Ayrton Senna
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lunedì 1 maggio 2017
Grande spirito
"Se una persona non ha più sogni, non ha più alcuna ragione di vivere. Sognare è necessario, anche se nel sogno va intravista la realtà. Per me è uno dei principi della vita."
lunedì 19 settembre 2016
Trionfo dell'uomo curioso
Ciao a tutti!
Ieri si è conclusa a Rio de Janeiro l'edizione n.15 dei Giochi Paralimpici. Una bella edizione per i colori azzurri: gli atleti italiani hanno saputo regalare numerose soddisfazioni, dalla conferma di Assunta Legnante nell'atletica leggera alla rivelazione di Beatrice Vio nella scherma. Ma per ovvi motivi legati alla sua vicenda sportiva ed umana, a lasciare un segno indelebile è stato ancora una volta Alex Zanardi. Sempre di più leggenda: alla soglia dei cinquant'anni, un uomo ancora in grado di tornare da una Olimpiade per atleti con disabilità fisiche con tre medaglie nel ciclismo, due d'oro (cronometro categoria H5 e staffetta mista) e una d'argento (prova in linea categoria H5). Aggiungere qualcosa a questa impresa è difficile, gli elogi arrivano da tutto il mondo e grande è lo stupore quando si celebra questo genere di vittorie, sportive e morali.
La mia ammirazione è grande. Storie come la sua sono l'invito a non mollare mai, a non lasciare nulla di intentato. Zanardi è da molti anni una grande fonte di ispirazione per me, ogni sua parola è vangelo per le mie orecchie. Come una sua riflessione espressa durante un'intervista al David Letterman Show, che spiega cosa sta alla base dei suoi successi. E soprattutto, cosa dovrebbe stare alla base di ogni vita felice.
"Credo che la curiosità sia tutto ciò che ti serve nella vita. E se sei curioso abbastanza, trovi la tua passione. Una volta che l'hai trovata, voglio dire... tutto avverrà in modo molto naturale. Persino i risultati che ottieni, che siano piccoli o grandi, sono solo la conseguenza logica della passione che metti nella quotidianità, per crescere, prendendo ogni giorno come nuova opportunità per aggiungere qualcosa alla tua vita, giorno dopo giorno. E alla fine potresti ritrovarti a Londra a vincere una medaglia d'oro. Se qualcuno me lo avesse detto qualche anno fa gli avrei chiesto: «Cosa ti sei fumato?» «Io? I Giochi Olimpici? Sono un pilota di auto da corsa!»
Si, la vita è divertente. Voglio dire, non sapevo cosa avrei potuto fare l'11 ottobre del 2014 (l'ironman di Kona, ndr) già dal primo di gennaio del 2014 quindi, devi provarci ogni volta che è possibile senza lasciare che queste cose ti dominino. Però se hai l'opportunità, perché non provare? E con questo tipo di mentalità, credo di essere tornato a un fantastico tipo di vita dove tutte le cose che sto facendo in questi giorni sono più o meno in relazione alla mia nuova condizione."
Ieri si è conclusa a Rio de Janeiro l'edizione n.15 dei Giochi Paralimpici. Una bella edizione per i colori azzurri: gli atleti italiani hanno saputo regalare numerose soddisfazioni, dalla conferma di Assunta Legnante nell'atletica leggera alla rivelazione di Beatrice Vio nella scherma. Ma per ovvi motivi legati alla sua vicenda sportiva ed umana, a lasciare un segno indelebile è stato ancora una volta Alex Zanardi. Sempre di più leggenda: alla soglia dei cinquant'anni, un uomo ancora in grado di tornare da una Olimpiade per atleti con disabilità fisiche con tre medaglie nel ciclismo, due d'oro (cronometro categoria H5 e staffetta mista) e una d'argento (prova in linea categoria H5). Aggiungere qualcosa a questa impresa è difficile, gli elogi arrivano da tutto il mondo e grande è lo stupore quando si celebra questo genere di vittorie, sportive e morali.
La mia ammirazione è grande. Storie come la sua sono l'invito a non mollare mai, a non lasciare nulla di intentato. Zanardi è da molti anni una grande fonte di ispirazione per me, ogni sua parola è vangelo per le mie orecchie. Come una sua riflessione espressa durante un'intervista al David Letterman Show, che spiega cosa sta alla base dei suoi successi. E soprattutto, cosa dovrebbe stare alla base di ogni vita felice.
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Ancora medaglia d'oro, immenso! |
"Credo che la curiosità sia tutto ciò che ti serve nella vita. E se sei curioso abbastanza, trovi la tua passione. Una volta che l'hai trovata, voglio dire... tutto avverrà in modo molto naturale. Persino i risultati che ottieni, che siano piccoli o grandi, sono solo la conseguenza logica della passione che metti nella quotidianità, per crescere, prendendo ogni giorno come nuova opportunità per aggiungere qualcosa alla tua vita, giorno dopo giorno. E alla fine potresti ritrovarti a Londra a vincere una medaglia d'oro. Se qualcuno me lo avesse detto qualche anno fa gli avrei chiesto: «Cosa ti sei fumato?» «Io? I Giochi Olimpici? Sono un pilota di auto da corsa!»
Si, la vita è divertente. Voglio dire, non sapevo cosa avrei potuto fare l'11 ottobre del 2014 (l'ironman di Kona, ndr) già dal primo di gennaio del 2014 quindi, devi provarci ogni volta che è possibile senza lasciare che queste cose ti dominino. Però se hai l'opportunità, perché non provare? E con questo tipo di mentalità, credo di essere tornato a un fantastico tipo di vita dove tutte le cose che sto facendo in questi giorni sono più o meno in relazione alla mia nuova condizione."
Alex Zanardi, durante un'intervista al David Letterman Show
venerdì 16 settembre 2016
Insegnamenti olimpici: correre per un sogno
«Ho vissuto tutto come un sogno. Essere qui è un sogno che si avvera e lo dedico a tutti quelli che sudano e corrono per inseguire un sogno, ogni giorno con passione. Quella passione che ho io e che mi permette di correre nonostante il mio lavoro di medico.»
Ciao a tutti!
C'è un'altra immagine che mi è rimasta fortemente impressa dall'ultima edizione dei Giochi Olimpici. E non è un caso che a fornirmela sia la maratona, la gara simbolo dei Giochi, il massacro fisico per eccellenza. Quei secondi sul traguardo della maratona olimpica femminile mi sono rimasti impressi a lungo. Una donna che, al culmine della sofferenza che si può provare durante una corsa come la maratona, si mette a ballare sulla linea di arrivo. Senza voler irridere alcuno, solo esprimendo la propria gioia nella maniera che le è sembrata più spontanea.
Non di sole medaglie è fatta la gioia olimpica. A volte anche la "semplice" partecipazione può essere un traguardo enorme. Lo deve essere stato soprattutto per Catherine Bertone, che all'età di 44 anni si ritrova, non per caso ma con pieno merito, a far parte della rappresentativa italiana alla maratona femminile. Per lei che non è una professionista ma una persona normale con la passione per la corsa di resistenza, per lei che non fa parte di un gruppo sportivo, per lei che deve dividersi quotidianamente tra famiglia, lavoro e allenamenti, correre a Rio de Janeiro, correre alle Olimpiadi, significa vivere una favola.
Non ha vinto una medaglia, ha coronato un sogno inaspettato e quasi irrealizzabile per una runner dilettante. E questo è già sufficiente per spiegare tutta quella gioia. Rivedendo quell'immagine di felicità incontenibile ho rivissuto i miei arrivi al fondo dei 42,195 chilometri. Negli ultimi metri, quelli che separano occhi e gambe dall'arrivo, si rivedono tante cose, tutto il sudore e il sacrificio fatto per arrivare lì. Arrivare alla fine di una tale competizione, con tutto ciò che significa, è di una meraviglia inspiegabile, se poi è alle Olimpiadi...
Bis bald!
Stefano
Catherine Bertone, rappresentante della squadra olimpica italiana e 25°classificata alla maratona femminile di Rio 2016
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Un traguardo a ritmo di samba (fonte: running.gazzetta.it) |
Ciao a tutti!
C'è un'altra immagine che mi è rimasta fortemente impressa dall'ultima edizione dei Giochi Olimpici. E non è un caso che a fornirmela sia la maratona, la gara simbolo dei Giochi, il massacro fisico per eccellenza. Quei secondi sul traguardo della maratona olimpica femminile mi sono rimasti impressi a lungo. Una donna che, al culmine della sofferenza che si può provare durante una corsa come la maratona, si mette a ballare sulla linea di arrivo. Senza voler irridere alcuno, solo esprimendo la propria gioia nella maniera che le è sembrata più spontanea.
Non di sole medaglie è fatta la gioia olimpica. A volte anche la "semplice" partecipazione può essere un traguardo enorme. Lo deve essere stato soprattutto per Catherine Bertone, che all'età di 44 anni si ritrova, non per caso ma con pieno merito, a far parte della rappresentativa italiana alla maratona femminile. Per lei che non è una professionista ma una persona normale con la passione per la corsa di resistenza, per lei che non fa parte di un gruppo sportivo, per lei che deve dividersi quotidianamente tra famiglia, lavoro e allenamenti, correre a Rio de Janeiro, correre alle Olimpiadi, significa vivere una favola.
Non ha vinto una medaglia, ha coronato un sogno inaspettato e quasi irrealizzabile per una runner dilettante. E questo è già sufficiente per spiegare tutta quella gioia. Rivedendo quell'immagine di felicità incontenibile ho rivissuto i miei arrivi al fondo dei 42,195 chilometri. Negli ultimi metri, quelli che separano occhi e gambe dall'arrivo, si rivedono tante cose, tutto il sudore e il sacrificio fatto per arrivare lì. Arrivare alla fine di una tale competizione, con tutto ciò che significa, è di una meraviglia inspiegabile, se poi è alle Olimpiadi...
Bis bald!
Stefano
martedì 6 settembre 2016
Insegnamenti olimpici: la sofferenza
«Per arrivare qui ho sofferto tanto. E ho sofferto così tanto che ha cominciato a piacermi, perché il trucco per diventare campione è quello di soffrire ed allenarsi tantissimo»
Le Olimpiadi, in tutte le edizioni, lasciano qualcosa di bello da ricordare. Qualcosa che va oltre la comprensibile gioia personale dell'atleta medagliato o la soddisfazione del bottino olimpico personale. Ci sono momenti, attimi e frasi che possono rimanere ben fissati nella mente. Uno di questi l'ha concesso il primo oro della spedizione italiana a Rio de Janeiro, il judoka Fabio Basile. Concessosi ai microfoni dopo l'incontro che gli è valso il titolo olimpico, ha dichiarato di aver scoperto "il piacere di soffrire".
Fabio Basile (oro olimpico nel judo maschile, categoria -66 kg)
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L'urlo di rabbia e di vittoria (fonte: gazzettadiparma.it) |
Le Olimpiadi, in tutte le edizioni, lasciano qualcosa di bello da ricordare. Qualcosa che va oltre la comprensibile gioia personale dell'atleta medagliato o la soddisfazione del bottino olimpico personale. Ci sono momenti, attimi e frasi che possono rimanere ben fissati nella mente. Uno di questi l'ha concesso il primo oro della spedizione italiana a Rio de Janeiro, il judoka Fabio Basile. Concessosi ai microfoni dopo l'incontro che gli è valso il titolo olimpico, ha dichiarato di aver scoperto "il piacere di soffrire".
Ecco, questo (da maratoneta) mi ha colpito. Ci penso e ci ripenso. Poiché nessuno lo dice che in fondo noi podisti corriamo perché ci piace soffrire, incuranti dell'acido lattico che frantuma i muscoli. E come in tutti gli altri sport, la sofferenza nell'allenamento è la via maestra da percorrere per il successo. Nel judo come nella corsa. Superare le proprie barriere, pagando un pegno di sofferenza, di dolore a volte, per volere raggiungere un obiettivo. E scoprire che faticare è bello: ovvio per un maratoneta, assai meno per chi non corre o chi non fa pratica sportiva. Tanti mi chiedono: "Ma come fai?". Per chi corre tanti chilometri, per chi corre maratone, faticare è la bellezza del correre, soffrire è un'implicita ed essenziale ragione di vita.
Bis bald!
Stefano
Bis bald!
Stefano
martedì 23 agosto 2016
Lasciamoci emozionare: Rio 2016
I Giochi sono finiti, viva i Giochi, direbbe qualcuno. Eh si, vivano per sempre i Giochi, due settimane di appassionanti sfide tra le nazioni che ogni quattro anni, ma come poche altre manifestazioni sportive, riescono a tenermi incollato al televisore. I quindici giorni di Olimpiadi sono trascorsi più rapidamente della folgore, alla fine con un buon bottino di medaglie per i colori italiani: otto ori, dodici argenti e otto bronzi. Ventotto medaglie, nel complesso che ci garantiscono la permanenza nell'élite dello sport mondiale (la nona posizione del medagliere): potevano essere qualcuna in più (ma anche qualcuna in meno), potevano essere più pregiate. Vero, ma alla fine quel che conta sono le emozioni che i nostri atleti ci hanno fatto vivere. E quelle sono sempre meravigliose, indipendentemente dal loro numero. Ogni medaglia è una lezione, di sport e di vita. Ogni medaglia è un messaggio importante per chi pratica sport a qualsiasi livello, ma non solo.
Cosa ci lascia quest'Olimpiade tricolore? Ci insegna come la pressione e le attese possano giocare brutti scherzi (Chamizo, Pellegrini), ma a volte siano il trampolino verso grandi successi (Paltrinieri). Ci insegna che i secondi posti, le medaglie d'argento, possano valere come oro quando l'avversario è superiore (Italvolley, Setterosa, beach volley), ma anche che siano sintomatici di scarsa convinzione o appagamento (i tre argenti nella scherma). Ci insegna che nulla è scontato nello sport, e un briciolo di ignoranza in più a questi livelli fa la differenza (Basile, Garozzo). Ci insegna che fare sport è bellissimo a qualsiasi età e remunerativo sia da giovani (Rossetti) che - perdonatemi il termine - da "vecchi" (Pellielo, Innocenti). Ci insegna che anche le mamme possono vincere (Bacosi, Cainero)). Ci insegna che il fattore umano, soprattutto in una squadra, è imprescindibile (pallavolo, pallanuoto e canottaggio). Ci insegna che le maledizioni, la sfortuna e le medaglie di legno possono finire (Cagnotto, Viviani, Bruni) o possono non finire mai (Ferrari).
Grazie quindi a tutti gli atleti (e agli italiani soprattutto per ragioni di bandiera), per i grandi momenti vissuti in queste due settimane. Momenti che si spera di rivivere tra quattro anni a Tokyo ma che sicuramente non verranno dimenticati. Io voglio ricordarli così, con una mini-"rassegna stampa" sui grandi momenti dell'Italia alle Olimpiadi di Rio de Janeiro 2016.
Bis bald!
Stefano
Rossella Fiamingo (scherma), argento nella spada individuale femminile
La saggia della scherma invece le ha scritto di come questo argento ora forse un po' amaro sarà apprezzato con l'esperienza. «La ringrazio. Per un attimo ho pensato di diventare come Valentina, mi sono illusa...».
Mauro Casaccia, La Stampa, 7 agosto 2016
Gabriele Detti (nuoto), bronzo nei 400 metri stile libero maschili
Anni passati a scherzare davanti a risultati sempre più importanti e quando arriva la medaglia olimpica non c'è nemmeno la forza di guardarla. Gabriele Detti si trasforma sul podio dei 400 stile libero, timido, incredulo, stupito da una gara che è andata esattamente come se l'era immaginata eppure era tutta diversa.
