mercoledì 1 novembre 2017

Storie napoletane vol.4

"L'imperatore Tiberio governava da Capri quel mondo antico di cui il Mediterraneo era il «centro», libero di realizzare qualsiasi capriccio della sua immaginazione. Aveva la certezza fisica di essere il vero padrone di tutto ciò su cui il suo sguardo poteva spaziare."
Richard Newbury

Capri e i suoi Faraglioni, what else? 

martedì 31 ottobre 2017

Storie napoletane vol.3

"La bellezza di Napoli cresce di giorno in giorno, di settimana in settimana, via via che scopre i suoi segreti. Finché si giunge a intendere che veramente è questo il più bel golfo della terra."
Guido Piovene

Napoli e il suo golfo dalla Certosa di San Martino

lunedì 30 ottobre 2017

Storie napoletane vol.2

"Un proverbio italiano dice: – Vedi Napoli e poi muori!, ma io dico: – Vedi Napoli e vivi – perché c'è molto qui degno di essere vissuto."
Arthur John Strutt

Un angolo di Piazza del Plebiscito

domenica 29 ottobre 2017

Storie napoletane vol.1

"Napoli adagiata sul golfo è stupenda, ci si chiede se anche questa bellezza non faccia parte della maledizione della città, non faccia parte del prezzo spaventoso che paga per esistere."
Giorgio Bocca

Vista notturna di Napoli da Corso Vittorio Emanuele

mercoledì 25 ottobre 2017

Strade faticose

"Proprio nello sforzo enorme e coraggioso di vincere la fatica riusciamo a provare, almeno per un istante, la sensazione autentica di vivere. Raggiungiamo la consapevolezza che la qualità del vivere non si trova in valori misurabili in voti, numeri e gradi, ma è insita nell'azione stessa, vi scorre dentro."
Haruki Murakami, L'arte di correre

La maratona è come un puzzle

Non sempre gira tutto bene, o come si vorrebbe. Ogni maratona è storia fine a sé stessa. Ma tutte sono accomunate dal sacrificio e dalla fatica, la cui ricerca è quasi il senso stesso di mesi di allenamento e sudore, la cui ricerca è la medaglia del finisher, la cui ricerca vale quanto una vittoria a braccia alzate.

domenica 22 ottobre 2017

La decima da pagare - 3:44:16 a Venezia!

Sapevo di non essere in grossa forma, considerati gli ultimi due mesi in cui è successo molto - di tutto, di più - ma speravo in qualcosa di più. Le gambe lontane sono state - e su questo invece non avevo dubbi - lontane parenti di quelle brillanti ed esplosive di sei mesi fa a Roma. Ho dovuto gestirle dall'inizio alla fine per evitare di arrivare a Venezia camminando. Ho sempre corso, non mi sono mai fermato, non ho mai gettato la spugna, arrivando sulla linea del traguardo esausto. Condizione nella quale è giusto ritrovarsi alla fine di una competizione in cui si dà tutto nel giro di tre (quasi quattro, oggi) ore.
Lontano dalla migliore condizione, lontano dai tempi che ero solito correre, ma ugualmente felice. Felice di esserci, felice di essermi emozionato correndo a Venezia. La terza volta, ma è come se fosse la prima. Un privilegio, correre qui, un'esperienza che auguro a tutti nella vita. E poi, questa è la decima volta sul traguardo di una maratona. Un traguardo nel traguardo, un'enorme soddisfazione che solo cinque anni fa, quando stavo allenandomi per la mia prima maratona, non potevo proprio pronosticare. E invece eccone dieci. Torino, Barcellona, Venezia, Torino, Venezia, Amburgo, Firenze, Berlino, Roma, Venezia.
Ora riposo, reset fisico e mentale (necessario), una lunga pausa e poi si vedrà. Dopo dieci maratone, un piccolo ciclo si è chiuso. Qualcosa cambierà, ma se ne riparlerà nel 2018.

Passaggio in Piazza San Marco, chilometro 41

Bis bald!
Stefano

Adrenalina vol.6

Please don't be long, please don't you be very long
Please don't be long, or I may be asleep
The Beatles, Blue jay way

-2 ore alla Venice Marathon


mercoledì 4 ottobre 2017

Con gioia immensa

A questa musica che non ha orecchi,
a questi libri senza parole
benvenuto raggio di sole,
avrai matite per giocare
e un bicchiere per bere forte,
e un bicchiere per bere piano
un sorriso per difenderti
e un passaporto per andare via lontano
Francesco De Gregori, Raggio di sole


I maratoneti, certe notizie, le annunciano con queste foto. Con gioia immensa.
Stefano

venerdì 8 settembre 2017

Alla conquista della decima: una "mezza" a punto

Proprio come tre anni fa, per arrivare a Venezia passerò da Monza. La mezza maratona che correrò in preparazione della Venice Marathon sarà proprio la Mezza di Monza, che giunge domenica alla sua edizione numero 14. Monza è una scelta che va oltre il semplice aspetto podistico - perché nel calendario non è inserita nel momento migliore, se si vuole preparare una maratona nella seconda metà di ottobre. No, Monza è la scelta di un evento organizzato in modo eccellente e in una cornice che è tutto fuorché banale: il Parco di Monza, un enorme polmone verde nel quale è disegnato il cuore del percorso della competizione, e l'Autodromo Nazionale, ossia dove prende il via e dove si conclude la mezza maratona (e le altre distanze sulle quali si può competere, 30, 10 e 5 chilometri).

Atleti in azione nell'Autodromo Nazionale di Monzac (fonte: gloryofedzell.blogspot.com)

Come spesso accade quando mi ritrovo ad inizio preparazione, non posso pensare di ambire a realizzare un bel tempo alla Mezza di Monza - nonostante la sorpresa sia sempre dietro l'angolo, come è successo a Francoforte. Le ultime uscite sono state piuttosto lente e rimanere sotto 1h35' sarebbe già un buon risultato. Se arrivasse un tempo intorno a 1h33' potrei quasi dire che sarebbe una eccellente prestazione. Questa mezza maratona mi darà qualche indicazione, ma lo scopo è quello di mettere chilometri nelle gambe, ritrovare il feeling con le competizioni, lavorare sul ritmo di gara. Nella prima fase di allenamento verso la migliore condizione atletica in vista di una maratona, le performance sono tutt'altro che brillanti. Quello che succede, per usare un gergo automobilistico - dato che si parla di Monza - è un po' come premere sull'acceleratore ma senza riuscire ad andare più forte: nonostante tutto l'impegno profuso, non c'è verso di essere più veloci. Bisogna pazientare, e il lavoro costante saprà dare i suoi frutti: a pensarci bene, anche Venezia non fu costruita in un giorno. In un giorno di mezza maratona, invece, in quei novanta minuti di corsa, penserò a dare il massimo e soprattutto a divertirmi. No run, no fun!
Bis bald!
Stefano

P.s.: Monza non è una scelta puramente podistica ma è anche una scelta di cuore, non lo nego, perché le origini di mia moglie sono anche monzesi...

mercoledì 6 settembre 2017

Alla conquista della decima: qualche goccia di Svitol

Per raggiungere Venezia, partendo dal cuore della Bassa Franconia, serve un viaggio di oltre ottocento chilometri. Lungo ed estenuante, perché si guida in tre nazioni, perché si attraversano le Alpi, perché le autostrade tedesche non sono arterie agevoli. Anche preparare una maratona è un percorso dalle caratteristiche simili. Quando si inizia la preparazione, infatti, si incontra più di una difficoltà. Credo che sia sempre stato così, per ogni maratona che ho preparato. Non si scherza mai con una corsa di più di quaranta chilometri.

