Visualizzazione post con etichetta Milano. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Milano. Mostra tutti i post

lunedì 8 agosto 2016

Uno sguardo sulla Pietà Rondanini

Ogni momento è buono per altrettanto buona arte. Sempre. Anche trovarsi a Milano per il concerto di Bruce Springsteen può essere un eccellente scusa per scoprire qualcosa di assolutamente nuovo. Io dovrei già recuperare cercando di scoprire Milano – città che ho sempre trascurato, per più di un motivo – ma, nell'impossibilità di farlo nel tempo a mia disposizione, mi sono consolato con una visita ad un pezzo d'eccezione dell'arte italiana. Che guardando alla sua storia, ben poco ha a che fare con Milano e con il luogo in cui è ospitato, l'Ospedale Spagnolo del Castello Sforzesco. Si tratta dell'ultima opera, incompiuta, di Michelangelo: la Pietà Rondanini.

Primi piani sui volti della Pietà Rondanini

La Pietà Rondanini, che prende questo nome dai marchesi romani che l'acquistarono nel XVIII secolo, è ritenuta l'opera incompiuta di Michelangelo Buonarroti, alla quale vi lavorò negli ultimi giorni prima di morire, a Roma, il 18 febbraio del 1564. Per molti altri quest'opera rimase in una bottega romana, prima di essere venduta ai marchesi Rondanini, i quali la disposero nell'omonimo palazzo romano di Via del Corso. Nel 1952 fu (inspiegabilmente) venduta al Comune di Milano, che la destinò alle Raccolte del Castello Sforzesco. Dall'anno scorso, dopo lunghi lavori di restauro, è visibile al pubblico nel nuovo museo dedicato esclusivamente a quest'opera, e allestito all'interno del Castello Sforzesco.
Osservando la Pietà Rondanini salta subito all'occhio che l'opera è incompiuta. Solo le gambe di Cristo e quello che avrebbe dovuto essere un braccio nella prima versione. Si, perché quello che si può oggi vedere della Pietà Rondanini è frutto di ripensamenti dell'artista - anche causati da una fessura nel marmo, che obbligò Michelangelo a dover scolpire la Madonna e il Cristo in un unico blocco. Di incompiuto, rimane molto, quasi tutto, ma i lineamenti sofferenti di madre e figlio sono ben impressi nel marmo. Ma la bravura e la capacità scultorea di Michelangelo sono massime anche in quest'opera non portata a termine: in un blocco unico, dove madre e figlio sono incorporati in un'unica figura, si intravedono più scene, la morte di Cristo, la sua deposizione e quindi la resurrezione.

I due metri della Pietà Rondanini nel nuovo museo all'interno del Castello Sforzesco

L'opera incompiuta indubbiamente affascina. Induce a riflettere su come avrebbe potuto essere completata, è bello poter immaginare come l'avrebbe terminata Michelangelo, o come l'avremmo finita noi. Nei due metri di marmo c'è molto della filosofia e del pensiero del Buonarroti, così dicono i critici. A me piace di più pensare a ciò che Michelangelo, costretto dal marmo a dover scolpire madre e figlio nel medesimo blocco, ha voluto farci vedere: madre e filgio sono un'unica entità, in cui non ci è dato di sapere chi sorregge chi: è la Madonna a sorreggere un figlio prossimo alla resurrezione, o è Cristo a soccorrere le pene della madre? Non lo sapremo mai, e i critici d'arte possono solo continuare a inventare teorie affascinanti. Ma in fondo va bene così. Gli ignoranti come me, continueranno ad osservarla, sempre con stupore. D'altronde, il nuovo allestimento dedicato alla Pietà Rondanini, che permette di ammirarla a 360°, è fatto apposta per stupire chi si vuole affacciare alla scoperta dell'ultima meraviglia di Michelangelo.
Bis bald!
Stefano

martedì 5 luglio 2016

There's magic in the night

Ci sono forse parole per raccontare un concerto di Bruce Springsteen? Si può spiegare in qualche modo come ci sente durante e dopo un concerto di The Boss? Il rapporto, ai confini del viscerale, che si instaura tra il grande rocker del New Jersey e il suo pubblico trascende l'immaginabile. Il vortice di sensazioni che ti coinvolge in quelle quasi quattro ore di concerto è un incredibile miscela di energia, nostalgia, commozione, adrenalina. C'è tutto in un suo concerto. E quando lo vedi una volta, non puoi più essere lo stesso.

Let's rock! Bruce in Land of hope and dreams, prima canzone in scaletta

Fu per me così quattro anni fa, quando partecipai al mio primo concerto di Bruce Springsteen. Ai tempi non lo conoscevo ancora proprio bene, avevo ascoltato gli ultimi album ma la sua discografia degli anni Settanta e Ottanta mi era quasi sconosciuta - fatta eccezione per i classici. Sono parzialmente perdonato: io ho all'incirca la stessa età del suo album più famoso, Born in the U.S.A., uscito proprio un anno prima che io nascessi - correva l'anno 1984. Da quel momento la passione per questo cantante mi ha travolto, la sua musica mi accompagna nella preparazione delle maratone ed è come nei grandi giorni in alta via. Nei momenti importanti, Bruce c'è. E c'è stato anche il giorno del mio matrimonio. Inevitabile che fosse prioritaria per me la caccia al biglietto per la (prima) data milanese del The River Tour 2016, serie di concerti in cui celebra i trentacinque anni dall'uscita di The River, un altro album essenziale nella sua discografia. Un tour "strano", senza album a supporto, annunciato senza molto preavviso, ma non per questo meno seguito.

