colle delle Finestre a un minuto dal gruppetto di Aru, che si accorge della crisi dello spagnolo e va all'attacco. Si vede che non sta bene, pedala con meno veemenza e soprattutto beve e mangia molto: che sia andato in crisi di fame?

Lassù ci sono gli indiani...

I più forti sono passati ma noi si rimane ad aspettarli, tutti quanti. Meritano un applauso, questi ragazzi, che sono alle loro ultime fatiche, poi potranno dire di aver portato a termine la corsa rosa. Il popolo del Colle delle Finestre glielo tributa, senza distinzioni di nazionalità, nel pieno spirito di sportività del ciclismo. Poi a fatica riprendiamo la strada di casa: tra macchine della polizia, ciclisti e altri tifosi c'è da dimenarsi non poco per uscire da quel bailamme.

Ciclismo di altri tempi

E la tappa? Come è andata a finire? Scesi a Pourrières i ciclisti hanno dovuto affrontare l'ultima salita, quella che porta a Sestriere. Via radio veniamo a sapere che Landa e Zakarin sono stati ripresi. Con una delle sue rasoiate, Fabio Aru bissa il successo del giorno prima a Cervinia, staccando tutti e alzando le braccia al cielo in solitaria. Contador arriva a quasi due minuti e mezzo, ma non basta per sfilargli la maglia rosa. Contador vince il Giro, Aru diventa ufficialmente il predestinato per una vittoria futura.

Ah, il caro e vecchio giornale sotto la maglia!

E sempre parlando di futuro, si rincorrono le voci su un nuovo passaggio sul Colle delle Finestre nel 2017, addirittura da parte della corsa a tappe più famosa, il Tour de France. Si può stare tranquilli, quando sarà, io ci sarò!
Bis bald!
Stefano

mercoledì 17 giugno 2015

All'ombra della Gran Becca: il Giro d'Italia a Cervinia

Ciao a tutti!
Forse è tardi, oramai si parla già di Tour de France, ma ho ancora voglia di parlare di Giro d'Italia, manifestazione che seguo da anni, prima in televisione e dopo (dal 2007) anche dal vivo. Ci tengo a farlo perché questa edizione ha un significato particolare per me.
Ho chiesto qualche giorno di ferie proprio per scendere in Italia nei giorni in cui il Giro transitava nelle mie regioni, Piemonte e Valle d'Aosta, che hanno ospitato due tra le più avvincenti tappe della manifestazione. La tappa valdostana ha visto il suo arrivo ancora una volta a Breuil-Cervinia, dopo 236 chilometri in cui i corridori hanno dovuto anche salire a Saint-Barthélemy e al Col de Saint-Pantaléon. Questa è senza dubbio una tappa simbolo del Giro, anche per il significato speciale che le viene attribuito: è l'edizione del 2015, quella in cui si festeggiano i 150 anni della prima salita alla cima del Cervino.

Ultimi chilometri di fatica per arrivare ai piedi del Cervino

Questa tappa è anche un occasione per abbinare un po' di trekking (mai perdere le buone abitudini) allo spettacolo del Giro d'Italia. Si lascia perdere un improbabile parcheggio in Cervinia per risalire a piedi la Valtournenche tramite il sentiero che dall'omonimo comune sale ai piedi del Cervino, in compagnia di Alberto ed Adriano. Costeggiamo il torrente Marmore per un po', risaliamo il gradino prima della diga di Perrères e arriviamo dunque a vedere la montagna delle montagne, il Cervino. Da lì, non è che una passeggiata di piacere fino a Cervinia.

L'arrivo di fronte alla Gran Becca

Cervinia... addobbata come non mai ma come tante altre città quando vengono toccate dalla corsa rosa. Tutto è rosa, tutto parla del Giro d'Italia, tutte le vie sono monopolizzate dall'evento. L'aria di festa non è solo quella delle grandi occasioni, come l'arrivo di una tappa del Giro, che è una festa ovunque essa sia, ma anche perché sono vicini i festeggiamenti per il centocinquantesimo anniversario delle scalate di Whymper e Carrel. La piramide che simboleggia la montagna più ambita di ogni alpinista è un emblema presente ovunque, per le strade di Cervinia.
E la linea d'arrivo, posta nella centralissima Via Guido Rey, da dove è più che imponente la mole del Cervino, toglie il fiato. Chissà come si sentiranno i corridori, che di fiato in quel momento ne avranno già poco...

Giro è... una 500 rosa

Pranzo sotto il Cervino (a quest'ora ancora stranamente senza nuvole...), una piccola gita al Lago Blu, che è una tappa quasi irrinunciabile, e poi ci piazziamo a poco più di due chilometri dal traguardo. Ci troviamo alla fine dell'ultimo tratto ripido di salita, qui la pendenza sarà intorno al 6% e non è più massacrante come all'ingresso del capoluogo di Valtournenche, quando si tocca il 12%. Qui la salita sarà ormai finita. Se si arriva in un gruppetto, è quasi scontata la volata; se ci si arriva in testa da soli, è assai improbabile che si venga ripresi.
Qui, inoltre, non vi è il caos dei due ambitissimi tornanti prima della galleria di Perrères e nemmeno la confusione della zona transennata. Possiamo anche fare un piccolo riposino in attesa che la carovana del Giro ci svegli. Volendo, qui c'è anche lo spazio per correre fianco a fianco con i più forti. Io preferisco sostenerli con la voce e amo fotografarli, ma chi lo può dire, magari un giorno ci proverò, anche sfruttando i miei trascorsi podistici.