Un po' di lubrificante per questa macchina un po' arrugginita

Stavolta a mettersi di traverso è stata anche la salute. Nella prima settimana che avrebbe dovuto essere di allenamento, sono stato colpito da influenza. Febbre, dolori ossei e muscolari, mal di testa: impossibile alcun tipo di allenamento per sette giorni. Riprendere dopo questi malanni (fuori stagioni) è stato piuttosto faticoso.
La prima uscita in allenamento, poco più di quattordici chilometri, l'ho corsa appena sotto i 5'/km. Nella seconda uscita ho fatto anche di peggio, ma almeno avevo una scusante, ossia le gambe ancora stanche dallo sforzo precedente. Sono proprio le sensazioni generali a non essere particolarmente positive, ma non ricordo di avere iniziato un allenamento per una maratona già in forma. Solo all'inizio della preparazione per la maratona di Berlino stavo relativamente bene: ma come è andata a finire (al netto dell'incidente)?
Una buona condizione atletica non scende come pioggia dal cielo ma la si costruisce giorno dopo giorno, con un duro allenamento, in palestra e in strada. E quindi è bene stamparsi in testa che le prime settimane, in cui il lavoro è tipicamente pesante e la reazione fisica si traduce in una sensazione generale di stanchezza, non possono dare indicazioni affidabili. C'è da risvegliare una macchina che in estate si è presa un po' di riposo e va tirata a lucido, da oliare meccanismi sui quali si è depositato un sottile strato di ruggine: recuperare fiato, ritrovare reattività muscolare, perdere qualche chilo di troppo.
Non ho molto tempo per farlo. Avevo scelto di impostare l'allenamento verso Venezia con un ciclo ancora più corto: nove settimane di preparazione contro le dieci per la maratona di Roma. L'influenza estiva le ha ridotte a otto. Vorrà dire che farò degli straordinari. Se saranno pagati lo saprò solo il 22 ottobre!
Bis bald!
Stefano

martedì 5 settembre 2017

Dalla Germania al Giappone in trenta centimetri

C'era una volta un paio di scarpe Adidas... Care Supernova, avete fatto il vostro egregio dovere, come le vostre antenate. Due maratone in cui, nel bene (Roma 2017) o nel male (Berlino 2016), mi avete supportato al meglio, in gara e soprattutto in allenamento. Ora, è giunto il momento di salutarci.

Cambia la scarpa ma non cambia il percorso!

So che quando avrò bisogno di una bella scarpa, comoda, resiliente ed affidabile, potrò sempre rivolgermi ad Adidas. Ora, in previsione della maratona di Venezia, percepivo la necessità di qualcosa di nuovo, sentivo la volontà di esplorare cosa può offrire il mercato delle calzature da corsa. Adidas è sempre una garanzia, Asics mi ha deluso (non per performance ma per resistenza del materiale), ma gli altri brand? Per la prossima maratona ho scelto la giapponese Mizuno, la Wave Paradox 4. Il supporto per il mio piede iperpronatore ovviamente non manca, ma la leggerezza che provo indossando questa calzatura è ineguagliabile, se la paragono alle calzature indossate negli ultimi sei anni di attività podistica. Anche il look è accattivante, nonostante non faccia pendant con la mia canotta rossa. Un semplice dettaglio, quest'ultimo: in fondo, ciò che mi auguro è che esse facciano il loro dovere sulle strade e sui ponti veneziani...
Bis bald!
Stefano

lunedì 4 settembre 2017

Sarà una serenissima decima

Roma fu la nona. Per la decima maratona, non ho mai avuto dubbi sul dove avrei voluto correre. Il decimo appuntamento con i 42.195 chilometri non poteva che essere in un luogo speciale. Esiste luogo più speciale di Venezia? Non per me. Esiste maratona più spettacolare della Venice Marathon? Non per me. Se c'era un traguardo che avrei voluto superare, quello non poteva che essere quello di Riva dei Sette Martiri, nel sestiere di Castello, la magnifica conclusione di un percorso che inizia dalla Riviera del Brenta e termina su quell'isola che è un trattato di storia dell'arte... Venezia.

Sognare un arrivo più bello non è possibile... (fonte: viajejet.com)

La prima volta fu una scoperta. Conoscevo il percorso solo sulla carta e lo consideravo stupendo. Sognavo Piazza San Marco, immaginavo la sensazione che si poteva provare superando il ponte innalzato sul Canal Grande solo per la maratona. Quella maratona, la prima con colei che sarebbe diventata mia moglie, fu una rivelazione continua e rappresentò il più importante miglioramento cronometrico sulla distanza.
La seconda volta fu un'emozione senza pari. Sapevo a cosa andavo incontro, ero conscio di cosa significhi per le gambe superare quattordici ponti veneziani, di ciò che rappresenta in termini di energie fisiche e mentali correre lungo il Ponte della Libertà. Ritornavo a correre una maratona dopo una prima metà dell'anno condizionata da un problema ad un ginocchio, era la prima maratona dopo il trasloco in Germania. Non volevo mancarla, perché sapevo che in Piazza San Marco mi aspettava Giulia. Lei non sapeva, tuttavia, che lì le avrei chiesto di sposarla.

...ma la partenza non scherza affatto (fonte: sporteconomy.it)

Da una terza partecipazione alla Venice Marathon non dovrei più aspettarmi niente e invece... non vedo l'ora di esserci, aspetto il 22 ottobre 2017 da giorni, mesi, anni. Esattamente da tre anni fa. Quando corro, penso spesso a Venezia e alla sua maratona. Adesso che ho ricominciato ad allenarmi duramente in vista di questo appuntamento, non faccio altro che sognare quelle tre ore di corsa ininterrotte verso il cuore della Serenissima, i brividi di Piazza San Marco e il sole sulla faccia in Riva dei Sette Martiri.
Può darsi che qualcuno mi possa prendere per pazzo, ma chi ha corso almeno una volta la Venice Marathon, comprende perfettamente questi miei pensieri.
Bis bald!
Stefano

sabato 2 settembre 2017

Fulmini sulla capitale - Il racconto della mia maratona di Roma 2017

Dopo un piede rotto, un mese di totale inattività, e settimane di recupero, si dovrebbe badare a ritornare a correre, invece di pensare a ritornare a correre più forte. Proprio per questo avevo scelto di correre a Roma: è una maratona dura, sulla quale non nutrivo ambizioni particolari, ideale per un rientro su questa distanza. Quello che voleva essere per me un viatico primaverile in vista di un bel miglioramento in autunno, si è trasformato in una maratona indimenticabile, perché in condizioni climatiche non ideali e su un percorso tosto, ho chiuso la maratona di Roma con un tempo che rappresenta il mio attuale miglior tempo sui 42,195 chilometri: 3:13:06, oltre un minuto dal vecchio record stabilito a Firenze. Un tempo tutto da raccontare.

Tutti dietro!

Fino al venerdì pomeriggio antecedente la domenica di gara, avrei immaginato di soffrire il caldo della capitale. A Roma, ad inizio aprile, il clima può essere già rovente per un maratoneta. Ma venerdì sera - ricordo bene quel momento, ero sotto il colonnato di San Pietro - ecco il pesce d'aprile: cambio repentino delle previsioni e temporali previsti per domenica mattina. Cerco di consolarmi dalla sconfortante notizia pensando che sì, in fondo è meglio una maratona bagnata che una maratona afosa, se si vuole puntare alla prestazione pura.
Eppure quando mi sveglio e lancio un'occhiata dalla finestra, sembra ancora tutto asciutto. E fresco. Inizio a nutrire qualche speranza per una maratona in condizioni perfette. Non ci voglio pensare, e col mio passo svogliato ed addormentato scendo alla reception per prelevare un non troppo ricco pacco-colazione (è troppo presto per l'albergo per servire la colazione) che integro con altre provviste acquistate nei giorni precedenti, in modo da fare il pieno di nutrienti che dovranno alimentare le mie gambe di lì a tre ore, il momento della partenza. Prima di uscire controllo di avere tutto ciò che mi può servire prima dell'ingresso nella gabbia, e fisso il pettorale alla mia canotta, con rigoroso scrupolo. Dunque si esce: la Via Nomentana è viva solo grazie alle luci dei negozi e di bar che iniziano ad accendere la loro domenica di lavoro. Nel sottopassaggio della stazione Nomentana i barboni dormono ancora.

L'ora della partenza si avvicina (fonte: facebook.com/maratonadiroma)

Alla stazione Libia della metropolitana, c'è già un capannello di maratoneti. Avvicinandosi alla fermata del Circo Massimo, da dove usciranno tutti gli atleti che raggiungono la zona di partenza in metropolitana, il vagone nel quale sono seduto anch'io si riempie progressivamente di alcuni tra le migliaia di maratoneti che calcheranno Via dei Fori Imperiali nel giro di qualche decina di minuti. Ci sono tante lingue, tante bandiere e soprattutto i tanti colori - maglie, scarpe e accessori (alcuni veramente discutibili, trattandosi di una corsa su strada). Nello spazio di mezz'ora, trascorso nelle viscere della metropolitana di Roma, il giorno sorge sulla Città Eterna e, di fronte alla spianata del Circo Massimo, si rivela per ciò che sarà durante tutta la giornata: coperto da nubi plumbee.
Per raggiungere la zona di partenza, c'è da scarpinare e non poco. Un pre-riscaldamento leggero, lo si potrebbe definire. La splendida Via di San Gregorio è il portale di accesso al Colosseo, attorno al quale sono stati parcheggiati i camion messi a disposizione dall'organizzazione per contenere le borse con gli effetti personali dei maratoneti. Di fronte al Colosseo sono stati parcheggiati anche i bagni mobili, scelta che ha fatto molto scalpore tra i turisti e sui social network: ma ci si rende conto che stiamo parlando di un evento che dura un giorno, uno? Prima di entrare nell'area riservata ai maratoneti, dalle quali famiglie si devono ora separare, mi incontro con il mio compagno di squadra Maurilio, il quale sarà di non indifferente aiuto. Infatti, nella fretta di lasciare l'albergo mi sono completamente dimenticato di portare con me la vaselina che spalmo sui capezzoli prima di ogni corsa superiore ai 25 chilometri, onde evitare il loro insopportabile sanguinamento. Mi faccio prestare un po' di crema e anche questo pericolo è scampato. Ora si può entrare nel mondo della maratona di Roma.