Uomo del popolo

Stavolta non sono più da solo sulla tribuna di San Siro, con me ci sono quattro persone speciali a condividere questa emozione. E a condividere pareri, opinioni, al termine della maratona musicale che è un concerto di Springsteen. Ognuno arriva a San Siro con una sua storia personale, privata e in qualche modo legata a The Boss.
Dario lo ascolta da una vita, ma per un motivo o per l'altro non è mai riuscito a trovare il biglietto per un suo concerto. Fortunatamente ci ha pensato sua moglie Sara a fargli questo regalo di compleanno, un sogno che si realizza, un giorno che non potrà mai più dimenticare. Ah, se Dario un giorno non mi avesse passato il CD di The Rising durante la pausa pranzo dell'università, probabilmente non sarei neanche qui a raccontare del concerto di domenica.
Non so che cosa leghi invece Barbara a Francesca a Bruce Springsteen. Ma la loro emozione è palpabile. È il salto nel tempo: trentuno anni fa loro c'erano a San Siro, durante il primo concerto in Italia di Springsteen. E chi c'era quel giorno tramanda sempre che fu qualcosa di leggendario.

A due ore dall'inizio!

Un concerto è un concerto: ma un suo concerto è un'altra cosa. Prendiamo la durata: quasi quattro ore ININTERROTTE di musica. Chi altro le fa? Ligabue (presente ieri a San Siro, a quanto pare), due anni fa, concerto meraviglioso, ma... due ore, per altro intervallate, e basta. Ma a tanti altri gruppi non piace spingersi oltre due ore/due ore e mezza di concerto. Bruce, che viaggia verso i 67 anni, invece no: quasi quattro ore di musica sul palco, un animale da stadio.
Che, personalmente, mi accende in canzoni come Born to run, Out in the street, Darlington County, The rising o la famosa Born in the U.S.A., in cui non canta, ma urla le canzoni, con una grinta fuori dal comune. Questa passione accende la folla, ed essa risponde con altrettanto calore.

I sogni vivono stanotte (© Mathias Marchioni)

San Siro è un tempio del calcio ma lo è anche della musica. Tutti i concerti più leggendari tenutisi in Italia passano di qua: Bob Marley, Madonna, Michael Jackson, Bob Marley, David Bowie, U2, Muse sono alcuni tra i cantanti e le band che si sono esibite a San Siro. Ma come dimenticare il concerto del 21 giugno 1985? Sarà proprio questa data a far sbocciare la relazione di amore oggi più che mai attuale tra Springsteen e il Bel Paese. Ventotto brani, più di sessanta-settantamila fan in visibilio. Un trionfo.

Un uomo con la sua Fender Telecaster

Per passare poi al 28 giugno 2003, che lo stesso Bruce Springsteen annovera come uno dei suoi concerti più belli di sempre: «Dopo un paio di canzoni è venuto giù uno dei diluvi più incredibili che abbia mai visto. Eravamo sul punto di smettere, anche perché eravamo preoccupati che un fulmine centrasse l'impianto elettrico. Ma non uno di voi sessantamila pazzi italiani s'è mosso di un centimetro, e così abbiamo continuato e ne è venuto fuori quello che io considero uno dei migliori cinque concerti della mia vita.» Cercate Waitin' on a sunny day e "San Siro 2003" su YouTube: troverete un Bruce Springsteen cantare con gioia infinita questa canzone sotto uno spaventoso diluvio di proporzioni bibliche. E i suoi fan... scatenati sotto il palco!
Ed è Bruce stesso a sottolinearlo in concerto: Milano è una città speciale per lui e la sua band. Quella di domenica, è stata la sua sesta esibizione a San Siro.

Dentro San Siro

Ma non è solo il rock più puro che fa tremare San Siro. Anche le melodie di ballate come The River, Jungleland e Indipendence day, fanno vibrare gli animi più sensibili presenti ieri a Milano. Alcuni sono arrivati a piangere. Una canzone, una canzone bella, che effetto può avere dentro di noi? Potrebbe essere legata ad un ricordo, ad una storia d'amore, ad un amico, ad un aneddoto lontano decenni, ad un caro che non c'è più. Alla gioventù. Molti dei presenti ieri a San Siro sono persone che superano i quarant'anni. Come è normale e giusto che sia. Ma Bruce è un cantante che unisce le generazioni. Sulla metropolitana verso San Siro, ho visto famiglie, in cui i genitori hanno trapiantato la cieca fede per Springsteen ai loro figli. Ho visto ragazzine ansiose di vedere The Boss, con un entusiasmo tale che si potrebbe pensarle dirette ad un concerto di Justin Bieber. Tanti volti, tante età, tanti modi di reagire ai pezzi più commoventi: c'è chi se ne sta in religioso silenzio (come me), c'è chi scoppia in lacrime.

A furor di popolo

Bruce Springsteen per alcuni fan è considerato alla stregua di una divinità. E i suoi seguaci sono quasi come una confraternita. Arrivano da tutto il mondo ad ogni suo concerto, lo seguono in buona parte delle sue date. A detta della signora dell'albergo milanese presso il quale ho pernottato durante questo fine settimana, ci sono fan dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti! E allo stadio... ci sono persone che vestono magliette visibilmente consunte risalenti al Born in the U.S.A. Tour, altri che mostrano con orgoglio tatuaggi con l'icona di Springsteen sui bicipiti.
Poi ci sono quei fortunati che questo concerto non se lo dimenticheranno mai, come i/le giovani che Bruce ha portato con sé sul palco per suonare e cantare Dancing in the dark con Bruce e la E-Street Band. Bruce Springsteen, vox populi.