Il conquistatore di Cervinia, Fabio Aru

Quando la carovana pubblicitaria (che negli anni ha capito di doversi allineare sempre di più a quella del Tour de France) sta per arrivare a Cervinia, vuol dire che manca un'ora circa al passaggio dei corridori. Le prime voci iniziano a susseguirsi sullo svolgimento della tappa. Le speranze sono tutte per un corridore italiano e soprattutto per Fabio Aru, il giovane scalatore sardo che fa ben sperare per il futuro del ciclismo tricolore nelle corse a tappe. Tutti sperano in un suo attacco, ben sapendo che per strappare la maglia rosa di Alberto Contador ci va un'impresa.

Il gruppo della maglia rosa Contador

Ma l'impresa la fa ugualmente. Tra i tifosi attorno a noi serpeggiano alcune voci, poi tramite la mia radio, il cui collegamento è piuttosto scadente (ma si sa, in alta montagna è così), ottengo la conferma che Aru è scattato in faccia a tutti quanti e ha fatto il vuoto.
Quando passa è il delirio. È a tutta, fa una fatica incredibile e si vede, la sua espressione è ornata delle smorfie che l'hanno ormai reso celebre sulle strade del Giro d'Italia, ma la vuole portare a casa, questa tappa. E così farà. Ci prova Hesjedal, a starci dietro, ma Aru è superiore a tutti, sulla salita di Cervinia. Dopo poco più di un minuto passa il gruppetto di Contador. Ben altra immagine: espressione riposata e movenze eleganti sulla bicicletta. Sembra quasi non abbia pedalato.

Fotoricordo da Breuil-Cervinia

I più forti passano, noi iniziamo la discesa incrociando seconde linee e gregari. Che fatica sui volti di questi ragazzi. Più di duecento chilometri di strada e tre chilometri e mezzo di dislivello da compiere. Dopo aver già completato altre diciotto tappe. La stanchezza è ben evidente nelle facce e nelle espressioni dei corridori.
La loro fortuna - e come sostengo da quando iniziai a girare Italia e Francia per assistere dal vivo alle corse ciclistiche più belle, anche dell'intero movimento ciclistico - è tutta nell'enorme calore che i tifosi, indigeni o giunti da ogni parte del mondo, dimostrano lungo questi chilometri di asfalto. C'è un sostegno, una passione, che è difficile da raccontare, da trasmettere e da comprendere. Questa è l'anima del Giro. Sommata alle meraviglie di questo paese, la rende veramente... uno spettacolo nello spettacolo.
Bis bald!
Stefano

giovedì 4 giugno 2015

Bücher: Sangue sul Tour

"C'è un tempo per la morale e un tempo per il silenzio, un tempo per la verità e un tempo per l'ipocrisia, un tempo per la poesia e uno per gli scoop. Vedi corridori dalla faccia pulita che vincono tappe a raffica, e raccontano storie di pane, acqua e sacrifici, poi li beccano con le vene in pasta e le fiale sotto il cuscino, allora la cronaca da costume diventa nera, lo stesso giornalista da narratore epico si trasforma in giudice e carnefice impietoso."
Alessandro Dutto, Sangue sul Tour



Ciao a tutti!
Arrivo a casa per il weekend piemontese del Giro d'Italia e cosa trovo in bella vista sul letto che ha accompagnato i riposi di (quasi) una vita intera? Questo piccolo volume, Sangue sul Tour di Alessandro Dutto: un romanzo breve, lo definerei così. I miei genitori, che ben conoscono la mia grande passione per il ciclismo, hanno pensato di farmi questo regalo - forse in occasione della due giorni ciclistica a cui ho assistito direttamente sulle strade della corsa rosa, a Cervinia e sul Colle delle Finestre. Inutile aggiungere che, come spesso mi accade con i romanzi in cui lo sport è il contesto principale, me lo sia bevuto nello spazio di pochi giorni.
Se all'inizio avevo pensato che Sangue sul Tour fosse un'opera di cronaca legata a qualche vicenda della Grande Boucle, ho dovuto ricredermi in fretta. È evidente fin dall'inizio come la storia narrata sia frutto di fantasia: una tragedia come quella raccontata nel primo capitolo e sulla quale si concentrano le indagini non si è mai verificata in una corsa ciclistica. Il tratto interessante della vicenda è nel raccontare come il dramma possa essere conseguenza di una ambizione smisurata e della brama di vincere ad ogni costo. Per arrivare a questo obiettivo si calpestano regole, si scavalca l'etica. Nel ciclismo tutto questo si riassume in una sola parola: doping. La tragedia narrata in Sangue sul Tour è figlia del doping, un fenomeno che nel mondo sportivo è veramente un mostro dalle sette teste che pare impossibile da sconfiggere. La storia che Dutto racconta è inventata, certo, ma vuole rappresentare un monito al mondo dello sport. Si è "liberi" di doparsi, di riempirsi di chimica fino all'inverosimile, ma tutto può portare a conseguenze abnormi, impossibili da prevedere, la morte in ogni sua forma.
Per raccontare questo non c'è niente di meglio di utilizzare una scrittura scarna ed essenziale. Il libro è un dialogo costante tra le persone coinvolte nella vicenda, tramite serratissimi scambi di veduta. Un capitolo alla volta, gli inquirenti passano al setaccio le varie piste battute per smascherare l'assassino, dal terrorismo islamico a quello basco, fino alla vendetta privata. Per poi scoprire che la grande sconfitta parte dall'inarrestabile desiderio di vittoria. Ad ogni costo.
Bis bald!
Stefano

Giudizio: 8/10 ««««««««««

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