Davanti a San Pietro, sotto la pioggia battente

Cerco il camion al quale è destinato il mio zaino. Consegnare i propri effetti personali è un momento topico della domenica di corsa, perché da quel momento si è da soli contro la maratona. Dentro quello zaino c'è una piccola parte di te. Soprattutto, dopo la consegna non ho più conforto alcuno da amici, familiari, moglie. Solo un corpo al vento per oltre tre ore.
Guardo il cielo color cobalto e cerco di rimanere fiducioso: concretamente, rinuncio a indossare il visore che utilizzo normalmente negli allenamenti sotto la pioggia. I camion sono stipati attorno al Colosseo. Sono tantissimi, serve tempo per superarli e immettersi in Via dei Fori Imperiali, dove si trova la zona di partenza. Non entro subito nella gabbia a me destinata (la più veloce, professionisti esclusi!). Eseguo un quarto d'ora di riscaldamento vero e proprio, seguito da stretching, tra altri atleti pronti a dare il massimo sui sampietrini di Roma. Di certo, non una sessione lunga, perché l'innata paura di fare tardi alle gabbie alla fine prende il sopravvento.
La partenza è quasi alla fine di Via dei Fori Imperiali. Bisogna percorrerla tutta per raggiungere la propria gabbia - ovviamente dopo aver lasciato gli ultimi liquidi nei vari bagni chimici dislocati lungo l'area di partenza (in alternativa, ci sono i muri di quelli che mi sono apparsi come uffici del turismo). Una volta dentro la gabbia, si prega che le lancette possano scorrere velocemente, che il momento del via arrivi in fretta. Il batticuore si fa insostenibile, e le musiche de Il gladiatore non aiutano certo ad attenuarlo. I dolorini escono all'improvviso, tutti quanti insieme, quasi come un monito: "fra tre ore, sentirai ben altro!". Alzo lo sguardo al cielo per qualche secondo, come faccio sempre prima della partenza di una maratona. Sono secondi in cui ripenso a mesi di allenamento, iniziati con il gelo sull'asfalto e terminati con i primi fiori tra i ciuffi d'erba, di fatiche, di gambe stanche. Mi riportano sulla terra le poche parole del sindaco di Roma, in procinto di sparare il colpo che darà il via alla corsa. Sì, sono a Roma, nella città eterna, e tra le sue meraviglie fra pochi secondi correrò una maratona...

Primo passaggio davanti al Vittoriano (fonte: facebook.com/maratonadiroma)

VIA! La maratona di Roma inizia sotto un cielo che fa paura ma intanto, nelle prime centinaia di metri, bisogna trovare i varchi giusti per non rimanere intrappolati nella bolgia della partenza. Cosa che puntualmente mi accade dopo pochissimi metri, dietro a due sudafricani che partono come se fossero in una scampagnata primaverile, sobbarcandosi gli insulti (meritati, si) di un paio di maratoneti romani. L'andatura è abbastanza ridotta nei primi cinquecento chilometri, dove si assaggia il primo tratto di sampietrini. Bisogna arrivare in Via Petroselli per trovare quell'ampiezza di carreggiata che permette di poter allargarsi e correre più comodamente senza un continuo rallentare e accelerare. Mi tengo sulla sinistra nel chiudere il primo chilometro (4'34"/km), perché so che la curva che conduce alla prima salita, quella del Circo Massimo svolta proprio sul lato mancino. Una salita di riscaldamento, perché arriverà molto di meglio nel corso della maratona. Ma non è la salita il problema.

Piazza Navona, inizia l'ultimo tratto nel centro più centro

Una curva a destra collega Via dei Cerchi (il viale che costeggia l'area del Circo Massimo) e il Viale Aventino. Proprio qui, sento sulla pelle la prima goccia di pioggia. Pochi metri dopo, quando ormai il percorso punta dritto verso il quartiere Ostiense, ecco i primi tuoni che arrivano da sud. Le gocce di pioggia si intensificano sempre di più, ma se tutto rimanesse così proprio non ci si potrebbe lamentare. Anzi, meglio correre al fresco che nell'afa. I primi chilometri li prendo proprio tranquillamente, forse un po' spaventato da cosa potrei incontrare: pioggia? salite? Il ritmo tra 4'30" e 4'40"/km, è comunque positivo, perché sicuramente non è lento e altrettanto non è eccessivo. Premere sull'acceleratore già dalle prime battute è un problema di tanti maratoneti, e anche mio. Perché quando si ha benzina, la si vuole usare, dimenticando che il distributore per un maratoneta compare solo due giorni dopo la corsa.

Via!

Sul Ponte Settimia Spizzichino incontro le prime avvisaglie di ciò che sarà: un vento fortissimo che sposta tutti gli atleti sulla destra della carreggiata. Curva a sinistra per immettersi sulla Via Ostiense e, poco prima di intravedere la Basilica di San Paolo fuori le Mura, inizia a piovere copiosamente. E in pochi secondi diventa diluvio. Questo è un vero e proprio temporale, verso il quale mi sto avvicinando. Da esso mi riparo per qualche decina di metri, trovando conforto sotto i folti alberi tra i due sensi di marcia di Viale San Paolo, ma poi il percorso prevede una curva a sinistra per ricongiungersi nuovamente con Via Ostiense. E la sento tutta.
In pochi secondi la maglietta è un tutt'uno con il mio corpo e anche le scarpe sono presto fradicie. Schivare le pozzanghere già è attività complessa normalmente, farlo in Italia, dove le strade sono normalmente in condizioni pietose, è praticamente impossibile. Canottiera bagnata, pantaloncini bagnati, scarpe bagnate. "Coraggio, stavolta ti tocca andare in fondo così, sotto il diluvio". Poco prima del Ponte Marconi, inciampo in un'altra pozzanghera che sì, mi fa imprecare, e cerco positività nelle parole della mia amica Margherita, che Roma la conosce bene, e che il giorno prima mi aveva indicato (potrei quasi dire che fu un monito) come nella capitale i temporali sono tanto improvvisi quanto veloci nell'estinguersi. Infatti, appena arrivati sulla riva destra del Tevere, tutto si placa: quindici minuti di ira del cielo, dunque la calma. La pioggia continua a scendere ma con ben altra intensità.

Piazza del Popolo

Il primo tratto sulla sponda destra del Tevere è quello più brutto, non tanto per l'intensità e la qualità di corsa (stabile tra 4'35" e 4'40"/km), ma per le zone attraversate dal percorso. Devo attendere qualche chilometro per oltrepassare nuovamente il Tevere, al Ponte Testaccio. Qui il percorso ritrova un'altra Roma, una Roma più consona alle mie aspettative. Ma il ritmo non cambia - e questo è un bene, perché mantenere un passo costante per molti chilometri è una delle chiavi per riuscire nell'intento di non crollare negli ultimi chilometri. C'è pure qualche piccola nota positiva: un po' di sole si affaccia tra le nuvole, e mi accompagna per i chilometri lungo il tratto alberato del tratto di Lungotevere tra il Ponte Sublicio e il Ponte Cavour. Nulla di serio, ma la presenza di qualche pavido raggio di sole mi conforta e mi dà vigore per provare ad incrementare leggermente il ritmo di corsa fino alla soglia dei 4'30"/km. Non è un accelerazione importante, ma un piccolo" colpetto" alla media di corsa.

La prima salita, verso il Circo Massimo (fonte: facebook.com/maratonadiroma)

Superato per la terza volta il Tevere, mi ritrovo a fare i conti nuovamente con la pioggia. Mi trovo in Piazza Cavour quando ricomincia a piovere. Qui mi rendo conto appieno di come i sampietrini siano un terreno insidioso reso ancora più infido dalla pioggia. I piedi lo percepiscono appena, ma quanto basta per capire che sui sampietrini bagnati bisogna correre con cautela. Se volessi trovare una formula che spieghi cosa significa correre su un sampietrino bagnato direi che è quasi come correre sul sapone, soprattutto quando la pioggia non è intensa.
Via Crescenzio, Via di Porta Castello, una curva a destra ed eccoci in Via della Conciliazione. Il passaggio alle porte di Piazza San Pietro avviene sotto la pioggia battente, ma non per questo è un momento meno emozionante. Vedo i maratoneti che mi precedono, e nonostante stiano tutti facendo qualcosa di grande, sembrano così piccoli di fronte alla maestosità della Basilica di San Pietro, minuscole particelle nell'imponenza di Roma.