Quattro improvvisati chitarristi

Un concerto di Springsteen, come quello di domenica, è tante anime fuse tra loro in un unico vortice di musica. Nelle quasi quattro ore di show ci trovi il riassunto di una discografia immensa, ci trovi tutto lo spirito della working class hero di cui Bruce Springsteen è il miglior esponente. Ci trovi il sogno americano di Land of hope and dreams, sogno che è fatto del duro sacrificio raccontato in Jackson cage e Badlands ma anche della speranza cantata in Lucky town, infine del trionfo in The rising. Ci trovi storie di sentimento, a volte crudele, come in The river, a volte nascosto, come in Indipendence day, a volte dolcissimo, come in Sherry darling.

Luci a San Siro

L'apoteosi arriva quando si accendono i riflettori di San Siro. Ci siamo, è il momento, Bruce sta per iniziare i "bis", con la doppietta Born in the U.S.A. + Born to run. Delirio totale, non potrebbe essere altrimenti, per questi due pezzi leggendari. Bruce non vorrebbe mai andarsene dal palco, e il siparietto con Little Steven lo spiega bene a tutto il pubblico. Bruce non vorrebbe mai lasciare il suo popolo, ma ahimè, arriva il momento in cui deve salutarlo. Non prima di una esecuzione acustica di Thunder road. Questa si che lascia il segno.

Con Jake Clemons e Little Steven

E al termine, quando anche lui scompare nel dietro le quinte, rimane una grande nostalgia. Perché lo spettacolo è appena finito, sei stanco perché hai ballato per quattro ore, sei senza voce perché già dopo la prima canzone non ne avevi più, figurarsi dopo... Ma come vorresti che tutto ricominciasse dall'inizio!
Non possiamo che confidare in un suo nuovo album, un suo nuovo tour, una nuova esibizione in Italia (magari a San Siro...), un concerto il più presto possibile, insomma... Lunga vita a Bruce Springsteen!

Bruce e la E-Street Band ai saluti

"When I'm out in the street, I walk the way I wanna walk
when I'm out in the street, I talk the way I wanna talk
when I'm out in the street, when I'm out in the street"
Bruce Springsteen, Out in the street

domenica 3 luglio 2016

Dreams are alive tonite

We're runnin' now but darlin' we will stand in time
To face the ties that bind
The ties that bind
Now you can't break the ties that bind
You can't forsake the ties that bind
Bruce Springsteen, The ties that bind

Stadio Giuseppe Meazza... - 1 ora all'arrivo di Bruce Springsteen

Gente con la gioia nel cuore, gente di tutte le età, vecchi e bambini, gente che vuol divertirsi, gente che aspetta di saltare al ritmo di rock'n'roll, gente che vuole urlare a squarciagola canzoni che sono già leggenda, di ieri e di oggi, gente che vuole sognare con The Boss. Questo è il popolo di Bruce Springsteen, questo è il popolo che lo aspetta nella prima data italiana del The River Tour.

giovedì 8 ottobre 2015

Un concentrato di design - La Top-10 dei padiglioni di Expo2015

Ciao a tutti!
Manca poco alla fine di Expo2015, sicuramente il più importante evento tenutosi in Italia nel 2015. Dopo aver raccontato le sensazioni della giornata trascorsa a Milano (vedi post), voglio ora stilare la classifica dei padiglioni più belli di Expo. Non tanto per il loro contenuto - ci andrebbero giorni di visita - ma per il design, lo stile e il gusto che li contraddistinguono nella loro struttura esterna.
Buon...giro del mondo!
Stefano

10. Cina. Ai cinesi piace essere i primi e dominare il mondo. Non si risparmiano quanto ad audacia e sobrietà, e lo provano anche ad Expo2015, dove si presentano con una specie di doppia onda. Assolutamente spettacolare.


9. Bielorussia. Non sarà di certo il padiglione più impattante di Expo2015 - peraltro nessuno lo cita nei consigli di visita - ma la "ruota della vita" è una delle idee più originali viste a Milano: una sorta di mulino in cui l'acqua viene sostituita da sgargianti cristalli liquidi.


8. Azerbaigian. Strano, ardito, complesso: tutto questo è il padiglione dell'Azerbaigian, un concentrato di modernissimo design sia esternamente che internamente.


7. Malesia. La struttura del padiglione malese riprende quella dei quattro semi della foresta pluviale ed è costruita in legno strutturale ricavato da materiale locale. Effetto scenico garantito.


6. Germania. Anche i tedeschi sono gente creativa, e io lo sono bene... Il padiglione tedesco, uno dei più frequentati tra quelli europei, ovviamente dopo quello italiano, è esternamente un mix tra il Sydney Opera House e l'Olympiapark di Monaco. Come sempre, proiettati verso il futuro.


5. Kazakistan. Un grande specchio frastagliato per il "paese del futuro", come ama definirsi. Non sappiamo minimamente cosa volesse offrirci il padiglione kazako, ma esternamente lascia a bocca aperta.