Giulia Zonca, La Stampa, 7 agosto 2016
Elisa Longo Borghini (ciclismo), bronzo nella corsa in linea femminile
Il ciclismo toglie, il ciclismo dà. Almeno all'Italia, che ieri ha perso una medaglia quasi certa con lo sfortunatissimo Vincenzo Nibali e oggi ne conquista una di bronzo a un certo punto insperata con Elisa Longo Borghini.
Lorenzo Vendemiale, Il Fatto Quotidiano, 7 agosto 2016
Odette Giuffrida (judo), argento nella categoria 52 kg femminile
A cinque anni Odette Giuffrida sognava di diventare una leggenda del nuoto. Ma un timpano perforato la mise davanti a una scelta. I genitori volevano che cambiasse sport. Provò con la danza classica e la ginnastica. Un giorno, vide il sorriso con il quale suo fratello maggiore tornava a casa ogni sera dalla palestra di judo. «Appena mi tolsi le scarpe per salire sul tatami capii che non ne sarei mai scesa. Per me non è una questione di agonismo, ma di felicità. Lì sopra sto bene, mi sento me stessa».
Marco Imarisio, Corriere dello Sport, 8 agosto 2016
Tania Cagnotto e Francesca Dallapé (tuffi), argento nel trampolino 3 metri sincro femminile
La medaglia di una vita, del risarcimento, di tutto. Tania Cagnotto completa un ciclo che è fatto di 10 Olimpiadi (5 per parte insieme a papà Giorgio) e trova la gemma più preziosa con Francesca Dallapé, la compagna e amica di un sincronizzato da 3 metri che è imbattuto in Europa da otto edizioni, ha preso due argenti mondiali e dopo il quarto posto beffardo di Londra si prende con gli interessi il podio. Rompe un sortilegio, porta per la prima volta sul podio le donne d'Italia. Un altro tabù che s'infrange. Chiamatela storia. In un pomeriggio uggioso, plumbeo e minaccioso a Rio, le lacrime e i sorrisi delle sorelle d'Italia irradiano la piscina Maria Lenk, che diventa un catino ribollente di passione.
Stefano Arcobelli, La Gazzetta dello Sport, 8 agosto 2016
Fabio Basile (judo), oro nella categoria 66 kg maschile
Dal buio alla luce in un anno e Fabio Basile ha messo la sua firma sullo sport italiano di tutti i tempi. Sua la medaglia d'oro numero 200 dell'Italia. «È stato un anno allucinante. Lo sapete che solo un anno fa non ero neanche nel ranking mondiale? Mi stavo bruciano. Ma sono riuscito a trasformare la sofferenza e il dolore in armi da usare sul tappeto contro i miei avversari. In tanti mi dicevano di smettere, che non sarei mai diventato un campione: ecco questa medaglia la dedico anche a loro. La vedete questa medaglia d'oro al collo?». La vede tutto il mondo.
Mauro Casaccia, La Stampa, 8 agosto 2016
Daniele Garozzo (scherma), oro nel fioretto individuale maschile
"Questa sera mi sono sentito Pelè", e se si può vivere un momento così, di puro delirio, è giusto lasciarsi andare.
Mattia Chiusano, La Repubblica, 7 agosto 2016
Niccolò Campriani (tiro), oro nella carabina 10 metri ad aria compressa maschile
Forse era già tutto scritto: Niccolò Campriani ha sparato nella finale della carabina con bersaglio a 10 metri dalla corsia F. Come Firenze e Fiorentina, la sua città e la sua squadra del cuore. Non poteva andargli male.
Roberto Condio, La Stampa, 9 agosto 2016
Giovanni Pellielo (tiro), argento nella fossa olimpica maschile
Su Johnny puoi contare sempre. Quando ha quegli occhi di solito porta a casa medaglie d'oro, d'argento o di bronzo. Gli riesce da quando ha 18 anni e la sua collezione comprende titoli mondiali ed europei, individuali e a squadre, impilati come un giocatore scaltro davanti a un croupier.
Antonino Morici, La Gazzetta dello Sport, 10 agosto 2016
Marco Innocenti (tiro), argento nel double trap maschile
Chissà che effetto gli ha fatto essere l'argomento più dibattuto su Twitter: alle 22 italiane, si parlava di #Innocenti più che di #TrofeoTim e #stellecadenti. Se l'è meritato, il piattello quando si rompe lascia una scia fucsia e Marco in un pomeriggio ne ha spaccati 187. Chi le ha mai viste 187 stelle cadenti fucsia in un giorno solo?
Luca Bianchin, La Gazzetta dello Sport, 11 agosto 2016
Elisa di Francisca (scherma), argento nel fioretto individuale femminile
Vincere un'Olimpiade è difficile, ripetersi sarebbe stato leggendario. "Se rivinco l'oro smetto di fumare e vado ad ubriacarmi di caipiroska”, aveva sentenziato alla vigilia. I peggiori bar di Rio, avvisati, devono essersi assicurati con Inna Deriglazova che il progetto non andasse a buon fine.
Stefania Grimoldi, La Gazzetta dello Sport, 10 agosto 2016
Marco Di Costanzo e Giovanni Abagnale (canottaggio), bronzo nel 2 senza maschile
La barca "Ogm" del remo tricolore, l'esperimento last-minute del "Dottor" Giuseppe La Mura, ha fatto centro. I gufi e le Cassandre erano in agguato, pronti al requiem. Il due senza nato solo un mese fa rimettendo assieme come pezzi di meccano gli atleti degli armi azzurri ha centrato un bronzo mozzafiato nelle acque di Rodrigo Freitas e salvato (per ora) il bilancio del tribolato canottaggio italiano.
Ettore Livini, La Repubblica, 12 agosto 2016
Matteo Castaldo, Matteo Lodo, Domenico Montrone, Giuseppe Vicino (canottaggio), bronzo nel 4 senza maschile
Un bronzo che vale oro anche perché conquistato da vero gruppo, da tutta la squadra, atleti e staff. Le scelte tecniche del mister da una parte e la forza e la determinazione dei ragazzi dall'altra, che in acqua hanno saputo mettere in atto una rimonta epica ai danni del Sudafrica.
Marta Daveti, Quotidiano.net, 12 agosto 2016
Diana Bacosi e Chiara Cainero (tiro), oro e argento nello skeet femminile
La sveglia, l'asilo, i compiti, la scuola, la cucina, i mariti, i suoceri. Provateci voi a metterci dentro pure i piattelli, il fucile e il poligono, nell'ordinaria quotidianità di due mamme italiane. Ebbene, Nadia Bacosi e Chiara Cainero, a forza di provarci, di volerlo fare, ce l'hanno fatta. E con discreti risultati, a vedere quello che è successo al poligono olimpico di Rio
Dario Ricci, Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2016
Gabriele Rossetti (tiro), oro nello skeet maschile
Da quando ha tirato fuori il fucile dalla custodia a quando l'ha sollevato al cielo in segno di trionfo, Rossetti non ha sbagliato nulla: non un solo piattello ha avuto la grazia di planare intatto a terra. Nuvolette rosa si sono susseguite a nuvolette rosa, per tutto il giorno, in qualunque fase della gara, qualificazione, spareggio, finale, duello. Poveri piattelli, nessuna pietà.
Marco Mensurati, La Repubblica, 14 agosto 2016
Tania Cagnotto (tuffi), bronzo nel trampolino 3 metri femminile
La sconfitta che diventa stimolo, la sofferenza che si trasforma in un fuoco che ti impone di svegliarti ogni mattina e continuare ad allenarti in quella mezza piscina di Bolzano, anche quando dall'altra parte i bambini sullo scivolo fanno confusione o ci sono le vecchiette dell'aquagym. Sacrifici. Fisici ma soprattutto mentali, perché sai che stai lottando per un traguardo incerto e magari stai rimandando momenti importanti della tua vita - come un matrimonio, come un figlio - per rincorrere quella che potrebbe essere una semplice chimera. Ma poi arrivi, arrivi davvero, e ti vengono i brividi. Prima la medaglia - sofferta e combattuta - che ti fa sospirare, bellissima perché cancella in un attimo tutta l'amarezza del passato e anche perché la condividi con la compagna di una vita in piscina. Poi la medaglia gioiosa, quella che vinci proprio perché non hai più niente da perdere, con un ultimo tuffo che vola altissimo, perché sai che deve essere la tua firma su qualcosa di speciale. E così alla fine riesci anche a mettere d'accordo i giudici e la soddisfazione di aver fatto una grande gara si trasforma in una gioia fantastica, tanto che non riesci a smettere di sorridere. Tania Cagnotto è l'atleta più amata d'Italia perché tutti noi ammiriamo non solo il suo talento, ma anche la sua umanità, la sua semplicità, la sua giovialità. Ammiriamo il modo in cui ha superato le difficoltà che ha dovuto affrontare ogni giorno crescendo in uno sport povero come i tuffi, il modo in cui si è messa alle spalle le sfighe che le sono capitate più d'una volta in carriera e la tenacia con cui ha saputo proseguire per la sua strada. Vedendola trionfare, e trionfare ancora, ci regala al tempo stesso una soddisfazione patriottica e un segnale di speranza. Perché anche in questa società piena di valori ambigui il sacrificio e la perseveranza pagano ancora, nello sport e nella vita, e i sogni - a volte - si avverano.
Luca Stacul, Eurosport, 15 agosto 2016
Gregorio Paltrinieri e Gabriele Detti (nuoto), oro e bronzo nei 1500 metri stile libero maschili
A 21 anni il destino da olimpionico di Gregorio Paltrinieri è finalmente compiuto. Quello che tutti gli avevano pronosticato quando era soltanto un ragazzino, e a 17 anni già partecipava ai suoi primi Giochi a Londra 2012. Quello che anche lui ha atteso e sognato, ogni giorno degli ultimi quattro anni, sapendo di essere il più forte di tutti. Ma poi diventarlo per davvero, alle Olimpiadi, è un'altra storia.
Lorenzo Vendemiale, Il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2016
Niccolò Campriani (tiro), oro nella carabina 50 metri tre posizioni maschile
È l'immenso questo titolo olimpico di Niccolò Campriani, due medaglie a Londra, due qui, ma la tranche agonista lo blocca quasi. Sul podio sussurra appena l'inno, si sfiora il capo, come dire "ma che sta succedendo, è per me questo inno?". È per Niccolò, l'ingegnere che si costruisce la morsa per le cartucce, l'atleta dal sorriso timido, dalle parole misurate, e anche per Petra, la sua fidanzata. Niccolò, rompendo con molto discrezione il cerimoniale, raggiunge Petra che lo segue e lo fotografa affacciata alla balaustra che contiene il pubblico, la bacia e la abbraccia, quasi a dire: "E' per te, amore mio". E' un oro di gioia.
Maria Luisa Colledani, Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2016
Andrea Santarelli, Marco Fichera, Enrico Garozzo e Paolo Pizzo (scherma), argento nella spada a squadre maschile
Quando Enrico Garozzo ha visto suo fratello Daniele sulla terrazza della Cnn affacciata su Copacabana deve averlo invidiato non poco e poi pensato che, se anche non alla Cnn, un'intervista con una medaglia al collo non sarebbe stata poi così male. Non è arrivata la Cnn, ma la medaglia sì. Non è l'oro che sperava per eguagliare il fratello, ma un nobile argento vinto insieme con Raffaele Fichera, Paolo Pizzo e Andrea Santarelli.
Paolo Brusorio, La Stampa, 15 agosto 2016
Rachele Bruni (nuoto), argento nei 10 chilometri
L'ultimo chilometro è un incontro di boxe più che una maratona del nuoto. Rachele Bruni ne esce con una medaglia, conquistata dopo 4 quarti posti Mondiali, con una grinta da applausi. Ha dovuto nuotare, picchiare, difendere e resistere.
Giulia Zonca, La Stampa, 15 agosto 2016
Elia Viviani (ciclismo), oro nell'omnium maschile
Un oro atteso 20 anni. E finalmente eccolo. Meraviglioso, come sa esserlo un oro cercato così a lungo. Elia Viviani se lo mette al collo quattro anni dopo la beffa più atroce della sua carriera, compagna di tante sue notti insonni: da primo a sesto nell'ultima prova dell'omnium di Londra, dal sogno di un podio a portata di mano all'incubo di una medaglia olimpica sfumatagli davanti al naso.
Paolo Marabini, La Gazzetta dello Sport, 15 agosto 2016
Daniele Lupo e Paolo Nicolai (beach volley), argento nel torneo maschile
Il Lupo (Daniele) non ce l'ha fatta. Con il compagno Paolo Nicolai ha sognato fino all'ultimo istante il lieto fine della bella fiaba del beach volley italiano alle Olimpiadi. Copacabana, però, è riserva di caccia all'oro dei brasiliani. E non si è mai visto una favola finire bene per i lupi.
Ettore Livini, La Repubblica, 19 agosto 2016
Nazionale di pallanuoto, argento nel torneo femminile
Galleggia per il Setterosa una bellissima medaglia d'argento, quella d'oro si è inabissata subito sul fondo dell'Olympic Aquatics Center e proprio non potevamo ripescarla. Non c'è stato proprio niente da fare, insomma, se non provare a farlo. Ma essere troppo delusi sarebbe assurdo oltre che ingeneroso. Nello sport ci sono quelli più forti di te, anche molto più forti, e normalmente vincono.
Nazionale di pallanuoto, bronzo nel torneo maschile
Poteva essere la gara delle pile scariche, ma il Settebello ha sette vite e nell'acqua di Rio non ha mai perso anima e gol. Il bronzo non è un metallo pallido per la nazionale di pallanuoto che nella storia ha regalato più medaglie che delusioni: e anche dopo aver mancato la finale per il titolo che l'Italia in calottina nella sua lunga vita ha comunque vinto tre volte, nel match di consolazione con il Montenegro ha tirato fuori la stoffa dei vincenti mettendo così ancora una volta i piedi sul podio.
Frank Chamizo (lotta libera), bronzo nella categoria 65 kg
Ha pianto per il dolore, per quella discussa decisione dei giudici nella semifinale persa contro l'azero, per quante ne ha passate sino ad arrivare qui da favorito. "Volevo l'oro per l'Italia che mi ha dato un'altra vita" e si è sentito quasi in colpa per non esserci riuscito: ma è stato grande Chamizo, ha stretto i denti e salito sul materassino per la medaglia di consolazione, un bronzo pesante con il quale prosegue la serie di un anno di successi. Dai Giochi europei di Baku ai Giochi di Rio è stata una scalata. "Ci riproverò a Tokyo". Avrà 28 anni, avrà un'altra seconda chance. Per uno che è nato e ha sofferto a Cuba quasi gli stenti, essere il terzo ai Giochi è un riscatto anche morale.
Nazionale di pallavolo, argento nel torneo maschile
Ieri non c'era un bar in cui, supportati anche dalle prime pagine dei principali quotidiani, non si parlasse dei missili e degli aces dello Zar, delle bombe del cubano Juantorena, del giovane Giannelli. Personaggi e atleti professionisti, protagonisti di prim'ordine nel nostro panorama ma che purtroppo non hanno la giusta risonanza tra il pubblico medio, quello che si interessa di poche discipline e che magari guardava i giganti della pallavolo storcendo il naso. Questo gruppo probabilmente non ha riscritto la storia sul campo (anche se un argento olimpico è tutto tranne che una sconfitta), non si è consacrato alla leggenda ma ha risvegliato gli animi. Generazione dei Fenomeni, Eroi di Anastasi, Conquistadores do Brasil: c'è un filo conduttore tra il 1996, il 2004, il 2016. Non è l'argento. Ma è il premio "affetto del pubblico”, quello che neanche la miglior giocata può offrirti. E forse vale più di tutto.