Meno di un chilometro, so già bene che è stata una grande maratona

Superato il Passetto di Borgo, il percorso punta verso nord, dove si vanno ad incontrare ampi e lunghi viali raccordati da curve ad angolo retto. Questo lungo tratto, che separa San Pietro dai chilometri che precedono lo Stadio Olimpico, sono forse i più difficili, perché vissuti nell'incertezza. L'unico conforto arriva dal cielo, che smette di scaricare acqua pochi minuti dopo aver lasciato alle spalle il Vaticano. Per il resto, sono chilometri di titubanze e di tentennamenti. Mi sono sentito palesemente in difficoltà nel leggere i segnali che arrivano dalle gambe. Mille domande attraversano la mia mente. Fin dove posso spingermi in questa maratona? Posso provare ad incrementare il ritmo senza andare fuorigiri? O è meglio puntare a mantenere un ritmo accettabile per arrivare in condizioni accettabili fino al chilometro 37/38 e dunque scaricare tutto il serbatoio nel finale? Sono domande che non trovano immediatamente risposta, perché è anche dal cronometro - che registra più metri di quelli effettivamente percorsi - che non trovo aiuto. Nell'indecisione, tuttavia, registro alcuni chilometri corsi ad un passo relativamente veloce. Tra il chilometro 18 (appena dopo Piazza San Pietro) e il chilometro 23 (dove il percorso riabbraccia il corso del Tevere) registro una accelerazione nel passo gara che mi mantiene costantemente sotto i 4'30"/km - una soglia importante, perché correre sotto i 4'30"/km significa chiudere una maratona in 3h10'.
Non è il mio obiettivo chiudere in 3h10', so che è troppo ambizioso in un percorso duro come quello della maratona di Roma, per di più affrontato con la pioggia e dopo un ciclo di allenamento affrontato al termine di un lungo stop dalla corsa. Però non voglio avere rimpianti al traguardo, non voglio guardarmi indietro e dover constatare che potevo fare di più. In questi chilometri mi chiedo cosa è meglio fare, se attendere a dare tutto oppure iniziare il forcing. Mancano ancora tanti chilometri e già tanti ne ho percorsi, questo è il momento delle decisioni più complicate. Quello che succede nella realtà (senza che io lo volessi appositamente) è che accelero, ma senza strafare, mantenendo sempre un po' di margine per un ulteriore cambio di passo.

I più forti hanno già fatto il vuoto in pochi metri (fonte: facebook.com/maratonadiroma)

Quando arrivo nella zona del Foro Italico e dello Stadio Olimpico, mi trovo intorno al chilometro 25 e i dubbi mi tormentano. Interpretare i dati che arrivano dal cronometro diventa qualcosa di cervellotico, perché bisogna considerare anche l'errore di misurazione (ampio). Questo è il momento in cui mi sento le energie iniziare a calare. Non un crollo repentino, ma piccoli segnali di cedimento. E non so perché, attorno a me, ci sono tanti maratoneti che mi superano con vigoria. Appena superato il Ponte Duca d'Aosta - l'ultimo ponte sul Tevere - mi supera a velocità tripla un maratoneta che secondo me è partito con la seconda ondata. Cazzo, quanta benzina aveva nelle gambe. Questo è il momento più difficile della mia maratona.
Da quel momento, faccio fatica ad ingranare. Sento le mie gambe come addormentate e incapaci di svegliarsi dal torpore. Non mi sento stanco, bensì come sotto l'effetto di un sonnifero. Dopo quel sorpasso, dico a me stesso "basta, dopo la salita, molli tutto ciò che c'è da mollare". So bene, avendo cercato i punti più critici del percorso, che dopo aver abbandonato il Tevere c'è la salita di Via della Moschea. Non è una salita durissima ma è piuttosto lunga. Arriva al chilometro 28, dopo esattamente due terzi di corsa: quello è il momento giusto per sfruttare quel che rimane dell'energia migliore a disposizione. La salita non va affrontata a perdifiato ma con cognizione: rallentare è obbligatorio ma sempre cercando di mantenere un ritmo buono (la affronterò a 4'45"/km) dal quale ritornare ad accelerare una volta tornati sul piano. La salita di Via della Moschea è la svolta della mia maratona, in quanto al termine di essa mi rendo conto di poter imprimere più forza alla mia corsa. Da quel momento, i riferimenti cronometrici saranno sempre (esclusa una giustificata eccezione) sotto la media di corsa. Il quartiere Parioli lo supero senza problemi, ma è quando entro nel Flaminio, ed è il chilometro 31, che inizia la cavalcata finale. Stavolta non ci sono muri, le mie gambe sembrano ancora fresche.

Ultimissimi metri di fatica

Sul Lungotevere Flaminio succede un fatto decisivo. Il viale è ampio, così esteso che la “cordata” di maratoneti tende ad allargarsi dando quasi la sensazione di sfilacciarsi. Il temporale ormai è passato, anzi, si affaccia un timido sole, tiepido quanto basta ad asciugare la canotta: la visibilità è ottima. Nonostante il viale curvi costantemente verso sinistra, vedo in fondo dei palloncini. Sono le "lepri" delle 3h15'. Sono indietro, ma non indietrissimo. Nulla e nessuno, peraltro, può negare che le lepri stiano correndo anche più forte di 3h15'. Quel riferimento visivo, però, è un valore aggiunto importante. Il Lungotevere Flaminio segna l'inizio della rimonta. Qualche numero per chiarire meglio il concetto di rimonta: dal trentesimo al trentacinquesimo chilometro ho superato 132 atleti. Un atleta superato ogni 37 metri di corsa. Oppure, poco meno di tre atleti raggiunti e superati ogni cento metri. Quando si corre così, sulle ali dell'entusiasmo e sospinti da grande forza e convinzione morale, si può raggiungere qualcosa di importante.
Sarei molto probabilmente sceso sotto le 3h15' e altrettanto presumibilmente avrei anche stabilito il nuovo record personale, ma resto convinto che quello che è successo sul Lungotevere Flaminio sia stata la scintilla decisiva per realizzare questo tempo, un crono che ritenevo quasi impossibile potessi realizzare ora, a Roma.

Il vincitore 2017 della maratona di Roma, l'etiope Tola

Il chilometro 35 è posto sul Lungotevere Arnaldo da Brescia. Qui inizia un sottopasso che dà ulteriore slancio alla mia azione, e quando si esce per imboccare la stretta Passeggiata di Ripetta, vedo molto bene le ultime lepri delle 3h15'. Sono ad un passo. Tutta benzina che ritrovo improvvisamente nelle gambe, benzina che fa in fretta ad incendiarsi, perché l'arrivo alla Passeggiata di Ripetta significa essere rientrati nel centro storico di Roma. Ancora un po' di Lungotevere, poi una curva a destra, prima di concludere il chilometro numero 37, di lì a breve si entra in Piazza Navona e di fianco alla Fontana dei Quattro Fiumi. Da qui in avanti, nonostante il maltempo, siamo accompagnati costantemente da due ali di folla più o meno folte. Supero l'angusto passaggio per entrare in Corso del Risorgimento e dunque in Corso Vittorio Emanuele II. Lo supero in grande scioltezza, perché mi sento ancora molto bene. Infatti, questi chilometri in centro tra Piazza Navona e Piazza del Popolo risulteranno essere tra i più veloci dell'intera maratona, con un ritmo che varia tra 4'18" e 4'21"/km. I primi cenni di cedimento arrivano solamente in Via del Corso, una via dal fondo difficile e soprattutto che sembra essere infinita. Stretta e lunghissima, Via del Corso collega Piazza Venezia a Piazza del Popolo ed è l'arteria che inaugura l'ultimo ed insidioso settore della maratona di Roma. Mancano pochi chilometri, tuttavia i segnali sempre più inequivocabili non sono quelli di un crollo verticale, come spesso mi è capitato in maratona. I muscoli sono sempre più rigidi e meno reattivi ma hanno ancora il carburante per mantenere un ritmo mai corso prima d’ora negli ultimi chilometri: inizio Via del Corso dopo 2 ore, 52 minuti e 20 secondi di corsa, ne esco dopo 2 ore, 59 minuti e 24 secondi. Sette minuti per percorrere 1600 metri circa vuol dire che corro, alla soglia del completamento del quarantesimo chilometro, in 4'22"/km. È un ritmo che mi pare impossibile poter sostenere dopo così già tanti chilometri incamerati nei muscoli. Eppure, so di correre spinto da gambe ben allenate, una forza morale che non può che attestarsi ai massimi livelli – sono conscio che sto correndo alla grande! – e da tanto tifo sui marciapiedi di Via del Corso. Tanti turisti che, spesso nell'attesa di poter attraversare la via per recarsi dalla Fontana di Trevi a Montecitorio, applaudono e incitano i maratoneti. Tra di loro anche tanti bambini, e ai bambini, un cinque con la mano non glielo neghi mai. Perché è bello, perché loro ne saranno felici, perché noi maratoneti ne trarremo nuovo vigore.