4. Russia. Ai sovietici pare che piaccia guardarsi e riguardarsi e quindi, dopo lo specchio kazako, è il turno dello specchio russo. Solo un po' più grande ed incline ai selfie.


3. Emirati Arabi Uniti. Troppa la coda per entrare in uno dei padiglioni definiti tra i più interessanti. Anche il design scelto per Expo2015, mimimalista e con i toni del deserto, lo rende tra i più fotografati e riconoscibili della manifestazione. D'altronde, è stato progettato da un certo sir Norman Foster...


2. Gran Bretagna. L'alveare del padiglione britannico, che si ispira al movimento di un'ape, ci mostra quanto siano importanti le scelte globali sul futuro dell'alimentazione: e ai visitatori, fa girare la testa.


1. Ecuador. Guardatelo: non ci si può non innamorare di fronte a tanto colore, tanta gioia e tanta vita. Assolutamente il mio preferito.


Fuori categoria. Italia. Ai francesi piace dire "hors catégorie", e fuori categoria lo è veramente. Ispirarsi alla natura (in questo caso ad una ragnatela) e rispettare la natura (la struttura è fatta in un cemento speciale che elimina l'inquinamento tramite processi di fotoossidazione) ci pongono, secondo me, un gradino di fronte a tutti i partecipanti. Brava, Italia!


venerdì 18 settembre 2015

Visioni e sguardi di Expo 2015

Expo Milano 2015: finalmente ci siamo andati, finalmente trovo il tempo di raccontare cosa è stata per noi questa edizione dell'Esposizione Universale, parlarne un po' e fare qualche riflessione su quello che è sicuramente l'evento dell'anno, quantomeno su territorio italiano.
Inizio con una precisazione: quanto sto per scrivere si basa su quel poco che abbiamo avuto occasione di vedere nella nostra unica giornata trascorsa ad Expo. Il “poco” è dovuto alla vastità della manifestazione, che è impossibile da gustare pienamente in una sola giornata. Ci sono così tante cose che si possono visitare ad Expo2015, così tante persone e così tante code di fronte ai padiglioni, che poter dire di aver interamente vissuto Expo2015 è un eufemismo. D'altronde, parliamo di un evento realizzato su uno spazio espositivo di 110 ettari, in grado di contenere 250.000 persone al giorno, che coinvolge 145 nazioni in rappresentanza del 94% della popolazione mondiale. È qualcosa di così immenso per cui ogni giudizio basato sull'osservazione di fatti e cose nell'arco di una giornata di visita è piuttosto relativo. Credo che si debba essere milanesi o si debba pianificare una settimana di visite per poter dire di avere veramente vissuto Expo2015.

Meraviglia: l'Albero della Vita

Cosa abbiamo visto ad Expo2015? Poco, niente, tanto, tutto: dipende dai punti di vista.
POCO, perché nel complesso abbiamo visitato dodici padiglioni “nazionali” su 53. Per la precisione: Austria, Azerbaigian, Gran Bretagna, Israele, Kuwait, Malesia, Nepal, Oman, Russia, Vietnam, includendo le visite parziali di Germania e Svizzera in parte ed escludendo l'inutilissimo Sudan. In più, la doverosa visita al Padiglione Zero (padiglione delle Nazioni Unite), che però non è un vero e proprio padiglione nazionale.
NIENTE, perché i padiglioni che nei primi mesi della manifestazione hanno raccolto il maggior consenso, per interesse e spettacolo (citerei Emirati Arabi Uniti, Giappone ed Italia), erano presi d'assalto dai visitatori: le due ore di coda per Emirati e Giappone e le – addirittura!!! – tre ore di coda per il Padiglione Italia ci hanno scoraggiati; non siamo venuti ad Expo2015 per metterci in coda, siamo venuti ad Expo2015 per ammirare la bellezza del mondo nella sua varietà e nelle sue infinite sfaccettature, pertanto l'abbiamo cercata altrove.

Il Palazzo Italia

Dunque, direi che abbiamo visto MOLTO, perché, seppur nella sua piccola parte, ciò che abbiamo visitato è stato complessivamente assai piacevole, divertente e formativo. Abbiamo imparato che i paesi arabi appaiono arretrati solo in apparenza, siamo rimasti ammaliati dal folclore di un paese a noi semisconosciuto come l'Azerbaigian, le grandi capacità di un paese talvolta bistrattato come Israele, ci siamo fatti stregare dalle tradizioni e della cucina del Kuwait, abbiamo apprezzato le idee stilistiche di inglesi e russi.
E infine potrei affermare di aver visto TUTTO, in quanto abbiamo visto, quantomeno esternamente, tutti i padiglioni dei vari paesi ospitati ad Expo2015, i cosiddetti “self-built”. Le moderne strutture messe in piedi dai singoli stati, così diverse tra loro nelle forme e nei colori erano quasi tutte meravigliose, il loro stile riflette l'anima e il gusto di ogni singolo stato. Poterli osservare era una gran gioia per gli occhi e per l'anima.

Azerbaigian = top of design

Delusione? Non per me. Sono uscito da Expo2015 felice, conscio di aver trascorso una giornata veramente «in mezzo al mondo». C'è veramente tanta bellezza in questo palcoscenico, che merita di essere ammirata. Ciò che colpisce di più in primo luogo è il Cardo, il lungo viale di un chilometro e mezzo, vero asso portante di Expo2015, lungo il quale sono dislocati i padiglioni nazionali ed i cluster tematici: la copertura progettata per il Cardo è una delle meraviglie di Expo2015. Le strutture e l'originalità stilistica dei padiglioni, tutti o quasi, non possono non colpire i visitatori, catapultati in una realtà dal design estremizzato. Le nazioni si sono veramente messe in gioco per mostrare al mondo il loro meglio, in un clima pacifico, nel vero spirito dell'Esposizione Internazionale. Poi c'è l'Albero della Vita che si, è davvero stupefacente, soprattutto nella sua versione notturna, fatta di giochi di luce e supportata da spettacoli musicali.