Cosa ci lascia quest'Olimpiade tricolore? Ci insegna come la pressione e le attese possano giocare brutti scherzi (Chamizo, Pellegrini), ma a volte siano il trampolino verso grandi successi (Paltrinieri). Ci insegna che i secondi posti, le medaglie d'argento, possano valere come oro quando l'avversario è superiore (Italvolley, Setterosa, beach volley), ma anche che siano sintomatici di scarsa convinzione o appagamento (i tre argenti nella scherma). Ci insegna che nulla è scontato nello sport, e un briciolo di ignoranza in più a questi livelli fa la differenza (Basile, Garozzo). Ci insegna che fare sport è bellissimo a qualsiasi età e remunerativo sia da giovani (Rossetti) che - perdonatemi il termine - da "vecchi" (Pellielo, Innocenti). Ci insegna che anche le mamme possono vincere (Bacosi, Cainero)). Ci insegna che il fattore umano, soprattutto in una squadra, è imprescindibile (pallavolo, pallanuoto e canottaggio). Ci insegna che le maledizioni, la sfortuna e le medaglie di legno possono finire (Cagnotto, Viviani, Bruni) o possono non finire mai (Ferrari).
Grazie quindi a tutti gli atleti (e agli italiani soprattutto per ragioni di bandiera), per i grandi momenti vissuti in queste due settimane. Momenti che si spera di rivivere tra quattro anni a Tokyo ma che sicuramente non verranno dimenticati. Io voglio ricordarli così, con una mini-"rassegna stampa" sui grandi momenti dell'Italia alle Olimpiadi di Rio de Janeiro 2016.
Bis bald!
Stefano
Rossella Fiamingo (scherma), argento nella spada individuale femminile
La saggia della scherma invece le ha scritto di come questo argento ora forse un po' amaro sarà apprezzato con l'esperienza. «La ringrazio. Per un attimo ho pensato di diventare come Valentina, mi sono illusa...».
Mauro Casaccia, La Stampa, 7 agosto 2016
Gabriele Detti (nuoto), bronzo nei 400 metri stile libero maschili
Anni passati a scherzare davanti a risultati sempre più importanti e quando arriva la medaglia olimpica non c'è nemmeno la forza di guardarla. Gabriele Detti si trasforma sul podio dei 400 stile libero, timido, incredulo, stupito da una gara che è andata esattamente come se l'era immaginata eppure era tutta diversa.
Giulia Zonca, La Stampa, 7 agosto 2016
Elisa Longo Borghini (ciclismo), bronzo nella corsa in linea femminile
Il ciclismo toglie, il ciclismo dà. Almeno all'Italia, che ieri ha perso una medaglia quasi certa con lo sfortunatissimo Vincenzo Nibali e oggi ne conquista una di bronzo a un certo punto insperata con Elisa Longo Borghini.
Lorenzo Vendemiale, Il Fatto Quotidiano, 7 agosto 2016
Odette Giuffrida (judo), argento nella categoria 52 kg femminile
A cinque anni Odette Giuffrida sognava di diventare una leggenda del nuoto. Ma un timpano perforato la mise davanti a una scelta. I genitori volevano che cambiasse sport. Provò con la danza classica e la ginnastica. Un giorno, vide il sorriso con il quale suo fratello maggiore tornava a casa ogni sera dalla palestra di judo. «Appena mi tolsi le scarpe per salire sul tatami capii che non ne sarei mai scesa. Per me non è una questione di agonismo, ma di felicità. Lì sopra sto bene, mi sento me stessa».
Marco Imarisio, Corriere dello Sport, 8 agosto 2016
Tania Cagnotto e Francesca Dallapé (tuffi), argento nel trampolino 3 metri sincro femminile
La medaglia di una vita, del risarcimento, di tutto. Tania Cagnotto completa un ciclo che è fatto di 10 Olimpiadi (5 per parte insieme a papà Giorgio) e trova la gemma più preziosa con Francesca Dallapé, la compagna e amica di un sincronizzato da 3 metri che è imbattuto in Europa da otto edizioni, ha preso due argenti mondiali e dopo il quarto posto beffardo di Londra si prende con gli interessi il podio. Rompe un sortilegio, porta per la prima volta sul podio le donne d'Italia. Un altro tabù che s'infrange. Chiamatela storia. In un pomeriggio uggioso, plumbeo e minaccioso a Rio, le lacrime e i sorrisi delle sorelle d'Italia irradiano la piscina Maria Lenk, che diventa un catino ribollente di passione.
Stefano Arcobelli, La Gazzetta dello Sport, 8 agosto 2016
Fabio Basile (judo), oro nella categoria 66 kg maschile
Dal buio alla luce in un anno e Fabio Basile ha messo la sua firma sullo sport italiano di tutti i tempi. Sua la medaglia d'oro numero 200 dell'Italia. «È stato un anno allucinante. Lo sapete che solo un anno fa non ero neanche nel ranking mondiale? Mi stavo bruciano. Ma sono riuscito a trasformare la sofferenza e il dolore in armi da usare sul tappeto contro i miei avversari. In tanti mi dicevano di smettere, che non sarei mai diventato un campione: ecco questa medaglia la dedico anche a loro. La vedete questa medaglia d'oro al collo?». La vede tutto il mondo.
Mauro Casaccia, La Stampa, 8 agosto 2016
Daniele Garozzo (scherma), oro nel fioretto individuale maschile
"Questa sera mi sono sentito Pelè", e se si può vivere un momento così, di puro delirio, è giusto lasciarsi andare.
Mattia Chiusano, La Repubblica, 7 agosto 2016
Niccolò Campriani (tiro), oro nella carabina 10 metri ad aria compressa maschile
Forse era già tutto scritto: Niccolò Campriani ha sparato nella finale della carabina con bersaglio a 10 metri dalla corsia F. Come Firenze e Fiorentina, la sua città e la sua squadra del cuore. Non poteva andargli male.
Roberto Condio, La Stampa, 9 agosto 2016
Giovanni Pellielo (tiro), argento nella fossa olimpica maschile
Su Johnny puoi contare sempre. Quando ha quegli occhi di solito porta a casa medaglie d'oro, d'argento o di bronzo. Gli riesce da quando ha 18 anni e la sua collezione comprende titoli mondiali ed europei, individuali e a squadre, impilati come un giocatore scaltro davanti a un croupier.
Antonino Morici, La Gazzetta dello Sport, 10 agosto 2016
Marco Innocenti (tiro), argento nel double trap maschile
Chissà che effetto gli ha fatto essere l'argomento più dibattuto su Twitter: alle 22 italiane, si parlava di #Innocenti più che di #TrofeoTim e #stellecadenti. Se l'è meritato, il piattello quando si rompe lascia una scia fucsia e Marco in un pomeriggio ne ha spaccati 187. Chi le ha mai viste 187 stelle cadenti fucsia in un giorno solo?
Luca Bianchin, La Gazzetta dello Sport, 11 agosto 2016
Elisa di Francisca (scherma), argento nel fioretto individuale femminile
Vincere un'Olimpiade è difficile, ripetersi sarebbe stato leggendario. "Se rivinco l'oro smetto di fumare e vado ad ubriacarmi di caipiroska”, aveva sentenziato alla vigilia. I peggiori bar di Rio, avvisati, devono essersi assicurati con Inna Deriglazova che il progetto non andasse a buon fine.
Stefania Grimoldi, La Gazzetta dello Sport, 10 agosto 2016
Marco Di Costanzo e Giovanni Abagnale (canottaggio), bronzo nel 2 senza maschile
La barca "Ogm" del remo tricolore, l'esperimento last-minute del "Dottor" Giuseppe La Mura, ha fatto centro. I gufi e le Cassandre erano in agguato, pronti al requiem. Il due senza nato solo un mese fa rimettendo assieme come pezzi di meccano gli atleti degli armi azzurri ha centrato un bronzo mozzafiato nelle acque di Rodrigo Freitas e salvato (per ora) il bilancio del tribolato canottaggio italiano.
Ettore Livini, La Repubblica, 12 agosto 2016
Matteo Castaldo, Matteo Lodo, Domenico Montrone, Giuseppe Vicino (canottaggio), bronzo nel 4 senza maschile
Un bronzo che vale oro anche perché conquistato da vero gruppo, da tutta la squadra, atleti e staff. Le scelte tecniche del mister da una parte e la forza e la determinazione dei ragazzi dall'altra, che in acqua hanno saputo mettere in atto una rimonta epica ai danni del Sudafrica.
Marta Daveti, Quotidiano.net, 12 agosto 2016
Diana Bacosi e Chiara Cainero (tiro), oro e argento nello skeet femminile
La sveglia, l'asilo, i compiti, la scuola, la cucina, i mariti, i suoceri. Provateci voi a metterci dentro pure i piattelli, il fucile e il poligono, nell'ordinaria quotidianità di due mamme italiane. Ebbene, Nadia Bacosi e Chiara Cainero, a forza di provarci, di volerlo fare, ce l'hanno fatta. E con discreti risultati, a vedere quello che è successo al poligono olimpico di Rio
Dario Ricci, Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2016
Gabriele Rossetti (tiro), oro nello skeet maschile
Da quando ha tirato fuori il fucile dalla custodia a quando l'ha sollevato al cielo in segno di trionfo, Rossetti non ha sbagliato nulla: non un solo piattello ha avuto la grazia di planare intatto a terra. Nuvolette rosa si sono susseguite a nuvolette rosa, per tutto il giorno, in qualunque fase della gara, qualificazione, spareggio, finale, duello. Poveri piattelli, nessuna pietà.
Marco Mensurati, La Repubblica, 14 agosto 2016
Tania Cagnotto (tuffi), bronzo nel trampolino 3 metri femminile
La sconfitta che diventa stimolo, la sofferenza che si trasforma in un fuoco che ti impone di svegliarti ogni mattina e continuare ad allenarti in quella mezza piscina di Bolzano, anche quando dall'altra parte i bambini sullo scivolo fanno confusione o ci sono le vecchiette dell'aquagym. Sacrifici. Fisici ma soprattutto mentali, perché sai che stai lottando per un traguardo incerto e magari stai rimandando momenti importanti della tua vita - come un matrimonio, come un figlio - per rincorrere quella che potrebbe essere una semplice chimera. Ma poi arrivi, arrivi davvero, e ti vengono i brividi. Prima la medaglia - sofferta e combattuta - che ti fa sospirare, bellissima perché cancella in un attimo tutta l'amarezza del passato e anche perché la condividi con la compagna di una vita in piscina. Poi la medaglia gioiosa, quella che vinci proprio perché non hai più niente da perdere, con un ultimo tuffo che vola altissimo, perché sai che deve essere la tua firma su qualcosa di speciale. E così alla fine riesci anche a mettere d'accordo i giudici e la soddisfazione di aver fatto una grande gara si trasforma in una gioia fantastica, tanto che non riesci a smettere di sorridere. Tania Cagnotto è l'atleta più amata d'Italia perché tutti noi ammiriamo non solo il suo talento, ma anche la sua umanità, la sua semplicità, la sua giovialità. Ammiriamo il modo in cui ha superato le difficoltà che ha dovuto affrontare ogni giorno crescendo in uno sport povero come i tuffi, il modo in cui si è messa alle spalle le sfighe che le sono capitate più d'una volta in carriera e la tenacia con cui ha saputo proseguire per la sua strada. Vedendola trionfare, e trionfare ancora, ci regala al tempo stesso una soddisfazione patriottica e un segnale di speranza. Perché anche in questa società piena di valori ambigui il sacrificio e la perseveranza pagano ancora, nello sport e nella vita, e i sogni - a volte - si avverano.
Luca Stacul, Eurosport, 15 agosto 2016
Gregorio Paltrinieri e Gabriele Detti (nuoto), oro e bronzo nei 1500 metri stile libero maschili
A 21 anni il destino da olimpionico di Gregorio Paltrinieri è finalmente compiuto. Quello che tutti gli avevano pronosticato quando era soltanto un ragazzino, e a 17 anni già partecipava ai suoi primi Giochi a Londra 2012. Quello che anche lui ha atteso e sognato, ogni giorno degli ultimi quattro anni, sapendo di essere il più forte di tutti. Ma poi diventarlo per davvero, alle Olimpiadi, è un'altra storia.
Lorenzo Vendemiale, Il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2016
Niccolò Campriani (tiro), oro nella carabina 50 metri tre posizioni maschile
È l'immenso questo titolo olimpico di Niccolò Campriani, due medaglie a Londra, due qui, ma la tranche agonista lo blocca quasi. Sul podio sussurra appena l'inno, si sfiora il capo, come dire "ma che sta succedendo, è per me questo inno?". È per Niccolò, l'ingegnere che si costruisce la morsa per le cartucce, l'atleta dal sorriso timido, dalle parole misurate, e anche per Petra, la sua fidanzata. Niccolò, rompendo con molto discrezione il cerimoniale, raggiunge Petra che lo segue e lo fotografa affacciata alla balaustra che contiene il pubblico, la bacia e la abbraccia, quasi a dire: "E' per te, amore mio". E' un oro di gioia.
Maria Luisa Colledani, Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2016
Andrea Santarelli, Marco Fichera, Enrico Garozzo e Paolo Pizzo (scherma), argento nella spada a squadre maschile
Quando Enrico Garozzo ha visto suo fratello Daniele sulla terrazza della Cnn affacciata su Copacabana deve averlo invidiato non poco e poi pensato che, se anche non alla Cnn, un'intervista con una medaglia al collo non sarebbe stata poi così male. Non è arrivata la Cnn, ma la medaglia sì. Non è l'oro che sperava per eguagliare il fratello, ma un nobile argento vinto insieme con Raffaele Fichera, Paolo Pizzo e Andrea Santarelli.
Paolo Brusorio, La Stampa, 15 agosto 2016
Rachele Bruni (nuoto), argento nei 10 chilometri
L'ultimo chilometro è un incontro di boxe più che una maratona del nuoto. Rachele Bruni ne esce con una medaglia, conquistata dopo 4 quarti posti Mondiali, con una grinta da applausi. Ha dovuto nuotare, picchiare, difendere e resistere.
Giulia Zonca, La Stampa, 15 agosto 2016
Elia Viviani (ciclismo), oro nell'omnium maschile
Un oro atteso 20 anni. E finalmente eccolo. Meraviglioso, come sa esserlo un oro cercato così a lungo. Elia Viviani se lo mette al collo quattro anni dopo la beffa più atroce della sua carriera, compagna di tante sue notti insonni: da primo a sesto nell'ultima prova dell'omnium di Londra, dal sogno di un podio a portata di mano all'incubo di una medaglia olimpica sfumatagli davanti al naso.
Paolo Marabini, La Gazzetta dello Sport, 15 agosto 2016
Daniele Lupo e Paolo Nicolai (beach volley), argento nel torneo maschile
Il Lupo (Daniele) non ce l'ha fatta. Con il compagno Paolo Nicolai ha sognato fino all'ultimo istante il lieto fine della bella fiaba del beach volley italiano alle Olimpiadi. Copacabana, però, è riserva di caccia all'oro dei brasiliani. E non si è mai visto una favola finire bene per i lupi.