Chilometro 40

Piazza del Popolo è un passaggio da prendere con le molle, perché i sampietrini sono ancora umidi e se ne esce solamente girando attorno all'Obelisco Flaminio, un lungo curvone che porta in Via del Babuino. Purtroppo davanti a me incontro alcuni atleti più lenti, in una più che probabile fase di calo fisico, e sono costretto a spendere risorse per superarli. Via del Babuino è invece un'impercettibile salita che porta la maratona di Roma in Piazza di Spagna. La affronto ancora con un ottimo ritmo, perché copro i 530 metri di Via del Babuino in 2 minuti e 20 secondi. E sto parlando di un tratto che è un lungo falsopiano in salita. Sto correndo forte, ma realizzo solo in Piazza di Spagna, dove cade esattamente il chilometro 40, che questa maratona sarà foriera di grande soddisfazione. Proprio di fronte alla scalinata di Trinità dei Monti mi ricongiungo ai primi pacer delle 3h15'. Sanno di poter concludere con un tempo decisamente migliore e allora rallentano per aspettare altri atleti. Li supero, involandomi verso gli ultimi due chilometri. Ma è proprio qui che arriva il bello.

I centurioni scortano l'arrivo dei maratoneti

Da Largo del Tritone inizia la seconda vera salita della maratona di Roma, meno dura di quella di Via della Moschea... con la differenza quest’ultima che non arriva dopo oltre quaranta chilometri di corsa. La quantifico in 360 metri di lunghezza e qualche metro di dislivello: è la salita del Traforo Umberto I. Dopo così tanti chilometri questa asperità diventa un macigno e anche la velocità, ovviamente, ne risente: 4'50"/km nei metri di salita. Il peggio, ahimè, deve arrivare: è lo stesso traforo che buca il colle del Quirinale ad rappresentare uno dei momenti più complicati della maratona. Oltre ad essere in salita, è un ambiente chiuso, ovattato, in cui le orrende luci e un’acustica da incubo diventano un contorno straniante. Bisogna tenere duro, perché il culmine di questa salita coincide con il chilometro 41 e rappresenta l’ultima vera difficoltà della maratona di Roma. Dopo, si può solo volare.

Un bacio all'ombra della cupola di Santa Maria di Loreto

Poche ancora le curve. Una verso destra, dove sostanzialmente iniziano gli ultimi metri, per imboccare Via Nazionale, dove mi aspettano i miei genitori da un’intera mattina: con loro, il segno del cinque per prendere da loro ulteriore slancio, una rassicurazione ("sono tutto intero") e la sensazione del momento ("vado a fare il personale"). Una volta raggiunto Largo Magnanopoli, inizia il discesone finale di Via IV Novembre, una curva a destra seguita da una controcurva a sinistra, per riprendere finalmente Piazza Venezia: non serve aggiungere con quale stato morale ho percorso quella discesa. Entusiasmo alle stelle, euforia, esaltazione. Il traguardo è sempre più vicino, io continuo a guardare l’orologio perché tutto ciò non mi sembra vero. Dopo un piede rotto, mesi di inattività, un allenamento proficuo ma sul quale non ho mai voluto riporre particolari speranze... arrivare a Roma, correre per parecchio tempo sotto la pioggia, su sampietrini spesso umidi, nel saliscendi dei colli della capitale e migliorare di oltre un minuto il proprio personale... era per me fantascienza!
Sono finalmente in Piazza Venezia, davanti ho tutta la mole del Vittoriano e inizio a vedere l'arrivo. Non so più come sto correndo, so solo che di fronte ho la linea dell'arrivo, una meta che a tratti ho pensato di non poter più toccare. Ci sono ancora pochi metri di sampietrini a separarmi da Via dei Fori Imperiali, dal traguardo con vista Colosseo. Guardo un po' in aria, dove il cielo è plumbeo come alla partenza. Guardo e riguardo la fede al dito, perché a tanti chilometri di distanza c'è chi ha sofferto e soffre con me. Poi mi prendo gli ultimi metri e me li godo tutti quanti. Metri di brividi, perché il Colosseo ancora lontano è ormai lì. Metri di liberazione, in quanto solo pochi mesi prima non so se avrei scommesso di essere nuovamente al quarantaduesimo chilometro. Metri di gioia senza fine, perché sono di nuovo qui, ma anche perché nonostante questo percorso e questa pioggia, ho corso veloce come mai prima su questa distanza. C'è tutto quello che serve per poter esternare un urlo liberatorio sul traguardo e poi finalmente rallentare. Roma mi ha portato fortuna e su questo meraviglioso percorso ho fermato il cronometro dopo 3 ore, 13 minuti e 6 secondi. Il che significa nuovo personale, grazie ad un miglioramento di oltre un minuto. Qualcosa che non ritenevo assolutamente possibile e proprio per questa ragione, ha trasformato questo fine settimana romano in qualcosa di ancora più dolce...

Che arrivo sia!

E va beh, poco importa se quindici minuti dopo il mio arrivo, già medagliato, dissetato e (parzialmente) sfamato, si scatena un diluvio ancor peggiore di quello incontrato ad inizio corsa. I viali attorno al Colosseo sono fiumi d'acqua, le stazioni della metropolitana diventano spogliatoi. Mi riparo con il telino ricevuto all'arrivo e scappo velocemente in albergo. Confidavo in un riposo tranquillo, all'ombra del Colosseo, ma così non sarà. Vado a prendermi tutto il riposo che serve, al Colosseo ci tornerò in serata, per la foto di rito con medaglia.
Quello che conta è essere arrivati al traguardo ancora una volta, ancora più bello è sapere di averlo fatto alla grande, migliorando ancora una volta il proprio limite. Realizzare tutto questo a Roma... è una dolce soddisfazione!
Bis bald!
Stefano

lunedì 14 agosto 2017

Parliamo di Danimarca

Era la prima (vera) volta in Scandinavia e in Danimarca, paese dal quale sento di essere ritornato arricchito sotto molteplici profili, ma soprattutto sorpreso. Attendevo un mondo nuovo, diverso anche dal vicino nord della Germania. Non attendevo di rimanere così sbalordito dalla molteplicità di scenari alla quale ho invece assistito in una sola settimana di viaggio.

Le bianche spiagge baltiche di Grenen

Non immaginavo che due mari potessero fondersi insieme, saldarsi sotto la forza delle correnti. Invece, questo è possibile e succede a Grenen, dove il Mar Baltico e il Mare del Nord sono due placche argentee che la luce dell'alba liquefa e tormentosamente unisce.
Se penso ai castelli da favola, penso alla Germania, all'Italia e alla Svizzera. Non ho mai immaginato che la Danimarca fosse una terra di castelli: provate a cercare qualche immagine di Egeskov e vi ricrederete. E ne ho citato solamente uno.
Sapevo che la Danimarca fosse un paese dell'Unione Europea. Sì, certo. Però esiste un'isola che esce dalle logiche comunitarie come le conosciamo noi. È Christiania, l'enclave di Copenhagen dove l'illecito può anche essere lecito. A patto di non disturbare la quiete di un luogo che non si può pensare possa esistere.

Nyhavn, il cuore storico di Copenhagen

Chi dice che i ponti più famosi siano quelli raffinati di Venezia o quelli mastodontici delle metropoli statunitensi, potrebbe ravvedersi proprio in Danimarca: lo Storebælt, il gigantesco ponte che collega le isole di Fyn (Odense) e Sjælland (Copenhagen), è un lungo filo di cemento e asfalto, che corre lungo diciotto chilometri, in grado di mozzare il fiato.
Non credevo di poter mangiar bene in un paese ancora più nord della Germania. Pesce, pesce, pesce. Sempre e solo (o quasi) pesce, ma che pesce: il salmone più buono della storia!
Pensavo di non aver mai visto tante biciclette messe assieme come in Olanda. Ciclisti, sarete i benvenuti in Danimarca!
Possono coesistere in un solo luogo il passato, il presente e il futuro? Si, essi vivono ad Aarhus: Den Gamle By, mette insieme tutta la storia di questo piccolo paese riproponendo la storia delle costruzioni danesi e la tradizione locale, insegnando che non può esserci un futuro stabile senza il ricordo di ciò che siamo stati. Che sia una delle chiavi della felicità danese?