Il Cardo, il lungo asse di Expo2015

Certo, le diffidenze, gli scetticismi e alcune perplessità resteranno. La vicenda Expo è stata sulle bocche di tanti e di troppi per lungo tempo: le varie associazioni a delinquere smascherate, le polemiche per i ritardi accumulatisi durante i lavori, gli appalti e i subappalti, i costi per la costruzione e la gestione, i lavoratori sottoretribuiti (ma sarà poi vero?)… tutti argomenti di discussione che alla fine hanno in parte minato la credibilità di Expo2015, evento che dovrebbe servire a rilanciare il sistema-Italia. Solo una visita ad Expo2015 può realmente spazzare via tutte le malignità che hanno ruotato intorno a questa manifestazione.

Mettete dei fiori sulle bici malesi

Ma è tutto così perfetto ad Expo2015? Oh, no, affatto. Se globalmente è un'ottima manifestazione, qualche punto debole c'è. Il sito web di Expo non mi è parso di facile navigazione, discutibile la gestione dei parcheggi (dalla prenotazione online alla viabilità), la zona orientale impoverita di visitatori in quanto l'ingresso principale è sostanzialmente quello occidentale, ristoranti e bancarelle a prezzi a mio modo di vedere non eccessivi ma comunque sopra la media. Anche la questione degli assi portanti avrebbe potuto essere organizzata meglio, all'incantevole Cardo fa da contraltare un Decumano sul quale non bastano le aree espositive italiane per bilanciare l'immensità dell'altro asse di Expo2015.

Le bancarelle del Cardo: il macellaio

E che dire dei cluster? All'apparenza uno dei più geniali elementi organizzativi di Expo2015 si è rivelato una delusione: le aree comuni predisposte secondo identità tematiche e tradizioni alimentari, nate come spazi di dialogo e di aggregazione per gli stati più poveri, che non potevano permettersi economicamente un proprio padiglione, si sono rivelate un'accozzaglia di mercatini spesso sconnessi dai loro intenti. Nel cluster del cacao abbiamo trovato bancarelle piene zeppe di cianfrusaglie, ma zero cioccolata. Per trovare la cioccolata bisognava andare nei padiglioni di Lindt e Perugina. E qui vengo all'altra nota stonata: le grandi compagnie (il mio dito è puntato su alcune di esse) dovevano proprio far parte di Expo? A McDonald's e Unilever non interessa nutrire il pianeta, a loro interessa nutrire i loro conti correnti.

L'omaggio russo a Mendeleev

Lo slogan di Expo2015 è “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Ma è veramente lo sforzo comune di tutti “nutrire il pianeta”? Ecco, l'impressione che ho avuto nel visitare alcuni dei padiglioni presenti a Milano è che tutti i paesi ospitati si candidino a leader globale per trainare il pianeta Terra fuori dalla tragedia della fame e della malnutrizione, che tutte le nazioni più importanti si considerino le migliori per “potenziale per garantire la sicurezza alimentare del genere umano” (citazione del padiglione russo). Ecco, ma chi è infine che realmente si prende carico del problema e inizia a togliersi il paraocchi? I veri temi da approfondire, quelli relativi allo sbilanciamento tra l'Occidente e il Terzo Mondo, dello spreco di risorse alimentari, dell'avidità dei paesi più industrializzati sono stati scarsamente toccati. Forse perché non creano interesse o non suscitano stupore.
Tra i padiglioni visitati, forse solo il Padiglione Zero, bellissimo per carattere visionario e per significati, ma allo stesso tempo eccessivamente ampio e quindi in parte “spreco”, ha provato a toccare queste tematiche. E aggiungerei la Svizzera, che con la domanda «ce n'è per tutti?» e le quattro torri simbolicamente riempite di caffè, sale, acqua e mele, ha provato a sensibilizzare la platea sul tema dell'effettiva quantità di risorse a disposizione: ne possono prendere a volontà, sapendo che chi verrà dopo deve trovare qualcosa... Pur non avendoli visitati sono sicuro che Slow Food abbia provato coinvolgere i visitatori sulla problematica, mentre mi chiedo con quale faccia Stati Uniti e Cina possano parlare di agricoltura ed alimentazione sostenibile.

Le visioni del Padiglione Zero

Cosa suggerirei a coloro che ad Expo2015 devono ancora andare (manca poco più di un mese alla fine)? Innanzitutto di arrivare presto, con la metropolitana, e fiondarsi in uno dei padiglioni con più calca già alla mattina (in sostanza uno tra Italia, Emirati Arabi Uniti, Giappone e Germania). Non fermarsi alle apparenze: il Nepal è stata una grande delusione nonostante promettesse molto bene. Tra i padiglioni che consiglio, meritano una menzione speciale quelli di Azerbaigian, un fantastico mix di tradizione locale e design; Israele, una visita multimediale e spettacolare; Kuwait, per scoprire usanze a noi totalmente sconosciute. E se fa caldo, anche una gita al padiglione austriaco: lì sarà sempre fresco... Consiglio ancora il Kuwait per una sosta gastronomica e raccomando di assistere ad uno spettacolo serale dell'Albero della Vita: imperdibile, emozionante, straordinario!
Rimpianti? Qualcuno. Il Padiglione Italia e quello tedesco rappresentano il meglio del nostro paese di origine e del paese in cui viviamo. Non vederli mi lascia con l'amaro in bocca, ma, ahimé, le code erano troppo lunghe. E poi, il padiglione brasiliano: la rete interattiva vista da fuori pare essere qualcosa di spettacolare.