Ettore Livini, La Repubblica, 19 agosto 2016
Nazionale di pallanuoto, argento nel torneo femminile
Galleggia per il Setterosa una bellissima medaglia d'argento, quella d'oro si è inabissata subito sul fondo dell'Olympic Aquatics Center e proprio non potevamo ripescarla. Non c'è stato proprio niente da fare, insomma, se non provare a farlo. Ma essere troppo delusi sarebbe assurdo oltre che ingeneroso. Nello sport ci sono quelli più forti di te, anche molto più forti, e normalmente vincono.
Maurizio Crosetti, La Repubblica, 22 agosto 2016
Nazionale di pallanuoto, bronzo nel torneo maschile
Poteva essere la gara delle pile scariche, ma il Settebello ha sette vite e nell'acqua di Rio non ha mai perso anima e gol. Il bronzo non è un metallo pallido per la nazionale di pallanuoto che nella storia ha regalato più medaglie che delusioni: e anche dopo aver mancato la finale per il titolo che l'Italia in calottina nella sua lunga vita ha comunque vinto tre volte, nel match di consolazione con il Montenegro ha tirato fuori la stoffa dei vincenti mettendo così ancora una volta i piedi sul podio.
Corriere dello sport, 20 agosto 2016
Frank Chamizo (lotta libera), bronzo nella categoria 65 kg
Ha pianto per il dolore, per quella discussa decisione dei giudici nella semifinale persa contro l'azero, per quante ne ha passate sino ad arrivare qui da favorito. "Volevo l'oro per l'Italia che mi ha dato un'altra vita" e si è sentito quasi in colpa per non esserci riuscito: ma è stato grande Chamizo, ha stretto i denti e salito sul materassino per la medaglia di consolazione, un bronzo pesante con il quale prosegue la serie di un anno di successi. Dai Giochi europei di Baku ai Giochi di Rio è stata una scalata. "Ci riproverò a Tokyo". Avrà 28 anni, avrà un'altra seconda chance. Per uno che è nato e ha sofferto a Cuba quasi gli stenti, essere il terzo ai Giochi è un riscatto anche morale.
Stefano Arcobelli, La Gazzetta dello Sport, 21 agosto 2016
Nazionale di pallavolo, argento nel torneo maschile
Ieri non c'era un bar in cui, supportati anche dalle prime pagine dei principali quotidiani, non si parlasse dei missili e degli aces dello Zar, delle bombe del cubano Juantorena, del giovane Giannelli. Personaggi e atleti professionisti, protagonisti di prim'ordine nel nostro panorama ma che purtroppo non hanno la giusta risonanza tra il pubblico medio, quello che si interessa di poche discipline e che magari guardava i giganti della pallavolo storcendo il naso. Questo gruppo probabilmente non ha riscritto la storia sul campo (anche se un argento olimpico è tutto tranne che una sconfitta), non si è consacrato alla leggenda ma ha risvegliato gli animi. Generazione dei Fenomeni, Eroi di Anastasi, Conquistadores do Brasil: c'è un filo conduttore tra il 1996, il 2004, il 2016. Non è l'argento. Ma è il premio "affetto del pubblico”, quello che neanche la miglior giocata può offrirti. E forse vale più di tutto.
Stefano Villa, Eurosport, 22 agosto 2016
domenica 21 agosto 2016
Giorno di maratona olimpica
Le Olimpiadi stanno per chiudersi. E tra le gare che chiudono il programma c'è il simbolo della manifestazione, la maratona, quella folle corsa di 42,195 chilometri che decreta l'epigono del greco Filippide e il successore di Spyridon Louis. Inutile aggiungere che ho cercato in tutti i modi di rimanere incollato al televisore per seguire l'evento da me più atteso nel programma dell'atletica leggera.
Tralasciando i magri risultati dei maratoneti italiani - poco fortunati o fuori forma? - sono molto contento di come è andata a finire. In assenza di carte azzurre da giocare nell'assegnazione delle medaglie, ha vinto colui che speravo vincesse, Eliud Kipchoge. Un keniota, come era prevedibile, ma non un keniota come tanti altri. Prima di tutto un grande professionista, non uno dei tanti africani che alle prime vittorie disperdono il loro potenziale in alcol, donne e droga. Poi, cosa che più ammiro, è un podista capace di mettersi in gioco su più distanze: prima di dedicarsi alla maratona, è stato tra i protagonisti del mezzofondo, in grado di mettersi al collo più medaglie nei 5000 metri piani. Poi, la maratona: sei affermazioni su sette partecipazioni internazionali, una maratona di Berlino vinta con una problema alle solette delle scarpe (e magari avrebbe pure fatto il record del mondo, senza quel problema), una maratona di Londra con record sfiorato e quasi un minuto rifilato a tutti. A mio modo di vedere, l'erede di Haile Gebrselassie.
Ma soprattutto, è la fine della maledizione olimpica per un atleta che per l'edizione 2012 era stato respinto dal crudele meccanismo dei trial. In quattro anni, grandi successi sulla distanza della maratona e adesso, l'alloro più pregiato. Bravo, Eliud.
Guardo quest'atleta, che decide di salutare tutti scattando in faccia agli avversari senza timore alcuno. Guardo questi atleti, che corrono a venti all'ora. A più di venti all'ora. Che fanno parziali di 2'53"/km. Che a due chilometri dalla fine possono vantare ancora una falcata facile, naturale. Dopo penso a me, alle maratone che ho corso io e... si, ciao Stefano, ciao.
Tralasciando i magri risultati dei maratoneti italiani - poco fortunati o fuori forma? - sono molto contento di come è andata a finire. In assenza di carte azzurre da giocare nell'assegnazione delle medaglie, ha vinto colui che speravo vincesse, Eliud Kipchoge. Un keniota, come era prevedibile, ma non un keniota come tanti altri. Prima di tutto un grande professionista, non uno dei tanti africani che alle prime vittorie disperdono il loro potenziale in alcol, donne e droga. Poi, cosa che più ammiro, è un podista capace di mettersi in gioco su più distanze: prima di dedicarsi alla maratona, è stato tra i protagonisti del mezzofondo, in grado di mettersi al collo più medaglie nei 5000 metri piani. Poi, la maratona: sei affermazioni su sette partecipazioni internazionali, una maratona di Berlino vinta con una problema alle solette delle scarpe (e magari avrebbe pure fatto il record del mondo, senza quel problema), una maratona di Londra con record sfiorato e quasi un minuto rifilato a tutti. A mio modo di vedere, l'erede di Haile Gebrselassie.
Ma soprattutto, è la fine della maledizione olimpica per un atleta che per l'edizione 2012 era stato respinto dal crudele meccanismo dei trial. In quattro anni, grandi successi sulla distanza della maratona e adesso, l'alloro più pregiato. Bravo, Eliud.
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Oro nella maratona delle XXXI Olimpiadi |
Guardo quest'atleta, che decide di salutare tutti scattando in faccia agli avversari senza timore alcuno. Guardo questi atleti, che corrono a venti all'ora. A più di venti all'ora. Che fanno parziali di 2'53"/km. Che a due chilometri dalla fine possono vantare ancora una falcata facile, naturale. Dopo penso a me, alle maratone che ho corso io e... si, ciao Stefano, ciao.
martedì 16 agosto 2016
Bogenschießen
Ciao a tutti!
Queste Olimpiadi non stanno esaltando molto i tedeschi, complice un rendimento piuttosto basso di questa spedizione teutonica a Rio de Janeiro. Un medagliere che sta piangendo uno scarso numero di ori e di medaglie, tant'è che per diversi giorni anche l'Italia è stata davanti alla Germania nel medagliere - e tuttora l'Italia ha conquistato più medaglie della Germania. Sarà per questo motivo che i miei colleghi solitamente più interessati agli sport non parlano molto di medaglie e di podi.
Ne ho parlato un po' invece con il mio capo che tedesco non è, essendo indonesiano. Venerdì scorso, infatti si è consumato nel tiro con l'arco una sfida tra un arciere italiano (Mauro Nespoli) ed uno indonesiano (Riau Ega Agatha), vinta proprio dall'italiano. E raccontando la sfida insolita tra un atleta italiano ed uno indonesiano, ho sentito questa parola... Bogenschießen. Questa parola astrusa significa semplicemente: tiro con l'arco. E allora mi sono chiesto: ma come si chiamano gli sport olimpici in tedesco? Non sono mancate le sorprese.
In alcuni casi lo sport è un verbo sostantivato: la scherma si traduce con Fechten (fechten = tirare di scherma), il sollevamento pesi con Gewichtheben (gewichtheben = alzare pesi), la vela con Segeln (segeln = veleggiare). In altri è rappresentato da una categoria, come il nuoto che si traduce con Schwimmsport (schwimmen = nuotare), o la ginnastica artistica con Turnsport (turn = ginnico). Ma il più nome più spettacolare è la traduzione di uno sport che da noi non ha molto seguito, il pentathlon moderno, sport che si compone di cinque prove in altrettanti sport diversi (scherma, equitazione, corsa campestre, tiro a segno e nuoto). In tedesco è conosciuto come Moderner Fünfkampf: si potrebbe tradurre come "i cinque combattimenti moderni". Può far ridere, ma questo spiega quanto il tedesco sia molto più vicino alla tradizione greca e romana di quanto ci si aspetti: àthlon in greco significa proprio lotta. Ma Bogenschießen appare veramente una parola inascoltabile.
Bis bald!
Stefano
Queste Olimpiadi non stanno esaltando molto i tedeschi, complice un rendimento piuttosto basso di questa spedizione teutonica a Rio de Janeiro. Un medagliere che sta piangendo uno scarso numero di ori e di medaglie, tant'è che per diversi giorni anche l'Italia è stata davanti alla Germania nel medagliere - e tuttora l'Italia ha conquistato più medaglie della Germania. Sarà per questo motivo che i miei colleghi solitamente più interessati agli sport non parlano molto di medaglie e di podi.
Ne ho parlato un po' invece con il mio capo che tedesco non è, essendo indonesiano. Venerdì scorso, infatti si è consumato nel tiro con l'arco una sfida tra un arciere italiano (Mauro Nespoli) ed uno indonesiano (Riau Ega Agatha), vinta proprio dall'italiano. E raccontando la sfida insolita tra un atleta italiano ed uno indonesiano, ho sentito questa parola... Bogenschießen. Questa parola astrusa significa semplicemente: tiro con l'arco. E allora mi sono chiesto: ma come si chiamano gli sport olimpici in tedesco? Non sono mancate le sorprese.
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Lisa Unruh, l'unica medagliata tedesca dal tiro con l'arco, argento nella prova individuale (fonte: allkpop.com) |
In alcuni casi lo sport è un verbo sostantivato: la scherma si traduce con Fechten (fechten = tirare di scherma), il sollevamento pesi con Gewichtheben (gewichtheben = alzare pesi), la vela con Segeln (segeln = veleggiare). In altri è rappresentato da una categoria, come il nuoto che si traduce con Schwimmsport (schwimmen = nuotare), o la ginnastica artistica con Turnsport (turn = ginnico). Ma il più nome più spettacolare è la traduzione di uno sport che da noi non ha molto seguito, il pentathlon moderno, sport che si compone di cinque prove in altrettanti sport diversi (scherma, equitazione, corsa campestre, tiro a segno e nuoto). In tedesco è conosciuto come Moderner Fünfkampf: si potrebbe tradurre come "i cinque combattimenti moderni". Può far ridere, ma questo spiega quanto il tedesco sia molto più vicino alla tradizione greca e romana di quanto ci si aspetti: àthlon in greco significa proprio lotta. Ma Bogenschießen appare veramente una parola inascoltabile.
Bis bald!
Stefano
venerdì 15 luglio 2016
Bücher: Ama il tuo nemico
"Dai sobborghi di Città del Capo, Durban, Port Elizabeth e Johannesburg giunsero storie di signore bianche che, abbandonando secoli di pregiudizi e restrizioni, abbracciavano le domestiche nere, ballando con loro nei viali alberati di impeccabili quartieri come Houghton. Per la prima volta i mondi paralleli dell'apartheid si unirono, le due metà divennero una cosa sola, ma in nessun luogo più apertamente che a Johannesburg e a Ellis Park in particolare, dove il carnevale di Rio si sommò alla liberazione di Parigi in un'esplosione di maglie verdi. Un vecchio signore nero in mezzo alla strada sventolava una bandiera sudafricana e gridava: «Il Sudafrica è libero! Gli Springboks ci hanno resi liberi e fieri!»"
John Carlin, Ama il tuo nemico
È più difficile descrivere la grandezza di un libro a partire dallo stile di scrittura, dal modo in cui viene condotta la narrazione, dall'intreccio dei fatti che compongono la trama, oppure a partire dalla storia stessa (tutta vera)? Questo è il mio grande dilemma, giunto alla conclusione de Ama il tuo nemico di John Carlin. Questa mia rilettura di un libro con il quale mi sono già confrontato cinque anni fa nasce dal rientro dal Sudafrica. Fortissimo era il desiderio di rileggere questo testo che racconta una storia di crudeltà, di disumanità, che diventa redenzione e rinascita, umana, politica e sportiva. È la storia del Sudafrica, dell'apartheid e di come lo sport abbia messo la parola fine su decenni di atroce segregazione razziale.
La grandezza de Ama il tuo nemico risiede sicuramente nella storia della seconda metà del XX secolo del Sudafrica, segnata da una macchia che il figlio più illustre di questa terra a provato a rimuovere. Senza armi, senza violenza, solo con la forza delle idee, dei sogni e dell'amore. Tutto ruota ovviamente alla figura di Nelson Mandela, il vero artefice del miracolo sudafricano, e ai mondiali di rugby del 1995, disputatisi proprio in Sudafrica e vinti dagli Springboks, la nazionale sudafricana di rugby, per i neri un simbolo dell'apartheid. Una storia che consiglio di leggere, per conoscere il miracolo non solo sportivo, ma soprattutto politico e sociale che ne conseguì - a meno che abbiate già visto Invictus, il lungometraggio diretto da Clint Eastwood ispirato proprio dal libro di Carlin.
La grandezza della narrazione di Carlin sta nell'aver reso godibile un argomento potenzialmente pesante, per le implicazioni strettamente politiche e per i contenuti forti: l'apartheid è in fondo un sinonimo di violenza, fisica e soprattutto psicologica. Scrittura semplice, scorrevole, pagina dopo pagina. Il taglio è chiaramente giornalistico, ma se le emozioni paiono non trasparire inizialmente dalla penna di Carlin, in Ama il tuo nemico si vive un crescendo di pathos che sfocia inevitabilmente nell'apice dei fatti del giugno del 1995. La bravura di Carlin non si limita allo stile coinvolgente ma si estende alla capacità di inserire alla perfezione storie minori all'interno della trama principale, storie che dipingono perfettamente il quadro pre- e post-apartheid. La storia del rivoluzionario della township diventato avvocato, del teologo afrikaner, del giocatore bianco che sensibilizza gli Springboks, del carceriere affascinato dal carisma di Mandela, dell'avvocato bianco che prende la difesa dei neri, il giornalista che da un giorno all'altro diventa sostenitore di Mandela... Vicende di per sé inutili alla trama, ma fondamentali per contestualizzare il periodo storico.
Mandela + Carlin, il mix che racconta gli anni della risurrezione sudafricana e che spiega, in poco meno di trecento pagine, che "se non si può parlare alle menti, allora si deve parlare ai cuori".