Tramonto con vista Sjælland

Pensavo di aver trovato in Sudafrica le albe e i tramonti più spettacolari: mi sbagliavo, perché la Danimarca si è superata. Ci va forza, per seguire la lenta risalita del sole dalle spiagge di Nyborg; serve pazienza, per aspettare l'ultimo raggio del giorno dalle spiagge occidentali di Skagen. Risultato? Spettacolo senza eguali!


domenica 13 agosto 2017

Pure nature vol.30

In attesa di una qualche preda
                               
Rifugio Viel Dal Pan, Canazei, Trentino-Alto Adige. Foto scattata il 14/07/2017.

sabato 12 agosto 2017

Storie danesi vol.5

"Non faceva freddo, il giorno era stato lungo, e anche se adesso era buio la luce non era scomparsa, sembrava come avvolta dalla notte."
Peter Høeg, I quasi adatti

Castelli da favola e dove trovarli: Egeskov

venerdì 11 agosto 2017

Storie danesi vol.4

"Ti saluto, o figlia del cielo! Luce brillante d'oriente, ti saluto! Al tuo comparire fuggono la disperazione e la malinconia; la tua presenza è salutare allo spirito agitato dal timore non meno che quella di una divinità possente."
Andrew Swinton, Viaggio in Norvegia, in Danimarca e in Russia negli anni 1788, 89, 90 e 91


Grenen, dove si uniscono Mare del Nord e Mar Baltico, il luogo più mistico di Danimarca

giovedì 10 agosto 2017

Pure nature vol.29

Scatto, carico e pubblico. Quando hai tra le mani un'immagine così bella, non aspetto altro se non condividerla!
Una foca dell'estremo nord della Danimarca, dalla penisola di Skagen, dove si congiungono il Mare del Nord e il Mar Baltico: un luogo poco riparato, ma tranquillo quanto basta, affinché un branco di foche possa trovare la sua "casa" preferita. Una foca incurante dei turisti, impegnata a riposare al sole. E a farsi fotografare dai bambini...

Una tenerissima foca sulle spiagge baltiche di Grenen

Bye for nu!
Stefano

mercoledì 9 agosto 2017

Storie danesi vol.3

"C'è una cosa che è migliore in Svezia piuttosto che in Danimarca... hanno vicini di casa migliori."
Victor Borge

Vicini di casa ad Århus: la tradizione del Den Gamle By e la modernità del centro città

martedì 8 agosto 2017

Storie danesi vol.2

"Civitas eius Maxima Roscald, sedes regia Danorum."
La città più grande è Roskilde, sede regia della Danimarca
Adamo da Brema

Aria di Medioevo nella vichinga Roskilde

lunedì 7 agosto 2017

Storie danesi vol.1

"Qualunque somiglianza la Danimarca possa presentare con il resto del mondo scompare quando Copenaghen s'illumina."
James Stewart-Gordon, La Danimarca, Paese felice


Rosenborg Slot, il castello da favola di Copenhagen

domenica 6 agosto 2017

Il biscottificio della felicità

Ciao a tutti! Finalmente siamo pronti per iniziare la settimana danese! Otto giorni "on the road" in quello che viene considerato il paese più felice del mondo, alla scoperta di bellezze e tradizioni di una nazione mai neanche sfiorata in passato ma che ha sempre suscitato grande fascino e ammirazione in me. Spiagge e scogliere battute dai due mari della Scandinavia; una geografia singolare in Europa, fiordi e arcipelaghi tra i quali angoli di paradiso giocano a nascondino; rassicuranti città a misura d'uomo, immerse in un clima di gioia quasi mediterranea nonostante il meteo meno clemente, in cui convivono la modernità e la tradizione. Il ponte ideale tra la realtà europea (come siamo abituati a conoscerla) e quella scandinava.


Otto giorni da percorrere dall'estremità orientale, la capitale Copenhagen, all'estremità settentrionale, lo spartiacque della Scandinavia, Skagen. In mezzo, spiagge che si possono solo sognare, castelli che raccontano favole al semplice sguardo, villaggi di pescatori e borghi più turistici, colori che testimoniano lo spirito di questo popolo. Otto giorni con l'animo aperto e gli occhi pronti a farsi inondare dell'incantevole (come già ho avuto modo di osservare dalle prime ore a Copenhagen) Danimarca.
Bye for nu!
Stefano

sabato 5 agosto 2017

E noi partiamo! - La massima di viaggio n.16

"Una volta che hai viaggiato, il viaggio non finisce mai, ma si ripete infinite volte negli angoli più silenziosi della mente. La mente non sa separarsi dal viaggio."
Pat Conroy

Tutta la magia di Copenhagen

Sarà tutto nuovo. Una nuova lingua, una nuova capitale, un nuovo paese dell'Europa. Nuovi mari e nuove spiagge. Tutto da scoprire: Danimarca, stiamo arrivando!
Bis bald!
Stefano

mercoledì 19 luglio 2017

Storie di fulmini - Il giro del Sassolungo

Qualcuno leggendo il titolo potrebbe pensare: perché fare il giro del Sassolungo quando solo il giorno prima hai fatto il giro di Sassolungo E Sassopiatto? È assai semplice: per poter salire al Rifugio Demetz e scendere nel Vallone del Sassolungo. Un tratto di sentiero per me inedito, assolutamente spettacolare, che attendevo di percorrere da molto tempo. E che rappresenta l'ultimo atto del mio luglio tra i monti pallidi delle Dolomiti.

Il Vallone del Sassolungo
Per il giro del Sassolungo parto dal Col Rodella, forse il miglior balcone dal quale osservare il Gruppo di Sella e il gruppo del Sassolungo. Sorvolo sui motivi per cui ho iniziato il cammino dal Col Rodella, ci tornerò (polemicamente e successivamente) in un altro post. Affronto la ripida discesa per raggiungere il Passo Sella, dove ha inizio la salita verso il Rifugio Demetz. Un rifugio, questo, che si potrebbe raggiungere tranquillamente tramite l'ovovia che parte dal passo. Troppo comodo per i miei gusti, meglio affrontare il sentiero. Dal basso sembra una salita ardua, ma se affrontata con passo rilassato e costante, lo zig-zag che conduce alla Forcella del Sassolungo, ove giace il Rifugio Demetz, si rivela in realtà meno onerosa del previsto. Servono tra i quaranta e i sessanta minuti per raggiungere questo rifugio che sì, questo è proprio un nido d'aquila.

Che salita per raggiungere il Rifugio Demetz!

La storia del Rifugio Demetz è una vicenda che non può lasciare insensibile chi ama la montagna. Il rifugio è intitolato a Toni Demetz, che nel 1952 era una giovane guida di Santa Cristina Valgardena, nonché promettente alpinista. Nonostante la sua giovane età, conosceva già il Sassolungo come le sue tasche. Il 17 agosto di quello stesso anno, Toni Demetz è sulla parete del Sassolungo con due clienti milanesi. Un violento fulmine si abbatte sulla montagna, uccide all'istante uno dei due clienti e ferisce Toni e l'altro cliente. Il padre di Toni, Giovanni, anch'egli guida, si precipita a soccorrere il figlio e il suo cliente, entrambi in fin di vita. Sceglierà di dare priorità al cliente e pur in uno stato d'animo comprensibilmente disperato riuscirà a portarlo in salvo a valle. Giovanni risalirà una seconda volta il Sassolungo per soccorrere il figlio, ma sarà troppo tardi. Molti padri avrebbero maledetto quel luogo. Non fu così per Giovanni Demetz, che ottenne il permesso di costruire sulla Forcella del Sassolungo un rifugio in memoria di suo figlio, un rifugio che potesse offrire supporto e aiuto agli alpinisti in difficoltà. Un rifugio che ancora oggi, a oltre sessant'anni dalla tragica morte di Toni, è gestito dalla famiglia Demetz.