Gran Bretagna: l'alveare

Esco da Expo2015 con una domanda fissa in testa. Che ne sarà del dopo-Expo? Il mio sogno, una vera e propria utopia, sarebbe quella di vedere Expo2015 trasformato in un "museo del mondo". Ma è per l'appunto utopia e quindi mi dovrò accontentare della "cittadella dell'università e dell'innovazione". C'è chi venderà, come il Nepal, bisognoso di fondi per ricostruire dopo il terremoto che l'ha colpito. C'è chi sposterà e riconvertirà le proprie strutture sul proprio territorio, come la Repubblica Ceca e gli Emirati Arabi, o altrove, in beneficenza, come il Principato di Monaco che donerà la sua struttura al Burkina Faso. E tutto il resto? Spero che si salvi il più possibile di quanto si è visto ad Expo2015, lasciare tutta questa meraviglia nelle mani delle ruspe, sarebbe qualcosa di veramente inaccettabile e, soprattutto, sarebbe un grande spreco. Proprio quello che questa edizione di Expo2015 ha voluto provare a combattere...
Bis bald!
Stefano

martedì 13 gennaio 2015

Bonatti, fotografie dai grandi spazi

"Con la nord del Cervino, me lo ero ripromesso, avrei chiuso con l'alpinismo estremo, sostituendolo però con un altro tipo di avventura, altrettanto ispiratrice e capace anche di nutrire e soddisfare ancor più la mia curiosità, il mio sogno, la mia fantasia, e non ultimo, ancor più conoscere il profondo di me stesso. Con il passare degli anni avevo capito sempre più chiaramente che in fondo la mia vera indole era quella di vivere l'avventura nella sua espressione più vasta e universale. Se ti è nato il gusto di scoprire non potrai che sentire il bisogno di andare più in là. Pertanto, avrei insomma voluto abbracciare orizzonti ancora più vasti, e più intimi, in cui poter trasferire tutto ciò che di prezioso la montagna mi aveva già insegnato."
Walter Bonatti


Ciao a tutti!
Nel momento in cui seppi, qualche mese fa, che a Milano si sarebbe tenuta una mostra sull'opera fotografica di Walter Bonatti, non potei far altro che promettermi di mettercela tutta per fare in modo di visitarla. Troppo grande l'ammirazione per Bonatti, troppo forte l'attrazione per i meravigliosi scatti con i quali il grande (forse il più grande?) alpinista ed esploratore lombardo ha corredato i suoi reportage in giro per il mondo. Milano, e il suo Palazzo della Ragione, ridonano memoria a questo protagonista del dopoguerra italiano, in grado di conquistare il cuore delle donne e lo stupore degli uomini con le sue meravigliose imprese alpinistiche prima ed emozionanti avventure dopo. Proprio nell'anno in cui cade il cinquantesimo anniversario della memorabile ascesa di Bonatti al Cervino (22 febbraio 1965), in solitaria, invernale e lungo una nuova via.

L'allestimento di Palazzo della Ragione (fonte: arttribune.com)

Una mostra molto semplice ed intuitiva, "Walter Bonatti - Fotografie dai grandi spazi". Si comincia con il Bonatti che tutto il mondo meglio conosce, quello delle grandi montagne conquistate in solitaria come il Dru o il Cervino. O quello delle grandi delusioni (K2) o delle enormi tragedie (Frêney). Poche foto, ma corredati degli oggetti di una vita, come la sua macchina fotografica che lo accompagnerà per più di dieci anni sulle pareti di tutto il mondo. Il suo casco, i suoi ramponi, la macchina da scrivere. In sottofondo, poche toccanti immagini, corredati dalla candida e pacata voce di Walter. Una voce che tutti i visitatori ascoltano, con attenzione, nella prima sala della mostra.

1972: Namibia, Deserto del Namib, foto di Walter Bonatti (fonte: artslife.com)

La mostra continua con un enorme spazio dedicato alle fotografie raccolte durante le esplorazioni compiute in tutti i continenti della Terra, come inviato per il settimanale Epoca. Senza un ordine logico, a parer mio. Ma non ce n'è bisogno. Perché la bellezza e la grandezza, due caratteristiche che Bonatti ha saputo cogliere così bene nei luoghi che ha avuto la capacità di poter fotografare (e lui di risorse psicofisiche ne aveva da vendere), non hanno una loro precisa logica. Non sono fotografie, come si potrebbe dire, "di autore", ma sono scatti di testimonianza. Di un mondo che non c'è più se non nei nostri sogni, o forse nelle parole dei grandi narratori che ispirarono Bonatti: Melville, London, Defoe.