La grandezza della narrazione di Carlin sta nell'aver reso godibile un argomento potenzialmente pesante, per le implicazioni strettamente politiche e per i contenuti forti: l'apartheid è in fondo un sinonimo di violenza, fisica e soprattutto psicologica. Scrittura semplice, scorrevole, pagina dopo pagina. Il taglio è chiaramente giornalistico, ma se le emozioni paiono non trasparire inizialmente dalla penna di Carlin, in Ama il tuo nemico si vive un crescendo di pathos che sfocia inevitabilmente nell'apice dei fatti del giugno del 1995. La bravura di Carlin non si limita allo stile coinvolgente ma si estende alla capacità di inserire alla perfezione storie minori all'interno della trama principale, storie che dipingono perfettamente il quadro pre- e post-apartheid. La storia del rivoluzionario della township diventato avvocato, del teologo afrikaner, del giocatore bianco che sensibilizza gli Springboks, del carceriere affascinato dal carisma di Mandela, dell'avvocato bianco che prende la difesa dei neri, il giornalista che da un giorno all'altro diventa sostenitore di Mandela... Vicende di per sé inutili alla trama, ma fondamentali per contestualizzare il periodo storico.
Mandela + Carlin, il mix che racconta gli anni della risurrezione sudafricana e che spiega, in poco meno di trecento pagine, che "se non si può parlare alle menti, allora si deve parlare ai cuori".
Bis bald!
Stefano
Giudizio: 10/10 ■■■■■■■■■■
Giudizio: 10/10 ■■■■■■■■■■
sabato 9 luglio 2016
9 luglio 2006
"Nel cerchio di centrocampo, prima dei rigori contro la Francia, non volevo vicino nessuno. Sono napoletano, e quindi scaramantico. Il pensiero del momento era uno solo: «Guagliu', statemi lontani». In Francia nel 1998, proprio contro i padroni di casa, ci abbracciavamo, forte, intensamente, e dal dischetto fummo battuti. Non si scherza con i ricorsi storici. Sono stato fermo per quasi tutto il tempo, una statua. Intanto mi si è avvicinato Pirlo. Mi ha persino abbracciato, incurante della possibile sfiga in agguato. “Ecco, ci siamo” è stato il mio primo pensiero. “È finita, abbiamo perso.” Non ho esultato né per i nostri palloni buttati dentro, né per l'errore di David Trezeguet. Fabio Grosso si è alzato e ha cominciato a camminare verso il dischetto. A quel punto, Andrea mi ha quasi sussurrato: «Fabio...». «Dimmi, Andrea.» «Avrei una domanda: se Fabio fa gol, abbiamo vinto il Mondiale?» «Sì, Andrea.» «Ma sei sicuro?» «Sì, Andrea.» Era completamente andato. Non connetteva. Né lui, né io, né gli altri. Abitanti di un'altra dimensione, quasi padroni della Terra, ma allo stesso tempo marziani."
Fabio Cannavaro
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Quattro volte campioni del mondo! (fonte: sportmediaset.mediaset.it) |
domenica 29 maggio 2016
Viva Nibali, viva il Giro!
"Quando diventi campione non puoi più nasconderti. Devi accogliere i favori dei pronostici e vincere un Giro “scontato”, devi correre sotto pressione e sotto i riflettori, devi incassare le critiche se non vai. Quando le attese di una nazione s'avvolgono alle tue gambe, queste si faranno lente e ogni attacco ti sembrerà fatale. Vedrai Dumoulin staccarti in maglia rosa sulle prime salite, vedrai Chaves spingerti nel baratro delle Dolomiti, vedrai Kruijswijk seminarti contro il tempo. E il cielo d'Italia sopra le guglie di roccia si coprirà d'azzurro tenebra.
Concedeteci il merito di non aver sprecato dell'inchiostro per l'epitaffio di Vincenzo Nibali. Nemmeno quando il suo Giro era rimasto appeso a un filo, sull'orlo del ritiro e al netto di un esame clinico. Si cercavano delle cause e molti hanno annaspato nella fretta: dalle pedivelle troppo lunghe per uno scalatore, a un Tour dell'Oman corso (e vinto) solo per impegni promozionali. Vincenzo è in scadenza di contratto, Vincenzo è distratto dal Bahrein, Vincenzo pensa già alle Olimpiadi. Vincenzo è vecchio. Vincenzo non è più quello del Tour.
Vincenzo non ha la forza degli antichi fasti ma sulle Alpi cercherà d'”inventarsi qualcosa”. Sul Colle dell'Agnello però, un altro gancio quando Chaves cambia ritmo in piedi sui pedali.Vincenzo sta crollando... No, Vincenzo sta ribaltando il Giro d'Italia. Primo, perché Vincenzo ha un angelo custode chiamato Michele Scarponi, il signor Cima Coppi, pretoriano della guardia Astana. Secondo, perché Vincenzo ha un cuore grande così.
Nibali fiuta l'aria del Tour de France e stravolge la Corsa Rosa dal suo epicentro transalpino. L'impresa di Risoul è fatta della materia dei sogni, ma sembra il colpo di coda del campione ferito, di un fuoriclasse che, scopertosi umano, ha raschiato il fondo per un trionfo d'autore. Eppure le Alpi sono il Valhalla degli eroi, Sant'Anna di Vinadio è il traguardo della stroria, il Colle della Lombarda è il terreno dell'epica. Consacrato en plein air nel Santuario dei monti marittimi, Nibali è tornato re del Giro con un salto triplo dalle Cime di Lavaredo. Dal senso di Vincenzo per la neve, alla rotta del normale per farsi leggenda. Viva Nibali, lunga vita alla maglia rosa."
Fabio Disingrini, Eurosport, 28 maggio 2016
Concedeteci il merito di non aver sprecato dell'inchiostro per l'epitaffio di Vincenzo Nibali. Nemmeno quando il suo Giro era rimasto appeso a un filo, sull'orlo del ritiro e al netto di un esame clinico. Si cercavano delle cause e molti hanno annaspato nella fretta: dalle pedivelle troppo lunghe per uno scalatore, a un Tour dell'Oman corso (e vinto) solo per impegni promozionali. Vincenzo è in scadenza di contratto, Vincenzo è distratto dal Bahrein, Vincenzo pensa già alle Olimpiadi. Vincenzo è vecchio. Vincenzo non è più quello del Tour.
Vincenzo non ha la forza degli antichi fasti ma sulle Alpi cercherà d'”inventarsi qualcosa”. Sul Colle dell'Agnello però, un altro gancio quando Chaves cambia ritmo in piedi sui pedali.Vincenzo sta crollando... No, Vincenzo sta ribaltando il Giro d'Italia. Primo, perché Vincenzo ha un angelo custode chiamato Michele Scarponi, il signor Cima Coppi, pretoriano della guardia Astana. Secondo, perché Vincenzo ha un cuore grande così.
Nibali fiuta l'aria del Tour de France e stravolge la Corsa Rosa dal suo epicentro transalpino. L'impresa di Risoul è fatta della materia dei sogni, ma sembra il colpo di coda del campione ferito, di un fuoriclasse che, scopertosi umano, ha raschiato il fondo per un trionfo d'autore. Eppure le Alpi sono il Valhalla degli eroi, Sant'Anna di Vinadio è il traguardo della stroria, il Colle della Lombarda è il terreno dell'epica. Consacrato en plein air nel Santuario dei monti marittimi, Nibali è tornato re del Giro con un salto triplo dalle Cime di Lavaredo. Dal senso di Vincenzo per la neve, alla rotta del normale per farsi leggenda. Viva Nibali, lunga vita alla maglia rosa."
Fabio Disingrini, Eurosport, 28 maggio 2016
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Uno squalo in rosa (fonte: lapresse.it) |
Oh, io mi sono sposato questo weekend, ma sono riuscito per qualche minuto ad assistere ad una delle più grandi resurrezioni sportive degli ultimi anni.
Venerdì stavo preparando la macchina per il grande giorno quando mio papà accorre a chiamarmi: "vieni su a vedere, c'è Nibali primo". Sinceramente, chi dava ancora alcune chances di vittoria al corridore siciliano? Sabato ero nel bel mezzo della cerimonia quando spunta tra gli invitati il tablet di Elisa ed uno streaming della diretta del Giro: la tentazione è troppo forte per non buttare l'occhio su ciò che stava succedendo a Sant'Anna di Vinadio. Sinceramente, chi non sperava a quel punto che vincere il Giro poteva essere impresa possibile?
Il miracolo a cui tutti non riuscivano a credere è riuscito. Il talento non si discute, se riesci in qualcosa riuscito solo a gente come Anquetil, Gimondi, Merckx, Hinault e Contador, ossia vincere tutte le grandi corse a tappe. Ma la gamba può non essere quella dei giorni migliori, e quella di Nibali non lo è stata di certo per molto tempo. Se all'Alpe di Siusi prendi due minuti da un semisconosciuto olandese e sul Fai della Paganella ne paghi quasi altrettanti, vuol proprio dire che qualcosa non gira. Chi non lo penserebbe. Poi c'è il colpo di scena. Le ruote della maglia rosa sulla neve, e tutto che si riapre. L'orgoglio e il coraggio a Risoul, l'entusiasmo e la forza sulle rampe del Colle della Lombarda. Quelle ultime centinaia di metri me le ricordo eccome. Nibali è un ossesso sui pedali, lo spinge la visione della maglia rosa, lo spingono migliaia di tifosi a casa, sulla Lombarda e a Sant'Anna di Vinadio, anche quelli occupati da una festa di matrimonio (la mia).
Venerdì stavo preparando la macchina per il grande giorno quando mio papà accorre a chiamarmi: "vieni su a vedere, c'è Nibali primo". Sinceramente, chi dava ancora alcune chances di vittoria al corridore siciliano? Sabato ero nel bel mezzo della cerimonia quando spunta tra gli invitati il tablet di Elisa ed uno streaming della diretta del Giro: la tentazione è troppo forte per non buttare l'occhio su ciò che stava succedendo a Sant'Anna di Vinadio. Sinceramente, chi non sperava a quel punto che vincere il Giro poteva essere impresa possibile?
Il miracolo a cui tutti non riuscivano a credere è riuscito. Il talento non si discute, se riesci in qualcosa riuscito solo a gente come Anquetil, Gimondi, Merckx, Hinault e Contador, ossia vincere tutte le grandi corse a tappe. Ma la gamba può non essere quella dei giorni migliori, e quella di Nibali non lo è stata di certo per molto tempo. Se all'Alpe di Siusi prendi due minuti da un semisconosciuto olandese e sul Fai della Paganella ne paghi quasi altrettanti, vuol proprio dire che qualcosa non gira. Chi non lo penserebbe. Poi c'è il colpo di scena. Le ruote della maglia rosa sulla neve, e tutto che si riapre. L'orgoglio e il coraggio a Risoul, l'entusiasmo e la forza sulle rampe del Colle della Lombarda. Quelle ultime centinaia di metri me le ricordo eccome. Nibali è un ossesso sui pedali, lo spinge la visione della maglia rosa, lo spingono migliaia di tifosi a casa, sulla Lombarda e a Sant'Anna di Vinadio, anche quelli occupati da una festa di matrimonio (la mia).
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La chiave di volta, il trionfo a Risoul (fonte: superscommesse.com) |
E così questa giornata già indimenticabile di suo, diventa ancora più speciale. Racconterò ai miei figli, "mi sono sposato un caldo sabato di maggio, un giorno in cui vidi un miracolo nelle forme di un'araba fenice colorata l'azzurro e di tricolore che desiderava ardentemente vestirsi di rosa".
Bis bald!
Stefano
Bis bald!
Stefano
venerdì 20 maggio 2016
Scricciolo d'oro
“Ho saputo di avere il cancro nel 2009 – racconta Annarita – quando ero al settimo mese di gravidanza di Alberto. Mi sentivo gonfia sotto le ascelle, erano già metastasi. Mi hanno subito operata, pochi giorni dopo il parto mi sono fatta operare anche al seno, da dove è partito tutto”. “È nel mio destino che non mi possa mai rilassare. Mio marito Pietro dice che la mia lotta è ormai diventata un lavoro. Fra esami, controlli e cure e con tre figli da seguire tutto va programmato bene. Si, rilassarmi... Nel 2011 sono stata operata per una recidiva ancora sotto l'ascella e nel settembre 2012 al cervelletto. Ora il fegato.... Ma so che non sono guarita, è rispuntato qualcosa al cervelletto ed ho rifiutato la radioterapia”.
”La forza me la dà la mia famiglia, mio marito Pietro che è medico ed è più preoccupato di me, i miei figli. Sono piccoli, devono crescere, hanno bisogno della mamma”. “Sì – conclude scricciolo – questo me lo ha proprio insegnato lo sport. A non mollare mai, a credere che la sconfitta non è definitiva sino a quando tu non ti arrendi. Ho scoperto lotte più grandi di quando ero atleta, ora ho davanti un avversario che non molla mai, che può ucciderti prima l’anima del corpo. Ma questa battaglia non la vincerà”.
”La forza me la dà la mia famiglia, mio marito Pietro che è medico ed è più preoccupato di me, i miei figli. Sono piccoli, devono crescere, hanno bisogno della mamma”. “Sì – conclude scricciolo – questo me lo ha proprio insegnato lo sport. A non mollare mai, a credere che la sconfitta non è definitiva sino a quando tu non ti arrendi. Ho scoperto lotte più grandi di quando ero atleta, ora ho davanti un avversario che non molla mai, che può ucciderti prima l’anima del corpo. Ma questa battaglia non la vincerà”.
Pierangelo Molinaro, La Gazzetta dello Sport
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Annarita Sidoti nel trionfo europeo di Budapest 1998 |
mercoledì 11 maggio 2016
Rinascite
Domenica scorsa l'atletica leggera italiana ha assistito ad una vera e propria rinascita sportiva. La vera notizia è passata forse in secondo piano: altre discipline catalizzano l'attenzione degli appassionati di sport, ma soprattutto il fatto è stato circondato da un'aura di futili polemiche. Un campione è tornato dopo un lungo calvario. Alex Schwazer, oro olimpico a Pechino 2008 nella 50 km di marcia, è tornato domenica a gareggiare e a vincere, precisamente nella gara che assegna il titolo mondiale di marcia, sempre sulla distanza lunga.
Non può essere una vittoria come tutte le altre, questa. La storia di Schwazer la si conosce: fermato alla vigilia delle Olimpiadi di Londra 2012 per una positività all'EPO, sconta una lunga squalifica (tre anni e mezzo) circondata da feroci attacchi su numerosi fronti, compreso quello di tanti suoi colleghi. Qui finisce il dramma sportivo e inizia quello umano. Ovvio, chi sbaglia deve pagare, ma tre anni di squalifica sono una pena congrua anche se severa. E Schwazer ha pagato. Ora è suo diritto rimettersi in gioco. È suo diritto farlo, e sapendo che sarebbe stato messo sotto attacco, ha trovato la miglior difesa nella persona che lo segue come un'ombra nel programma di redenzione: Sandro Donati, non solo un preparatore atletico ma anche uno dei più strenui paladini della lotta al doping. Quando l'ho saputo, ho subito creduto che Schwazer sarebbe tornato, forte e vincente.
E infatti, Schwazer è ritornato a gareggiare. E ha vinto alla grande.