Il circo di roccia

Pietre che incombono

Trovarsi al rifugio Demetz, alla Forcella del Sassolungo, è come entrare in una basilica dell'alpinismo. Qui hanno compiuto imprese grandi nomi dell'alpinismo: il primo salitore del Sassolungo, Paul Grohmann; il primo saliore dello spigolo nord del Sassolungo, Eduard Pichl; Emilio Comici e il Salame che porta il suo nome; Oskar Schuster, che in suo nome è intitolata la ferrata sulla est del Sassopiatto; Angelo Dibona e Reinhold Messner, che sul Sassolungo aprirono due nuove vie di scalata; Gino Soldà, che sul Sassolungo firmò quattro prime ascensioni. Trovarsi al rifugio Demetz vuol dire anche trovarsi nel santuario della roccia. Tutto è pietra attorno, una pietra che incute una certa agitazione. Le guglie del Sassolungo sembrano reliquie in grado di poterti giudicare, la mole delle Cinque Dita e della Punta Dantersas infonde soggezione a chi osa penetrare questo regno dominato esclusivamente dai sassi.

Il profilo del Salame Comici svetta su tutto

La discesa verso il Rifugio Vicenza è veloce, velocissima. Troppo rapida, perché in quel mare di pietre avrei voluto rimanere ancora a lungo. Un paesaggio che appare veramente incontaminato, preistorico, dove non vi è traccia di opera umana - esclusi i lontani pascoli dell'Alpe di Siusi che si aprono tra il Sassopiatto e il Sassolungo. Scendendo le guglie appaiono sempre più alte, così elevate che bisogna torcersi il collo per ritrovare l'azzurro del cielo. Il Sassolungo è una muraglia sulla quale non troverei una sola via di uscita, le Cinque Dita sembrano volersi piegare verso il vallone per afferrare i disturbatori della sua quiete: centinaia di escursionisti che ogni giorno percorrono il sentiero che collega i rifugio Demetz e Vicenza.

Ultimo sguardo a queste meraviglie, prima di tornare a casa

Ripercorro fino al Passo Sella e quindi al Col Rodella un itinerario simile a quello affrontato nel giro del Sassolungo e del Sassopiatto, con una differenza: nel tratto tra la Forcella Ciaulonch e il Rifugio Comici decido di rimanere sul sentiero più basso, meno panoramico, ma che mi permette di poter osservare in pienezza tutta la formidabile ed assurda verticalità della parete nord del Sassolungo, forme che non posso concepire essere state calcate da mani umane. Dopo il Rifugio Comici, tutto il sentiero è ormai storia nota: una piacevole passeggiata con sullo sfondo il Sella - finalmente sgombro dalle nubi. Ritorno al Col Rodella con immagini memorabili negli occhi, tutte le vette del Sassolungo che signoreggiano luminose nel cielo, e un po' di mestizia: so che questo è l'ultimo sentiero, per quest'anno, sulle Dolomiti. Quantomeno, chiudo con un itinerario di quelli che non dimenticherò facilmente.
A presto!
Stefano

martedì 18 luglio 2017

I nove rifugi - Il giro del Sassolungo e del Sassopiatto

Sassolungo, un gruppo montuoso che non ha eguali nelle Dolomiti, un gruppo montuoso che meritava di essere circumnavigato nella sua totale interezza. Il Sassolungo, infatti, è gruppo che annovera più vette, nove per la precisione, oltre a quelle più note e conosciute, come il Sassolungo stesso e il Sassopiatto: Cinque Dita, Sasso Levante, Torre Innerkofler, Dente del Sassopiatto, Punta Dantersas, Torri del Sassopiatto. Tutte assai ravvicinate tra loro, difficilmente accessibili, che si innalzano da dolci pascoli. Perché percorrere un itinerario ad anello attorno a questo atollo di roccia dolomitica? Perché il Sassolungo è un gruppo unico nel suo genere, e dai sentieri che lo circondano i panorami di cui si può godere sono numerosissimi.

Il gruppo del Sassolungo visto dal Col Rodella

Il Rifugio Pertini è la base di partenza della mia escursione attorno al Sassolungo. Piccolo ed accogliente, il rifugio è ovviamente dedicato a Sandro Pertini, Presidente della Repubblica dal 1978 al 1985 e assiduo frequentatore di queste montagne, soprattutto della Val Gardena. Dal Rifugio Pertini il sentiero corre verso ovest, sempre a mezza costa, sui pendii erbosi ai piedi del Sassopiatto. È un sentiero molto piacevole, che rimane sempre sulla stessa quota, e garantisce costanti scorci panoramici sul Catinaccio e sulla Val di Fassa. Poco prima di incontrare il primo rifugio sul percorso, superato il Giogo di Fassa (il collegamento tra Val di Fassa e l'Alpe di Siusi) incontro un sentiero che sale sulla destra. È il sentiero che sale in cima al Sassopiatto, l'unica cima del gruppo raggiungibile a piedi. L'unica cima che salirò con i miei piedi in questi giorni di Dolomiti. 

La parete ovest del Sassopiatto

Il sentiero risale prima una piccola valle erbosa, per portarsi sui pascoli alla base del Sassopiatto, quindi iniziano i cinquecento metri di dislivello per raggiungere la croce di vetta della cima centrale del Sassopiatto. Una salita non eccessivamente ripida, ricca di zig-zag e dalle pendenze sostanzialmente costanti. Bisogna fare attenzione, soprattutto in salita e nella prima parte, ai segnavia ed agli ometti di pietra. Le indicazioni del sentiero non sono perfette e il quadro di insieme quando si avanza in salita non è mai completo come quando si procede in discesa. Dal sentiero che porta al Sassopiatto risulta evidente il perché del nome di questo monte. La parete est è un dirupo verticale, mentre la parete ovest è un piano inclinato di 30°, dalla superficie apparentemente levigata composta da erba, roccia e ghiaia e una cresta sommitale dentata. Dopo cinquanta minuti di salita, intervallata continuamente da pause di orientamento (lo ammetto, ho perso un paio di volte la via giusta, ma c'erano tante false indicazioni), vedo finalmente la croce di vetta. Sono in cima al Sassopiatto! Essendo la cima in posizione ravvicinata con il Sassolungo, il panorama in direzione est è il Sassolungo stesso, ma girandosi e osservando in altre direzioni si può ammirare un bel pezzo di Dolomiti, nuvole permettendo. Il Catinaccio e lo Sciliar, in particolar modo, così come i sottostanti prati dell'Alpe di Siusi. Poi la verdissima Val Gardena e i gruppi delle Odle e del Puez che la sovrastano a nord. Ma soprattutto, un inferno di roccia, il paradiso per chi ama questo genere di montagna: le guglie del Sassolungo e delle vette che lo circondano hanno radici profonde, risalgono verso il cielo senza timore. Tra di loro corrono valloni angusti, circondati da pietra terrorizzante e ghiaioni non meno rassicuranti. Un ambiente semplicemente da brividi. Proprio per la notevole inaccessibilità di questo ambiente, il gruppo del Sassolungo non offre molte possibilità agli escursionisti. Se non girarvi attorno.

Il Rifugio Pertini

Sulla cima del Sassopiatto non rimango a lungo. Il giro completo del gruppo richiede sei/sette ore, tanto tempo, e dell'Alpe di Siusi stanno risalendo nuvole che potrebbero significare una discesa nella nebbia. Possibilità che vorrei scongiurare, poter vedere ometti e segnavia è essenziale. Fortunatamente sono partito presto alla conquista del Sassopiatto, lungo la discesa incontrerò almeno una trentina di escursionisti. Tutti ansimanti, alcuni mi chiedono quanto manca alla vetta; io penso invece che potrebbero fare un'alta via valdostana...

In cima al Sassopiatto

Al fondo della discesa trovo una gran folla al Rifugio Sasso Piatto, una struttura datata 1935 ma decisamente rimodernizzata rispetto a qualche anno fa (sono già stato qui in ben tre altre occasioni). Il motivo di tutta questa folla è molto semplice: questo rifugio è una delle escursioni più classiche dell'area, facilmente raggiungibile sia dell'Alpe di Siusi che dal Passo Sella.

Il Sassolungo visto dalla cima centrale del Sassopiatto

La Val Gardena vista dal Sassopiatto

Non è di certo qui che voglio fermarmi, anzi. Il giro del Sassolungo e del Sassopiatto è ancora lunghissimo. Prima di raggiungere il prossimo rifugio (il Rifugio Vicenza, lo Zallinger Hütte lo lascerò alla mia sinistra) serve completare il giro attorno al Sassopiatto, che è veramente una montagna enorme. Il tratto che separa i rifugi Sasso Piatto e Vicenza è forse il più piacevole dell'intero tour, salita e discesa mai difficili si alternano regolarmente e piacevolmente. Tutto il tratto è dominato dalla mole del Sassopiatto, ma soprattutto dai panorami sulla Val Gardena, ma soprattutto sull'Alpe di Siusi. I suoi verdi pascoli, qua e là interrotti da boschi di conifere, rappresentano una delle aree più interessanti delle Dolomiti, ottime se si vuole sperimentare un turismo "lento": raggiungibile in cabinovia e solo parzialmente in automobile, molte possibilità di escursionismo a misura di famiglia, senza dimenticare che il Sassolungo è lì, a guardare il lento scorrere del tempo sull'alpe.
Salita al Sassopiatto esclusa, l'ascesa al Rifugio Vicenza è certamente il tratto più severo fisicamente. Il Rifugio Vicenza è incastonato al termine del vallone del Sassolungo, ai piedi della Punta Dantersas e circondato da tutto il circo di guglie e vette che costituisce il gruppo del Sassolungo: uno dei rifugi alpini più spettacolari che abbia mai incontrato in dieci anni di escursionismo. Per raggiungerlo, bisogna sudare non poco, però.