Gli attrezzi del mestiere

La grandezza della natura, la sua meraviglia, e la piccolezza dell'uomo di fronte a ciò che ci circonda sulla Terra. Questi sono i temi portanti dietro alle foto di Walter Bonatti. In un misto di incredulità, virtù e misticismo, il visitatore segue il percorso espositivo ammirando spazi che molto probabilmente non potrà mai vedere a occhio nudo, dal vivo. Infinite colline di sabbia nei deserti più inospitali, specchi d'acqua cristallina, colonne di roccia o di ghiaccio in Sudamerica, grigie pianure senza fine nelle lande africane, fessure al limite dell'impossibile, foreste di difficile risoluzione, geometrie che solo un'entità superiore può avere progettato, ineguagliabili giochi di luce e colori, paesaggi al limite della sopravvivenza, la roccia fusa o il ghiaccio più impetuoso, gli animali apparentemente più pericolosi. Godiamoci quest'opera così, come bambini che fanno le loro prime scoperte.

1976: Antartide, quadrante neozelandese, foto di Walter Bonatti (fonte: artslife.com)

E ringraziamo Bonatti, che ha saputo e voluto divulgare questa bellezza. Per non dimenticarci cosa e dove siamo noi umani.
Bis bald!
Stefano

giovedì 8 gennaio 2015

Segantini ed uno sguardo milanese sulle Alpi

Ciao a tutti!
Nonostante la bronchite che ha rovinato i miei piani per le vacanze natalizie, non mi sono fatto mancare un paio di mostre entrambe tenutasi a Milano. Nonostante non sia un amante del capoluogo lombardo, questa volta ho voluto fortemente spendervi una giornata. E non me ne sono assolutamente pentito.
La prima di queste, di cui parlerò in questo post, è la mostra "Segantini" e raccoglie buona parte delle opere di questo pittore, Giovanni Segantini, tra i massimi esponenti dell'arte italiana dell'Ottocento.

Mezzogiorno sulle Alpi (Meriggio o giornata di vento), 1891 (fonte: arttribune.com)

Le opere scelte per questa mostra, provenienti da tutta Europa e anche dagli Stati Uniti, ma soprattutto dal Museo Segantini di St.Moritz, raccontano benissimo l'articolato percorso di questo artista, dalla gavetta milanese fino ai successi costruiti sulle montagne dell'Engadina.
La mostra segue una linea netta nella carriera di Segantini. Si inizia con le opere della gioventù milanese, accademiche e dettate dalla tendenza del momento. Si continua con il naturalismo del periodo brianzolo, in cui Segantini prende i connotati di artista del mondo contadino. Si termina con l'evoluzione verso il divisionismo del periodo engadino (uno stile che prevede la separazione del colore in linee, di cui Segantini fu uno dei massimi esponenti) che ha nella natura e nei simboli della Terra i soggetti preferiti. Segantini racconta la vita quotidiana, quella più dura e più pura, quella dei contadini. Senza dimenticare che l'uomo non è nulla se non circondato da tutto ciò che Madre Natura ci ha messo a disposizione: il paesaggio rurale di Alla stanga, le montagne di Mezzogiorno sulle Alpi e del Trittico delle Alpi (non presente in mostra), la spiritualità di Le due madri.

Niente male l'offerta di Palazzo Reale...

Nota sull'organizzazione: la grande coda alla cassa (quasi due ore di attesa) era giustificata da una mostra di effettivo valore. Mi sarei aspettato gli ingressi contingentati: e invece ci ritroviamo con una visita guidata di una trentina di persone che costringe tutti quanti a saltare alcune sale od aspettare che l'onda barbarica sia transitata. Folla a parte, l'atmosfera soffusa all'interno delle sale è perfetta.

La raffigurazione della Priamvera, 1897 (fonte: giornalemetropolitano.it)

La mia personale Top-10 della Mostra "Segantini" al Palazzo Reale di Milano, qui visibili.
1. La raffigurazione della Primavera
2. Le due madri (studio di lanterna)
3. Costume grigionese (ritratto di Barbara Huffer)
4. Ave Maria a trasbordo
5. Alla stanga
6. Dopo il temporale
7. Donna alla fonte
8. La raccolta dei bozzoli
9. Mezzogiorno sulle Alpi (Meriggio o giornata di vento)
10. A messa prima

mercoledì 11 giugno 2014

C'è un istante che rimane lì piantato eternamente

Ciao a tutti!
Si dice che la prima volta non si scorda mai. E la mia prima volta in un concerto di Ligabue non può che definirsi indimenticabile. Per me, ragazzo di ventotto anni, Ligabue ha segnato tutte le tappe della mia infanzia e giovinezza, ha cantato canzoni che in un certo senso raccontano la mia storia, ha scritto testi che restituiscono significato ad ogni episodio della mia vita, ha suonato melodie impossibili da dimenticare, come tutti i grandi della musica italiana. Avevo dieci anni quando uscì Buon compleanno Elvis, l'album che lo consacrò definitivamente. Diciannove anni dopo, giunge dunque l'ora del primo live di Ligabue. Avviene in un luogo speciale, in quel di San Siro, il tempio dei concerti rock.

Sul palco di San Siro

L'arrivo a San Siro è sempre emozionante, perché questo è uno stadio speciale, imponente da fuori, imperiale dentro. Le vie attorno allo stadio sono colme di gente, il popolo del Liga sta lentamente arrivando, fluendo in una colonna di luridissimi paninari, bancarelle con magliette e pedanti bagarini. Tutto abbastanza normale… Non abbiamo molto tempo a disposizione per contemplare lo stadio Meazza, ci si accontenta di una porzione di patatine e della tradizionale maglietta del tour, tappa obbligatoria dell'avvicinamento al concerto. Foto di rito di fronte ad una delle inconfondibili torri di San Siro, e dentro, pronti per assistere al grande spettacolo.