Ma come era prevedibile, la sua vittoria ha scatenato non più di una polemica. "La sensazione è che abbia vinto ancora una volta uno che bara", dice il campione in carica di Londra 2012, Jared Tallent. Dichiarazioni forti, queste, che vanno ad aggiungersi al coro di illustri atleti ed ex-atleti italiani, come Gianmarco Tamberi, Margherita Granbassi e Valeria Straneo.
Lascio perdere il lato sportivo e voglio considerare solo quello umano. Perché Schwazer non ha il diritto di riprovarci ancora una volta a ripartire e magari a vincere, di chiudere la propria carriera a testa alta, da atleta pulito. Ha pagato a caro prezzo l'errore di quattro anni fa. Oltre alla squalifica, ha perso il diritto di difendere il titolo olimpico, ha perso la credibilità di fronte all'opinione pubblica, è stato abbandonato dal suo gruppo sportivo, dagli sponsor, dai suoi compagni di squadra. Simili colpi possono abbattere un leone (e si è visto in passato, vedi Pantani). Ha pagato a carissimo prezzo il suo errore. Perché non concedergli una seconda chance? Ora ha il sacrosanto diritto di riprovarci e di dimostrare chi è veramente.
Ora è bello rivederlo in gara, visibilmente più invecchiato ma anche più maturo. Ed è ancora più bello sperare che a Rio de Janeiro regali all'Italia un altro oro.
Non può essere una vittoria come tutte le altre, questa. La storia di Schwazer la si conosce: fermato alla vigilia delle Olimpiadi di Londra 2012 per una positività all'EPO, sconta una lunga squalifica (tre anni e mezzo) circondata da feroci attacchi su numerosi fronti, compreso quello di tanti suoi colleghi. Qui finisce il dramma sportivo e inizia quello umano. Ovvio, chi sbaglia deve pagare, ma tre anni di squalifica sono una pena congrua anche se severa. E Schwazer ha pagato. Ora è suo diritto rimettersi in gioco. È suo diritto farlo, e sapendo che sarebbe stato messo sotto attacco, ha trovato la miglior difesa nella persona che lo segue come un'ombra nel programma di redenzione: Sandro Donati, non solo un preparatore atletico ma anche uno dei più strenui paladini della lotta al doping. Quando l'ho saputo, ho subito creduto che Schwazer sarebbe tornato, forte e vincente.
E infatti, Schwazer è ritornato a gareggiare. E ha vinto alla grande.
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Ritorno da vincitore (fonte: corrieredellosport.it) |
Ma come era prevedibile, la sua vittoria ha scatenato non più di una polemica. "La sensazione è che abbia vinto ancora una volta uno che bara", dice il campione in carica di Londra 2012, Jared Tallent. Dichiarazioni forti, queste, che vanno ad aggiungersi al coro di illustri atleti ed ex-atleti italiani, come Gianmarco Tamberi, Margherita Granbassi e Valeria Straneo.
Lascio perdere il lato sportivo e voglio considerare solo quello umano. Perché Schwazer non ha il diritto di riprovarci ancora una volta a ripartire e magari a vincere, di chiudere la propria carriera a testa alta, da atleta pulito. Ha pagato a caro prezzo l'errore di quattro anni fa. Oltre alla squalifica, ha perso il diritto di difendere il titolo olimpico, ha perso la credibilità di fronte all'opinione pubblica, è stato abbandonato dal suo gruppo sportivo, dagli sponsor, dai suoi compagni di squadra. Simili colpi possono abbattere un leone (e si è visto in passato, vedi Pantani). Ha pagato a carissimo prezzo il suo errore. Perché non concedergli una seconda chance? Ora ha il sacrosanto diritto di riprovarci e di dimostrare chi è veramente.
Ora è bello rivederlo in gara, visibilmente più invecchiato ma anche più maturo. Ed è ancora più bello sperare che a Rio de Janeiro regali all'Italia un altro oro.
martedì 3 maggio 2016
Quando le volpi diventano leoni
L'impossibile diventa realtà. Una squadra inglese di provincia, storicamente abituata a lottare nelle zone basse della classifica, si ritrova proiettata in testa, davanti a tutti i colossi multimilionari. Solo un anno fa era ultima, e si era salvata all'ultimo secondo. Una rosa costruita con quattro soldi, guidata da un allenatore italiano che ha sempre fatto bene ovunque egli sia andato, ma ha stampato addosso l'etichetta di perdente di lusso. "Non ce la faranno mai", i bookmaker la quotano 5000 a 1. Ma intanto sono lì, sempre in testa alla classifica, quasi dall'inizio alla fine. La tifoseria si riconosce in un ragazzo di ventotto anni, che fino al 2011 lavorava in fabbrica e che adesso spinge una città verso la conquista di uno dei campionati più importanti d'Europa. Si, il sogno è diventato realtà. Il Leicester City Football Club di Claudio Ranieri è campione d'Inghilterra, e questa incredibile stagione rappresenta la più bella favola calcistica del nuovo secolo e del calcio moderno. Una storia di sport d'altri tempi, per soli cuori romantici.
Il Leicester, va detto, non era e non è una squadra di sprovveduti. Due anni fa, conquista la promozione in Premier League ottenendo il record storico di punti per la Serie B d'Oltremanica. L'anno scorso si salva quasi per miracolo: dall'ultima posizione di fine marzo, il Leicester conquista la permanenza nella massima divisione grazie ad un filotto di ben 22 punti nelle ultime dieci giornate. Una grande prova di carattere, non bisogna negarlo. In estate, uno scandalo dallo sfondo a luci rosse causa un terremoto in società, e a farne le conseguenze è proprio l'allenatore. In fretta e furia viene anche convocato Claudio Ranieri, coach di esperienza e grande conoscitore del calcio inglese: supera rapidamente la selezione e diventa così il nuovo manager del Leicester. Tifosi ed ex del Leicester (tra cui un certo Gary Lineker) sono perplessi a riguardo. Ranieri arriva da una disastrosa esperienza come commissario tecnico della nazionale greca e in Inghilterra ha l'etichetta del perdente di lusso. Le sue squadre giocano bene, tatticamente ben disposte, difficilmente subiscono imbarcate, ma non vincono. Ma chi conosce il gioco del calcio sa anche che nelle esperienze di Chelsea, Juventus, Inter e Roma, Ranieri non ha mai avuto a disposizione una rosa adatta per competere ai massimi livelli. "The Tinkerman", il suo soprannome in Inghilterra, "il Normalizzatore" in Italia. Altra roba rispetto ai vari Special One e Hairdryer.
Una squadra di venticinque giocatori può aver molto da dire sotto l'aspetto tecnico, ma ancora di più da un punto di vista umano. Soprattutto se si analizzano i profili umani dell'undici titolare, incredibilmente schierato in blocco lungo tutto il campionato, al netto di infortuni e squalifiche: Schmeichel-Simpson-Morgan-Huth-Fuchs-Kanté-Drinkwater-Mahrez-Okazaki-Albrighton-Vardy, quasi una filastrocca.
Alcuni di loro stati considerati come scarti, eterne promesse mai fiorite nei top club: come gli inglesi Danny Simpson (nel Manchester United) e Marc Albrighton (nell'Aston Villa), il tedesco Robert Huth (nel Chelsea) e soprattutto un illustre figlio d'arte come il danese Kasper Schmeichel (nel Manchester City). Il loro capitano, Wes Morgan, fu bollato per anni come un ciccione e come un mammone, salvo poi rifarsi per due volte, segnando i gol decisivi nella vittoria contro il Southampton e nel prezioso pareggio all'Old Trafford. Nella rosa del Leicester ci sono uomini che hanno fatto la gavetta nelle serie minori francesi, come N'Golo Kanté e Rihad Mahrez, rispettivamente i polmoni e il fosforo della squadra, gente che fino ad un anno fa poteva solo sognare di calcare i prestigiosi palcoscenici della Premier League.
E poi c'è un giocatore che più di altri incarna lo spirito del Leicester, Jamie Vardy. Un numero 9 in grado di strappare il record di giornate consecutive in rete ad un mostro come Ruud Van Nistelrooy e, successivamente, di esordire in nazionale e segnare il primo goal di tacco, all'Olympiastadion di Berlino, in casa dei tedeschi campioni del mondo. Jamie Vardy, un numero 9 che fino a pochi anni fa era un operaio metalmeccanico in una fabbrica di Sheffield.
Piccola nota: Mahrez e Vardy, insieme, non sono costati più di un paio di milioni di sterline.
La stagione inizia sotto i migliori auspici, sei risultati utili consecutivi fino al pesante tonfo casalingo contro l'Arsenal. Ma il Leicester rimane sempre nei piani alti della classifica. È una squadra messa perfettamente in campo, poco possesso palla ma altrettanti pochi spazi per le avversarie, grande pressing a centrocampo, verticalizzazione ossessiva e ricerca perpetua della profondità, lo schema "lancio lungo di Mahrez per Vardy" è il classico di casa Leicester. La svolta avviene una domenica di fine novembre, quando un punto contro il Manchester City regala la vetta della Premier. Che non mollerà più. Nel mezzo, vittorie esaltanti, come il 2-1 rifilato al Chelsea dell'acerrimo nemico José Mourinho, la vittoria all'ultimo respiro in casa del Tottenham, le lezioni di gioco a due santoni come Klopp e Pellegrini, reti assurde come quella dell'1-0 al Liverpool griffato Vardy. E anche una serie di partite vinte per 1-0, perché il calcio di Ranieri è anche calcio all'italiana, fatto di tanta difesa e grande contropiede. Sempre in vetta, sempre guardando tutti gli altri partecipanti dall'alto.
Alla fine ha vinto Ranieri, il normalizzatore. Ha vinto laddove non sembrava possibile. Ha vinto in Inghilterra, la patria dei bookmaker, gli stessi che concedevano al Leicester le stesse probabilità di Bono Vox di diventare papa. Ha vinto in un campionato in cui la cerchia dei possibili vincitori era più che ristretta, dove le squadre più forti sono ormai multinazionali in mano a sceicchi e russi ricchi sfondati. Ha vinto lui, uomo che non aveva mai vinto un campionato, in una realtà di provincia, dove nessuno in 131 anni di storia aveva vinto prima.
Il calcio è un luogo strano, e la sua storia è scritta da divinità bizzose: Ranieri vince il suo primo campionato a sessantaquattro anni, nella stagione che vede il crollo di un'icona come Mourinho. L'ultimo punto conquistato all'Old Trafford, la certezza matematica regalata dal Chelsea, la sua ex-squadra.
C'è un segreto dietro a questa vittoria? I giornalisti impazziscono con le storielle come quelle della pizza dopo il primo clean sheet, il dilliding dillidong della campanella motivazionale, la settimana di vacanza. Ma queste sono le solite curiosità del caso. Il vero segreto (secondo me) è nella bravura di Ranieri: sicuramente sul piano tattico, ma ancora di più sul piano umano. Ranieri ha dato a giocatori sconosciuti e a giocatori considerati finiti, non all'altezza del ruolo, la fame di vittoria, la voglia di correre quel metro in più che nel calcio a volte può voler dire vita o morte, la speranza di raggiungere l'impensabile. Passo dopo passo, insieme, divertendosi. Grazie Claudio Ranieri, grazie Leicester.
"I want to enjoy because life is very short. Come on man, enjoys everybody, loves everybody."
Claudio Ranieri
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Due dei personaggi chiave del miracolo Leicester, Claudio Ranieri e Jamie Vardy (fonte: indipendent.co.uk) |
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È il capitano Wes Morgan a siglare la rete che consegna l'ultimo punto decisivo alle Foxes (fonte: kicker.de) |
Una squadra di venticinque giocatori può aver molto da dire sotto l'aspetto tecnico, ma ancora di più da un punto di vista umano. Soprattutto se si analizzano i profili umani dell'undici titolare, incredibilmente schierato in blocco lungo tutto il campionato, al netto di infortuni e squalifiche: Schmeichel-Simpson-Morgan-Huth-Fuchs-Kanté-Drinkwater-Mahrez-Okazaki-Albrighton-Vardy, quasi una filastrocca.
Alcuni di loro stati considerati come scarti, eterne promesse mai fiorite nei top club: come gli inglesi Danny Simpson (nel Manchester United) e Marc Albrighton (nell'Aston Villa), il tedesco Robert Huth (nel Chelsea) e soprattutto un illustre figlio d'arte come il danese Kasper Schmeichel (nel Manchester City). Il loro capitano, Wes Morgan, fu bollato per anni come un ciccione e come un mammone, salvo poi rifarsi per due volte, segnando i gol decisivi nella vittoria contro il Southampton e nel prezioso pareggio all'Old Trafford. Nella rosa del Leicester ci sono uomini che hanno fatto la gavetta nelle serie minori francesi, come N'Golo Kanté e Rihad Mahrez, rispettivamente i polmoni e il fosforo della squadra, gente che fino ad un anno fa poteva solo sognare di calcare i prestigiosi palcoscenici della Premier League.
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Rihad Mahrez esulta davanti alla tifoseria del Leicester (fonte: calcio.fanpage.it) |
E poi c'è un giocatore che più di altri incarna lo spirito del Leicester, Jamie Vardy. Un numero 9 in grado di strappare il record di giornate consecutive in rete ad un mostro come Ruud Van Nistelrooy e, successivamente, di esordire in nazionale e segnare il primo goal di tacco, all'Olympiastadion di Berlino, in casa dei tedeschi campioni del mondo. Jamie Vardy, un numero 9 che fino a pochi anni fa era un operaio metalmeccanico in una fabbrica di Sheffield.
Piccola nota: Mahrez e Vardy, insieme, non sono costati più di un paio di milioni di sterline.
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Mahrez e Vardy, i gemelli del goal di Leicester (fonte: thesun.co.uk) |
La stagione inizia sotto i migliori auspici, sei risultati utili consecutivi fino al pesante tonfo casalingo contro l'Arsenal. Ma il Leicester rimane sempre nei piani alti della classifica. È una squadra messa perfettamente in campo, poco possesso palla ma altrettanti pochi spazi per le avversarie, grande pressing a centrocampo, verticalizzazione ossessiva e ricerca perpetua della profondità, lo schema "lancio lungo di Mahrez per Vardy" è il classico di casa Leicester. La svolta avviene una domenica di fine novembre, quando un punto contro il Manchester City regala la vetta della Premier. Che non mollerà più. Nel mezzo, vittorie esaltanti, come il 2-1 rifilato al Chelsea dell'acerrimo nemico José Mourinho, la vittoria all'ultimo respiro in casa del Tottenham, le lezioni di gioco a due santoni come Klopp e Pellegrini, reti assurde come quella dell'1-0 al Liverpool griffato Vardy. E anche una serie di partite vinte per 1-0, perché il calcio di Ranieri è anche calcio all'italiana, fatto di tanta difesa e grande contropiede. Sempre in vetta, sempre guardando tutti gli altri partecipanti dall'alto.
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Il missile terra-aria spedito da Vardy nella porta del Liverpool (fonte: theguardian.com) |
Alla fine ha vinto Ranieri, il normalizzatore. Ha vinto laddove non sembrava possibile. Ha vinto in Inghilterra, la patria dei bookmaker, gli stessi che concedevano al Leicester le stesse probabilità di Bono Vox di diventare papa. Ha vinto in un campionato in cui la cerchia dei possibili vincitori era più che ristretta, dove le squadre più forti sono ormai multinazionali in mano a sceicchi e russi ricchi sfondati. Ha vinto lui, uomo che non aveva mai vinto un campionato, in una realtà di provincia, dove nessuno in 131 anni di storia aveva vinto prima.