L'Alpe di Siusi

Il gruppo dello Sciliar

Lo sforzo è però ricompensato dall'ambiente incredibile del Sassolungo. Le pareti attorno al Rifugio Vicenza cadono verticali ed imperiose a poca distanza da questa vecchia struttura che nei giorni d'estate si riempie a dismisura di escursionisti. Da lontano appare come un nido d'aquila, ma sono le immense proporzioni delle vette circostanti che lo rendono così falsamente piccino. Il Rifugio Vicenza è uno dei tanti rifugi dolomitici passati in mano al CAI dopo la Grande Guerra. Questo era proprietà della sezione viennese del DÖAV, prima di passare al CAI di Vicenza al termine della guerra. 

Vista sul Vallone del Sassolungo

Lascio il Rifugio Vicenza diretto al Rifugio Comici, dedicato al grandissimo arrampicatore, morto a Vallunga per un banale incidente in falesia e che sulle pareti del Sassolungo ha firmato una delle sue tante imprese: la prima salita alla guglia che oggi prende il nome di Salame Comici (pare sia impressionante se visto da Santa Cristina in Val Gardena). Se da un lato il Sassolungo offre scarse opportunità escursionistiche, dall'altro ne offre parecchie alpinistiche. Non solo Comici ha lasciato il segno su questo gruppo, ma anche alpinisti di grande spessore, come Gino Soldà, Reinhold Messner, Angelo Dibona e Ivo Rabanser.

Il Rifugio Vicenza

Questo è un tratto lungo e che mi ha provato fisicamente, il continuo saliscendi su sentiero "scomodo", pieno di sassi e roccette, l'aggirare lo sfasciume... si fa sentire sulle gambe. D'altro canto, il panorama sull'Alpe di Siusi e sulla Val Gardena (curiosità: si può vedere anche il tratto iniziale della Saslong, la pista in cui si disputano le gare di Coppa del Mondo di sci alpino) rimane immenso, fino alla Forcella Ciaulonch. Lungo tutto questo tratto, si può toccare con mano la possanza e la verticalità delle pareti del Sassolungo: rimanendo sul sentiero alto (dopo la Forcella Ciaulonch si può continuare il percorso su un sentiero più agevole in basso) ci si cammina a fianco, a volte su una piccola cengia. In alcuni tratti, invece, il sentiero "entra" nella pietra e si può camminare proprio sotto la nera roccia del Sassolungo. Proprio qui si può meglio apprezzare l'origine del Sassolungo e delle rocce che lo compongono, un enorme affioramento calcareo proiettato direttamente verso l'alto, dove non esistono fasce intermedie tra i pascoli e la roccia. Alzando lo sguardo, lo strapiombo del Sassolungo è assolutamente impressionante. 

Scorci di Val Gardena

Al Rifugio Comici (più ristorante di classe che rifugio alpino, mi preme segnalare) appare finalmente anche il Gruppo di Sella. Ne approfitto per fermarmi e bere qualcosa di fresco. Caronte è arrivato anche qui, in quota, e ho una sete pazzesca. Dal Rifugio Comici fino ai rifugi del Passo Sella (Passo Sella, Valentini, Salei), il sentiero è un grande balcone sul Gruppo di Sella e sulle vette del gruppo. Da qui, le vette del Sassolungo iniziano finalmente a diventare chiare, o meglio, riconoscibili. Ci ho messo una giornata, ma infine sono riuscito a distinguere il Sasso Levante (o Punta Grohmann, dedicata al primo salitore del Sassolungo, Paul Grohmann) dalla Torre Innerkofler e il Sassolungo dalle Cinque Dita. Una curiosa leggenda è legata al nome di questa vetta, che in realtà è fatta di molteplici punte. Si narra che nei dintorni del Sella vivessero giganti pacifici in pace ed armonia con i montanari. Uno di loro, il Sassolungo, era però più discolo e si divertiva a farne di ogni colore agli alpigiani. I giganti non vollero credere alle sue bugie e per mezzo di un incantesimo venne seppellito sottoterra. Ma rimase fuori una mano, quella che oggi prende il nome di Cinque Dita.


Il Salame Comici

Prima di arrivare al Passo Sella, si incontra un'area che è curiosamente denominata Città dei sassi. Si tratta di enormi e spettacolari blocchi che si sono letteralmente staccati dalla parete est del Sassolungo (circa diecimila anni fa). Questo è l'unica traccia intermedia tra la parete verticale e i pascoli circostanti nel gruppo del Sassolungo. Tutti i grandi giganti dolomitici sono circondati da ghiaioni e zone di frana (uno degli esempi più lampanti è il gruppo delle Tre Cime di Lavaredo), mentre il Sassolungo no. La Città dei Sassi è l'unica traccia di una frana nel gruppo del Sassolungo; il sentiero basso tra il Rifugio Comici e il Passo Sella si perde in questo labirinto di massi, un labirinto che suscita grande malinconia. Perché, presto o tardi, questa sarà la fine delle Dolomiti, indipendentemente all'antropizzazione di questa area o dai cambiamenti climatici. 

La Città dei Sassi

Cerco di superare il più velocemente il bailamme di Passo Sella. Un paradiso rovinato dalla mercificazione del territorio: alberghi che si professano rifugi, orrendi impianti di risalita per sciatori, sentieri che sono stradone, orrendi parcheggi. Affronto l'ultimo dura salita del giro, quella alla Forcella Rodella, il passo che sta ai piedi del Col Rodella, ove arriva una funivia dalla Val di Fassa. Tutte le opere che si trovano qui sono decisamente invasive sul paesaggio del Passo Sella, assai poco rispettose dell'ambiente e del panorama di uno dei più meravigliosi passi dolomitici. 

Il gruppo di Sella

Dal Col Rodella il giro del Sassolungo e del Sassopiatto segue il sentiero noto come l'Alta Via Federico Augusto. Parte dal Col Rodella e termina all'Alpe di Tires, e prende il nome dal re di Sassonia, Federico Augusto III. Oltre ad essere un sovrano, Federico Augusto III era un escursionista e uno scalatore provetto. Quando veniva in montagna (soggiornava a Siusi allo Sciliar) amava rimanere nell'anonimato, mescolandosi a montanari e scalatori. Era un alpinista instancabile, i suoi accompagnatori lo descrivono come un amante della natura, è per amore della natura non si poneva problemi ad affrontare gelo e pioggia, o lunghe escursioni di oltre dieci ore. Proprio per questi motivi era molto amato dai montanari di Siusi e dalle sue guide. Nell'occasione della sua scalata al Großglockner, fece recapitare alle sue guide un prezioso premio: una fibbia d'argento decorata con il simbolo della corona sassone. Un monarca come pochi.

Praterie fiorite sotto il gruppo del Sassolungo

A Federico Augusto III è dedicato anche un rifugio, l'ultimo prima di raggiungere nuovamente il Rifugio Pertini. Un rifugio meraviglioso, curato nei minimi dettagli, quasi un albergo in quota, e arricchito di tanti stereotipi di matrice tedesca. Cameriere in abiti bavaresi, tavoli sistemati come un Biergarten, la musica di Heidi dalle casse. È chiaramente un rifugio che vuole attrarre i gitanti di un giorno, vista la vicinanza con il Passo Sella, ed è meno interessato agli alpinisti.
Al Rifugio Pertini non manca più molto. Il sentiero si restringe e corre sempre vicino alla roccia, talvolta superando qualche canalone detritico. Occhi in basso per vedere dove si sta andando, occhi in alto per osservare lo spettacolo della roccia del Sassolungo, che proprio nel versante sud concentra diverse vette. Quando vedo che il Dente del Sassolungo, sotto il quale si trova il Rifugio Pertini, è più vicino, capisco che la fine delle fatiche è giunta, e il favoloso giro del Sassolungo e del Sassopiatto è concluso! Ora un po' di riposo è necessario, perché domani avrò ancora a che fare con il Sassolungo, e questa è una montagna che fa sudare...
A presto!
Stefano

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