Il calcio è un luogo strano, e la sua storia è scritta da divinità bizzose: Ranieri vince il suo primo campionato a sessantaquattro anni, nella stagione che vede il crollo di un'icona come Mourinho. L'ultimo punto conquistato all'Old Trafford, la certezza matematica regalata dal Chelsea, la sua ex-squadra.
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Courtois non può che vedere la palla entrare in porta... (fonte: goal.com) |
C'è un segreto dietro a questa vittoria? I giornalisti impazziscono con le storielle come quelle della pizza dopo il primo clean sheet, il dilliding dillidong della campanella motivazionale, la settimana di vacanza. Ma queste sono le solite curiosità del caso. Il vero segreto (secondo me) è nella bravura di Ranieri: sicuramente sul piano tattico, ma ancora di più sul piano umano. Ranieri ha dato a giocatori sconosciuti e a giocatori considerati finiti, non all'altezza del ruolo, la fame di vittoria, la voglia di correre quel metro in più che nel calcio a volte può voler dire vita o morte, la speranza di raggiungere l'impensabile. Passo dopo passo, insieme, divertendosi. Grazie Claudio Ranieri, grazie Leicester.
"I want to enjoy because life is very short. Come on man, enjoys everybody, loves everybody."
Claudio Ranieri
mercoledì 27 aprile 2016
Bücher: Campionissimi
"Arrivati all'ultimo chilometro, al triangolo rosso che annuncia la fine della corsa, ci accorgiamo di quanta sofferenza ci sia nella vita dei corridori. E di quanti, tra loro, abbiano lo sguardo triste. Non è solo la durezza delle salite o delle pietre sotto le ruote, a volte è una specie di maledizione, o di malasorte [...] Perché il ciclismo è magnifico e spietato, gonfio di sogni e improvvisi risvegli. Mostra la bellezza del dolore su una bicicletta dove tutti, da bambini, siamo stati felici."
Ciao a tutti!
Pochi altri sport come il ciclismo sono in grado di fornire storie. Tutte diverse, l'una dall'altra. Se il calcio non può limitarsi alla semplice e pura esaltazione del singolo in quanto sport di squadra, il ciclismo può andare molto più in profondità, scavando nei sentimenti umani di questi atleti, da soli in sella ad una bicicletta, con la loro fatica e il loro dolore. I quali, talvolta, vanno a legarsi con qualcosa di ancora più grande, il sentimento popolare. E allora queste storie diventano leggenda.
Stefano
Giudizio: 9/10 ■■■■■■■■■■
Maurizio Crosetti, Campionissimi
Ciao a tutti!
Pochi altri sport come il ciclismo sono in grado di fornire storie. Tutte diverse, l'una dall'altra. Se il calcio non può limitarsi alla semplice e pura esaltazione del singolo in quanto sport di squadra, il ciclismo può andare molto più in profondità, scavando nei sentimenti umani di questi atleti, da soli in sella ad una bicicletta, con la loro fatica e il loro dolore. I quali, talvolta, vanno a legarsi con qualcosa di ancora più grande, il sentimento popolare. E allora queste storie diventano leggenda.
Le storie che Maurizio Crosetti racconta in Campionissimi sono sicuramente leggenda. Perché leggende sono le imprese dei trenta ciclisti che Crosetti ha voluto inserire in questo volume, che ripercorre la grande storia del ciclismo dagli albori delle prime pionieristiche stagioni del ciclismo di Binda e Girardengo fino alle storie più recenti di fuoriclasse come Indurain e Pantani. Passando naturalmente per l'epopea di Coppi e Bartali e gli anni di Merckx e Gimondi. Campionissimi racconta le gesta dei più grandi, romanzi scritti nei tormenti delle più dure salite del Giro d'Italia o nel brevissimo istante della volata, sulle dure pietre delle classiche del Nord o nelle strategie tattiche di una corsa crudele come il Mondiale. Storie che di grande intensità, che raccontano il ciclismo in tutta la sua "ferocia".
Perché nelle ore trascorse davanti alla televisione nell'attesa che la corsa emetta il proprio responso, ma anche dal vivo, nella lunga attesa e poi nel veloce passaggio dei corridori, c'è qualcosa che sempre sfugge. Dietro la maschera di fatica del corridore, c'è un'anima, un carattere, c'è una guerra interiore che da fuori non si può comprendere pienamente. La tristezza di Ocaña, le frustrazioni di Gimondi, l'astuzia di Magni, la rabbia di Bettini, tanto per citare alcuni esempi tra i più personalmente apprezzati. Questo libro va oltre l'atleta e il grande gesto sportivo, semplicemente condensa in poco più di duecento pagine cento anni di battaglie per il primo posto al traguardo con le battaglie personali dei ciclisti, uomini prima di tutto.
Bis bald!Stefano
Giudizio: 9/10 ■■■■■■■■■■
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mercoledì 3 febbraio 2016
L'altra nazionale
Ciao a tutti!
Ciò che si può scoprire in un paese straniero sembra non avere mai fine. Sapevo che in Germania c'è una cultura sportiva decisamente più radicata che in Italia (vedi post). Ricordavo anche, come insegnano le Olimpiadi, sia quelle invernali ma soprattutto quelle estive, che la tradizione sportiva è decisamente più varia (i tedeschi sono forti in tantissime discipline). Non sapevo che lo fosse al punto tale che uno sport divertente ma senza l'appeal di calcio o pallacanestro, come la pallamano, potesse elevarsi allo status di "quasi sport nazionale".
Questo è ciò che è successo sostanzialmente in questi ultimi giorni, grazie al trionfo della Mannschaft tedesca nel Campionato Europeo tenutosi in Polonia, dove la nazionale tedesca ha dominato dall'inizio alla fine, fino all'atto conclusivo contro la Spagna. Ho letto di alcune imprese del portiere Andreas Wolff, ribattezzato il "Neuer della pallamano". Ma la storia della pallamano tedesca ha origini molto lontane, addirittura risalenti ad un secolo fa. Si può praticamente affermare che la pallamano, questo sport coinvolgente che pesca regole sia dal calcio che dal basket (ma puntando forte sulla dinamicità e molto meno sulla tattica), sia nato proprio in Germania. Merito di due pionieri berlinesi, il professore di educazione fisica Max Heiser, che ne favorì la diffusione nella capitale, e Carl Schelenz, che scrisse le regole per la versione più antica, quella a 11 e praticata all'aperto, come nel calcio. Nata dunque a Berlino, la pallamano in Germania è proprio una prerogativa delle regioni più settentrionali: tra le squadre che possono vantare più titoli ci sono alcune grandi città come Kiel (20 vittorie), Amburgo (5), Magdeburgo (12), Lipsia (9), Rostock (7) e la stessa Berlino (9).
La pallamano si diffonde soprattutto nei paesi nordici, quindi entra in voga una versione a 7 e indoor, proprio come quella dei giorni nostri. Essa diventa sport olimpico proprio in un'edizione tedesca dei Giochi, a Monaco 1972. Ma la musica non cambia. In undici o in sette, i tedeschi, da padri naturali di questo sport, dettano sempre legge.
Bis bald!
Stefano
Ciò che si può scoprire in un paese straniero sembra non avere mai fine. Sapevo che in Germania c'è una cultura sportiva decisamente più radicata che in Italia (vedi post). Ricordavo anche, come insegnano le Olimpiadi, sia quelle invernali ma soprattutto quelle estive, che la tradizione sportiva è decisamente più varia (i tedeschi sono forti in tantissime discipline). Non sapevo che lo fosse al punto tale che uno sport divertente ma senza l'appeal di calcio o pallacanestro, come la pallamano, potesse elevarsi allo status di "quasi sport nazionale".
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I tedeschi di pallamano in azione durante il Campionato Europeo appena concluso in Polonia (fonte: sport4final.de) |
Questo è ciò che è successo sostanzialmente in questi ultimi giorni, grazie al trionfo della Mannschaft tedesca nel Campionato Europeo tenutosi in Polonia, dove la nazionale tedesca ha dominato dall'inizio alla fine, fino all'atto conclusivo contro la Spagna. Ho letto di alcune imprese del portiere Andreas Wolff, ribattezzato il "Neuer della pallamano". Ma la storia della pallamano tedesca ha origini molto lontane, addirittura risalenti ad un secolo fa. Si può praticamente affermare che la pallamano, questo sport coinvolgente che pesca regole sia dal calcio che dal basket (ma puntando forte sulla dinamicità e molto meno sulla tattica), sia nato proprio in Germania. Merito di due pionieri berlinesi, il professore di educazione fisica Max Heiser, che ne favorì la diffusione nella capitale, e Carl Schelenz, che scrisse le regole per la versione più antica, quella a 11 e praticata all'aperto, come nel calcio. Nata dunque a Berlino, la pallamano in Germania è proprio una prerogativa delle regioni più settentrionali: tra le squadre che possono vantare più titoli ci sono alcune grandi città come Kiel (20 vittorie), Amburgo (5), Magdeburgo (12), Lipsia (9), Rostock (7) e la stessa Berlino (9).
La pallamano si diffonde soprattutto nei paesi nordici, quindi entra in voga una versione a 7 e indoor, proprio come quella dei giorni nostri. Essa diventa sport olimpico proprio in un'edizione tedesca dei Giochi, a Monaco 1972. Ma la musica non cambia. In undici o in sette, i tedeschi, da padri naturali di questo sport, dettano sempre legge.
Bis bald!
Stefano
lunedì 28 dicembre 2015
Maestri che vanno, miti che restano
Il trittico del Natale di quest'anno se ne è andato, e nel silenzio si è portato via un grande uomo di sport, vero e proprio mentore di campioni. Giovedì 24 dicembre è morto Carlo Vittori. Questo nome a molti non dirà molto. Ma chi si interessa di sport e atletica leggera lo conoscerà come lo storico allenatore di Pietro Mennea. Colui che vide nel fisico gracile di un ragazzotto pugliese la potenzialità per diventare un dominatore della pista e della corsa di velocità, al pari dei giganti dell'Unione Sovietica e dei mostri di oltreoceano. L'artefice del record del mondo sui 200 metri piani e dell'oro olimpico di Mosca 1980 fu proprio questo maestro marchigiano che fece della schiettezza e dell'onestà i cardini della sua carriera da atleta prima e da allenatore dopo. Uno di quei personaggi che non poteva che fare del bene a tutto il panorama sportivo italiano. Soprattutto ora, in un'atletica leggera sconquassata da scandali per doping e dalla credibilità ai minimi storici, uno come Vittori avrebbe fatto molto comodo...
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Vittori e Mennea in allenamento (fonte: lastampa.it) |
"Se ne è andato nel sonno, alla vigilia di Natale, a 84 anni ben portati, colmi di una vis polemica che lo ha sempre tenuto destissimo: non uscivano i giornali, la notizia è stata data in tv, alla radio e sul web scarna e accoppiata al suo allievo più famoso, Pietro da Barletta. Sabato c'è stato il funerale, in una chiesa ascolana piena di compaesani, colleghi, ex atleti che gli hanno riempito la vita e se ne sono visti rimeritati invece che come atleti e basta, come persone. Ieri l'Ascoli ha giocato la domenica natalizia di B con il lutto al braccio, e ha vinto. Porta bene anche alla memoria… E pensare che Carlo Vittori è stata una figura italiana assai importante, certamente oltre le sue prestazioni da sprinter dei primi anni'50 con partecipazione olimpica, a Helsinki, e da tecnico per tutto il periodo successivo, con la fama internazionale dagli anni '70 ai '90, come mentore di Mennea, curatore del record mondiale di Marcello Fiasconaro, faber della carriera di molti velocisti di primo livello quando in questo Paese esisteva ancora l'atletica. Tanto importante da lasciare in coloro che lo hanno conosciuto bene un'impronta da vero Maestro, quelli per capirci che da un pezzo latitano quaggiù, da noi, e che sono decisivi in ogni settore della vita per la trasmissione del sapere, sia individuale che sociale. [...] Con la semplificazione ignorante dell'idea di sport ho incrociato professionalmente i guantoni negli ultimi quarant'anni. Una volta, quando ne scrivevo o tentavo di scriverne sulla prima Repubblica, Scalfari il supremo mi obiettò: "Ma che cosa intendi per cultura sportiva, eh? Che dovrei mettermi a fare ginnastica?". Gli avrebbe magari fatto bene, ma non era certamente quello il punto. Il punto è proprio Vittori, e i Maestri (pochi, sempre meno, oggi all'apparenza praticamente introvabili) che hanno lasciato un segno nelle varie contrade dell'esistenza. Carlo aveva il concetto preciso e centrifugo dello sport come salute interiore ed esteriore per una società migliore, più rispettosa del corpo nel dubbio che esista un'anima. Dello sport come scuola di vita, della scuola che contenesse lo sport. Dell'educazione che deve discendere da entrambi. E dell'atletica leggera che è la disciplina più naturale del mondo ed è alla base di qualunque sport o gioco che sia. Se corri, salti, lanci sei per forza di diritto in ogni fase storica dell'uomo. [...] Oggi sono proprio i Maestri che mancano ai giovani, atleti o no che siano. Tutto questo ha espresso con la sua personalità all'apparenza sempre urticante, in realtà profondamente attenta all'altro l'uomo di Ascoli, che ha girato il mondo onorato dalle scuole di atletica più rinomate rimanendo l'uomo di Ascoli, nient'affatto rozzo e invece finissimo conoscitore di individui. Il paradosso è che quindi Mennea è stato solo il titolo più cubitale di un lungo percorso di conoscenza, in cui il successo e il denaro (che cominciava a dilagare) sono stati posti a latere, perché non intralciassero il senso dell'impresa. Sono arrivati, certo, ma dopo… E le battaglie di Vittori contro l'establishment dei Nebiolo, il doping, recentemente lo sfascio dell'atletica leggera mentre si straparla con il solito metodo arraffone di Olimpiadi a Roma, insomma il potere che ignora e fa danni, sono state instancabili per tutta la vita. Andrebbe quindi sollevato in alto soprattutto per questo, per ciò che ha rappresentato anche come esempio e non tanto o solo per i risultati. [...]"
Oliviero Beha, Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2015
domenica 8 novembre 2015
Valentino, l'Italia è con te
"Vorrei vedere Valentino che va in pista e onora la sua stagione con la miglior gara possibile. Che senza neanche bisogno di dirlo, mostra di aver compreso l'ennesima lezione di vita e di averne fatto tesoro. Vorrei vedere un Valentino che va a Valencia e fa tutto il possibile per far riemergere la sua bellissima annata, perché sono profondamente convinto che tutti i piloti che corrono al Motomondiale siano lontani dall'aver dimostrato quello che Valentino invece ha dimostrato. Si può essere pro o contro di lui, può risultare simpatico o antipatico, ma la sua stagione è stata meravigliosa."
"Valentino ha 36 anni ed è un grande campione, indipendentemente se vincerà oppure no questo Motomondiale. È un grande campione che merita il rispetto di tutti noi, perché ha fatto delle cose che pochi sono in grado di ripetere a livello sportivo. E le ha fatte in particolare nel corso dell'ultima stagione, che secondo me è stata stupenda. Viviamo in un mondo in cui davvero, come diceva Nelson Mandela, c'è grande bisogno di ispirazione. E la stagione di Valentino è stata bellissima."
"Valentino è l'ultimo dei grandi eroi dello sport. Con l'interesse che è riuscito a calamitare sulla MotoGp, da solo, paga metà dello stipendio a tutti gli altri, non so se è chiaro. Non si tratta affatto di una scusante, ma l'essere umano è vulnerabile e imperfetto per natura. In questa circostanza, mi sembra che tanti ragazzi che dovrebbero mordersi la lingua si siano sentiti invece non solo autorizzati, ma addirittura in dovere di esprimere un'opinione solo per andargli addosso."
"Valentino ha 36 anni ed è un grande campione, indipendentemente se vincerà oppure no questo Motomondiale. È un grande campione che merita il rispetto di tutti noi, perché ha fatto delle cose che pochi sono in grado di ripetere a livello sportivo. E le ha fatte in particolare nel corso dell'ultima stagione, che secondo me è stata stupenda. Viviamo in un mondo in cui davvero, come diceva Nelson Mandela, c'è grande bisogno di ispirazione. E la stagione di Valentino è stata bellissima."
"Valentino è l'ultimo dei grandi eroi dello sport. Con l'interesse che è riuscito a calamitare sulla MotoGp, da solo, paga metà dello stipendio a tutti gli altri, non so se è chiaro. Non si tratta affatto di una scusante, ma l'essere umano è vulnerabile e imperfetto per natura. In questa circostanza, mi sembra che tanti ragazzi che dovrebbero mordersi la lingua si siano sentiti invece non solo autorizzati, ma addirittura in dovere di esprimere un'opinione solo per andargli addosso."
Alex Zanardi, da un'intervista a Lettera 43
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Ogni riferimento è puramente casuale (fonte: facebook.com/Vale46Official) |
martedì 3 novembre 2015
Date alla Germania quel che è della Germania
Il web è sempre un'ottima fonte di ispirazione per i miei post e anche questa volta non ha tradito. La rete globale, d'altronde, è frequentata da personaggi molto variegati. Alcuni di questi, purtroppo, sono ignoranti, pubblicano e diffondono notizie a caso. Loro, e i loro seguaci, non meno ignoranti, sono anche persone che hanno diritto di voto.
Qualche giorno fa, mi sono imbattuto nella prima immagine di questo post; immagino risalga a luglio 2015, mese durante il quale è imperversato il dibattito sulla crisi greca e sulla possibile uscita della Grecia dall'Unione Europea o dall'area euro. Beh, questa fu pubblicata su una pagina Facebook che allo stato attuale ha poco più di 400.000 like (quattrocentomila!!!), mentre la suddetta immagine conta circa 18.000 gradimenti. Ma porca p*****a, ma come c***o si fa a pubblicare e a credere a certe cose??? Ok, i tedeschi storicamente non sono un popolo simpatico. I tedeschi sono quelli brutti e cattivi, i tedeschi che fanno guidare gli aerei dai malati mentali (il caso Germanwings), i tedeschi sono quelli che affamano l'Europa, i tedeschi sono quelli che inquinano il mondo con i gas di scarico (lo scandalo Volkswagen). Ma rappresentare il popolo tedesco come un branco di capre ignoranti mi pare un tantino illogico. Se qualcuno pensa che nella letteratura, nella scienza, nello sport, nella cultura, nella filosofia, nell'astronomia (e non astrologia, scemi!), nella matematica, nella geometria, nell'arte e nella democrazia i tedeschi non abbiano lasciato traccia, costoro si sbagliano di grosso. Vediamo un po' perché.
Letteratura: si, effettivamente i dati parlano chiaro. Se in Italia non si leggono libri, certamente si è legittimati ad ignorare l'esistenza di personaggi che la letteratura l'hanno scritta ed influenzata. Di gente come Goethe, Mann, Grass, Hesse e Boll, tanto per fare qualche esempio, se ne è mai sentito parlare da qualche parte?
Scienza: qui c'è proprio da divertirsi. Quali contributi potrà mai aver dato alla scienza la Germania, una nazione che in 115 anni di storia del Premio Nobel annovera ben venticinque vincitori del premio per la fisica, trentacinque vincitori del premio per la chimica e ventiquattro vincitori del premio per la medicina? Tralasciando i numeri, è in buona parte grazie agli scienziati tedeschi che sono state possibili le rivoluzioni scientifiche del primo Novecento (meccanica quantistica e relatività), che influenzano tuttora la nostra tecnologia - anche il computer o lo smartphone dal quale leggete queste righe. Planck, Schrödinger, Einstein, Born, Heisenberg, Hertz sono solo alcuni dei nomi che hanno aiutato l'umanità a conoscere il mondo così come lo conosciamo oggi.
Sport: in oltre un secolo di storia di Giochi Olimpici, la Germania ha totalizzato la bellezza di 920 medaglie olimpiche (di cui 288 d'oro), secondi solo alle superpotenze USA e Russia. Poi va beh, nel calcio sono i campioni del mondo in carica, nonché vincitori di altre tre edizioni. Leader incontrastati in buona parte delle discipline invernali e da sempre creatori di fenomeni: non sono fenomeni due piloti come Schumacher e Vettel? Senza dimenticare Franziska van Almsick nel nuoto, Dirk Nowitzki nel basket, Boris Becker e Steffi Graf nel tennis.
Cultura: qualcuno si ricorda di Gutenberg? Un nome si dovrebbe imparare a conoscere già alle elementari. Era tedesco e fu l'inventore della stampa, lo strumento con il quale si è passati dagli amanuensi alla diffusione di massa della cultura. Ah, dimenticavo, un italiano su due non legge nemmeno un libro all'anno, quindi effettivamente l'invenzione della stampa non è molto rilevante (per il popolo italiano). Sotto la voce cultura ricordo inoltre che gente come Kant, Schopenhauer e Nietzsche venivano dalla Germania. Nometti così, a caso.
Astrologia. Il termine corretto sarebbe astronomia, ma non voglio infierire su quelli che credono che lo studio dello spazio abbia a che fare con gli oroscopi. Sempre attingendo dagli studi delle scuole medie, mi ricordo che talvolta veniva citato un certo Giovanni Keplero. Questo è in realtà il nome "italianizzato" di Johannes von Kepler, l'astronomo (nato a due passi da Stoccarda) che con le omonime leggi che spiegano il moto dei pianeti. Per chi volesse affermare che "si, ma questo era il Cinquecento" allora cito Max Wolf, uno che nella sua vita ha scoperto circa due duecento asteroidi, ha sviluppato tecniche fotografiche per l'astronomia e ha proposto ad un certo Carl Zeiss l'invenzione del planetario moderno.
Matematica e geometria. Senza nulla togliere a Pitagora ed Euclide, in Germania lo sviluppo della matematica, disciplina con la quale si spiega il mondo, ha reso possibile il progredire delle conoscenze scientifiche. Penso soprattutto a Gauss e a Riemann, ma anche a Jacobi, Cantor, Möbius e Hilbert. Gente a caso.
Arte. Qui potrebbe venirmi in soccorso la mia futura moglie, ma voglio provare da solo a spiegare che, se Dürer e Friedrich sono state delle meteore nel panorama artistico dei loro tempi (Rinascimento e Romanticismo), Gropius e il Bauhaus hanno avuto un'influenza di proporzioni incalcolabili sull'architettura e sul design del Novecento. Il panorama artistico è anche cinema: e allora come dimenticare che la Germania ha dato i natali a gente come Beethoven, Bach, Händel, Wagner, Schumann, Mendelssohn, Brahms, Strauss.
Democrazia. Certo, il concetto stesso di democrazia nasce nell'antica Grecia. Ma guardando cosa succede oggi, secondo il cosiddetto "indice di democrazia" calcolato dal settimanale The Economist, la Germania è una democrazia completa e si piazza alla tredicesima posizione su 167 paesi valutati. L'Italia è in posizione n.29, la Grecia in posizione n.41 ed entrambe sono considerate "democrazie imperfette".
Dopo questa infinita carrellata di informazioni, non voglio convincere nessuno che la Germania sia meglio della Grecia, dell'Italia o di chissà quale altra nazione. Voglio semplicemente affermare che certe prese di posizione populiste verso alcune popolazioni, soprattutto se europee, sono assolutamente stupide e fuori luogo, ancor più se prive di fondamento, come in questo caso. Ogni nazione ha avuto/ha le proprie eccellenze. La Grecia ha dato molto all'umanità, ma la Germania ha dato anch'essa tantissimo. Ridurre la storia delle nazioni ai soli fatti negativi di decenni e secoli fa non è onesto. Non è giusto.
Bis bald!
Stefano
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Quanta disinformazione... |
Qualche giorno fa, mi sono imbattuto nella prima immagine di questo post; immagino risalga a luglio 2015, mese durante il quale è imperversato il dibattito sulla crisi greca e sulla possibile uscita della Grecia dall'Unione Europea o dall'area euro. Beh, questa fu pubblicata su una pagina Facebook che allo stato attuale ha poco più di 400.000 like (quattrocentomila!!!), mentre la suddetta immagine conta circa 18.000 gradimenti. Ma porca p*****a, ma come c***o si fa a pubblicare e a credere a certe cose??? Ok, i tedeschi storicamente non sono un popolo simpatico. I tedeschi sono quelli brutti e cattivi, i tedeschi che fanno guidare gli aerei dai malati mentali (il caso Germanwings), i tedeschi sono quelli che affamano l'Europa, i tedeschi sono quelli che inquinano il mondo con i gas di scarico (lo scandalo Volkswagen). Ma rappresentare il popolo tedesco come un branco di capre ignoranti mi pare un tantino illogico. Se qualcuno pensa che nella letteratura, nella scienza, nello sport, nella cultura, nella filosofia, nell'astronomia (e non astrologia, scemi!), nella matematica, nella geometria, nell'arte e nella democrazia i tedeschi non abbiano lasciato traccia, costoro si sbagliano di grosso. Vediamo un po' perché.
La Germania ringrazia Goethe e Schiller a Weimar. Foto di archivio, 6 giugno 2015. |
Letteratura: si, effettivamente i dati parlano chiaro. Se in Italia non si leggono libri, certamente si è legittimati ad ignorare l'esistenza di personaggi che la letteratura l'hanno scritta ed influenzata. Di gente come Goethe, Mann, Grass, Hesse e Boll, tanto per fare qualche esempio, se ne è mai sentito parlare da qualche parte?
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Einstein e la sua famosa formula (fonte: likesuccess.com) |
Scienza: qui c'è proprio da divertirsi. Quali contributi potrà mai aver dato alla scienza la Germania, una nazione che in 115 anni di storia del Premio Nobel annovera ben venticinque vincitori del premio per la fisica, trentacinque vincitori del premio per la chimica e ventiquattro vincitori del premio per la medicina? Tralasciando i numeri, è in buona parte grazie agli scienziati tedeschi che sono state possibili le rivoluzioni scientifiche del primo Novecento (meccanica quantistica e relatività), che influenzano tuttora la nostra tecnologia - anche il computer o lo smartphone dal quale leggete queste righe. Planck, Schrödinger, Einstein, Born, Heisenberg, Hertz sono solo alcuni dei nomi che hanno aiutato l'umanità a conoscere il mondo così come lo conosciamo oggi.
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La rete di Mario Götze che regalerà alla Germania il suo quarto Mondiale di calcio (fonte: mondopallone.it) |
Sport: in oltre un secolo di storia di Giochi Olimpici, la Germania ha totalizzato la bellezza di 920 medaglie olimpiche (di cui 288 d'oro), secondi solo alle superpotenze USA e Russia. Poi va beh, nel calcio sono i campioni del mondo in carica, nonché vincitori di altre tre edizioni. Leader incontrastati in buona parte delle discipline invernali e da sempre creatori di fenomeni: non sono fenomeni due piloti come Schumacher e Vettel? Senza dimenticare Franziska van Almsick nel nuoto, Dirk Nowitzki nel basket, Boris Becker e Steffi Graf nel tennis.
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Numero 1: Michael Schumacher al volante della Ferrari (fonte: otozhaf.com) |
Cultura: qualcuno si ricorda di Gutenberg? Un nome si dovrebbe imparare a conoscere già alle elementari. Era tedesco e fu l'inventore della stampa, lo strumento con il quale si è passati dagli amanuensi alla diffusione di massa della cultura. Ah, dimenticavo, un italiano su due non legge nemmeno un libro all'anno, quindi effettivamente l'invenzione della stampa non è molto rilevante (per il popolo italiano). Sotto la voce cultura ricordo inoltre che gente come Kant, Schopenhauer e Nietzsche venivano dalla Germania. Nometti così, a caso.
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Stampatori al lavoro (fonte: gutenbergsapprentice.com) |
Astrologia. Il termine corretto sarebbe astronomia, ma non voglio infierire su quelli che credono che lo studio dello spazio abbia a che fare con gli oroscopi. Sempre attingendo dagli studi delle scuole medie, mi ricordo che talvolta veniva citato un certo Giovanni Keplero. Questo è in realtà il nome "italianizzato" di Johannes von Kepler, l'astronomo (nato a due passi da Stoccarda) che con le omonime leggi che spiegano il moto dei pianeti. Per chi volesse affermare che "si, ma questo era il Cinquecento" allora cito Max Wolf, uno che nella sua vita ha scoperto circa due duecento asteroidi, ha sviluppato tecniche fotografiche per l'astronomia e ha proposto ad un certo Carl Zeiss l'invenzione del planetario moderno.
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Anche le orbite dei pianeti sono una scoperta teutonica (fonte: argomentidifisica.wordpress.com) |
Matematica e geometria. Senza nulla togliere a Pitagora ed Euclide, in Germania lo sviluppo della matematica, disciplina con la quale si spiega il mondo, ha reso possibile il progredire delle conoscenze scientifiche. Penso soprattutto a Gauss e a Riemann, ma anche a Jacobi, Cantor, Möbius e Hilbert. Gente a caso.
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Gauss: così poco influente che lo misero sulla banconota da 10 marchi (fonte: wikimedia.org) |
Arte. Qui potrebbe venirmi in soccorso la mia futura moglie, ma voglio provare da solo a spiegare che, se Dürer e Friedrich sono state delle meteore nel panorama artistico dei loro tempi (Rinascimento e Romanticismo), Gropius e il Bauhaus hanno avuto un'influenza di proporzioni incalcolabili sull'architettura e sul design del Novecento. Il panorama artistico è anche cinema: e allora come dimenticare che la Germania ha dato i natali a gente come Beethoven, Bach, Händel, Wagner, Schumann, Mendelssohn, Brahms, Strauss.
La statua dedicata a Bach nel centro storico di Lipsia. Foto di archivio, 23 marzo 2014. |
Democrazia. Certo, il concetto stesso di democrazia nasce nell'antica Grecia. Ma guardando cosa succede oggi, secondo il cosiddetto "indice di democrazia" calcolato dal settimanale The Economist, la Germania è una democrazia completa e si piazza alla tredicesima posizione su 167 paesi valutati. L'Italia è in posizione n.29, la Grecia in posizione n.41 ed entrambe sono considerate "democrazie imperfette".
Dopo questa infinita carrellata di informazioni, non voglio convincere nessuno che la Germania sia meglio della Grecia, dell'Italia o di chissà quale altra nazione. Voglio semplicemente affermare che certe prese di posizione populiste verso alcune popolazioni, soprattutto se europee, sono assolutamente stupide e fuori luogo, ancor più se prive di fondamento, come in questo caso. Ogni nazione ha avuto/ha le proprie eccellenze. La Grecia ha dato molto all'umanità, ma la Germania ha dato anch'essa tantissimo. Ridurre la storia delle nazioni ai soli fatti negativi di decenni e secoli fa non è onesto. Non è giusto.
Bis bald!
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