San Siro è una grande discoteca

Dalla curva nord (quella dell'Inter, per intenderci) il colpo d'occhio è già impressionante. Il prato di San Siro è già pieno. Non oso immaginare che ressa ai cancelli già dalla mattina. Le tribune non sono ancora piene, ma quando entriamo manca poco più di un'ora e di lì a breve sarebbero state al completo. Il palco su cui di lì a poco si esibirà il Liga mi stupisce, degno delle migliori rockstar internazionali. Neanche per Bruce Springsteen, solitamente tra i più sobri quanto ad effetti speciali, ho visto schermi di tale metratura. Ci sarà da divertirsi, ho pensato immediatamente.

Patatine pre-concerto

Un po' di fumo inizia ad uscire dai lati del palco, e partono i primi cori. I riflettori sono ancora accesi, c'è ancora da attendere. Ligabue aspetta il buio…
Il concerto comincia alle 21.30 in una maniera che definisco immediatamente "potente". Perché sul maxischermo alle spalle compaiono una dopo l'altra scritte che si riferiscono ai recenti fatti di cronaca giudiziaria italiana: “Expo”, “Mose”. “E poi?”. Poi, un fiammifero. Non ci sono più dubbi, l'immagine del "cerino sfregato nel buio" è il segnale che il concerto di San Siro parte con Il muro del suono, una di quelle canzoni rock che Ligabue non proponeva ai suoi fan già da qualche anno. L'inizio è travolgente, Ligabue e la sua band lo sanno bene e trascinano il pubblico di Milano verso un'emozione indimenticabile.

E poi??? Si comincia!

La carica de Il muro del suono lascia spazio in me ad alcune riflessioni personali nel momento in cui ha inizio il secondo brano in scaletta, Il volume delle tue bugie. Su questo pezzo mi rendo veramente conto del valore di questo album, Mondovisione, un disco che ha accompagnato fin dall'inizio la mia avventura in Germania. Il giorno in cui lasciai l'Italia, le radio italiane trasmettevano Il sale della terra a manetta, il giorno in cui sono ritornato conoscevo l'album a memoria. Le dieci ore di macchina tra Schweinfurt e l'Italia dovevano essere coperte da buona musica. E meno male che ci pensava il Liga. Così come nel freddo inverno francone, dalle casse del mio pc uscivano frequentemente le note dei brani dei dischi di Ligabue. Si, la sua musica – e in particolare Mondovisione – ha segnato otto mesi di vita in Germania.

Pronti per entrare in curva nord

Il ritorno alle origini avviene con un classico, I ragazzi sono in giro, un must dei concerti di Ligabue. Immancabile pezzo, e come spesso accade, il brano vecchio trascina molto di più di uno recente. Il prato di San Siro diventa improvvisamente un'enorme discoteca. Sempre così, in ogni concerto che ho vissuto, dagli U2 a Bruce Springsteen.
I pezzi storici di Ligabue sono sempre incredibili: Balliamo sul mondo ha quasi un quarto di secolo di storia ma quel testo un po' provocatorio lo conoscono tutti quanti. E se qualcuno non lo conosce beh, non c'è problema, basta essere in piedi e saltare in mezzo alla folla! Urlando contro il cielo non è molto più recente rispetto a Balliamo sul mondo ma è cantata all'unisono da tutti i presenti. Hai un problema e vuoi sfogarti? No problem, canta Urlando contro il cielo con altre settantamila persone e avrai trovato la soluzione ai tuoi dilemmi. L'amore del popolo di San Siro per il rocker di Correggio si palesa tutto nel momento in cui Ligabue lascia spazio alla voce dei novantamila: con la sapiente scusa dello SCUC (una fantomatica Società Cantanti Ultra Cinquantenni) è il pubblico a cantare un medley di successi composto da Niente Paura, Viva! e Marlon Brando è sempre lui. Il pubblico le sa, le conosce alla perfezione. A me, sinceramente, dispiace non sentire la sua voce su Viva!, una delle mie canzoni preferite.

Di tutto e di più...

Mentre scorrono le canzoni (saranno ventisei alla fine), ti rendi conto perché sia così amato dal pubblico. Perché in fondo Ligabue racconta la vita, la sua, come in Per sempre, ma anche la nostra. Narra gli aspetti più comuni, più semplici, quelli della gente normale. Il suo concerto è un percorso introspettivo nell'anima di tutti, le sue parole scavano a fondo nei sentimenti che ci invadono e pervadono ogni giorno. Non necessariamente l'amore, come nella migliore tradizione melodica italiana, ma anche nel dolore che ci si può trovare ad affrontare da un giorno all'altro. Lo fa in maniera scanzonata, come in Nati per vivere, una veemente ballata rock, in maniera più riflessiva ma senza mai scadere nella depressione, come in Il giorno di dolore che uno ha, una delle mie preferite.
Ovviamente la meditazione non avviene solo sul tema del dolore che ci tocca tutti prima o dopo nella vita, ma anche sull'amore. Su Ho messo via e Piccola stella senza cielo, le due ballate romantiche che Ligabue ha voluto in scaletta, sale forte un pensiero… alla mia destra c'è Giulia. Lascio perdere per qualche minuto la macchina fotografica e la abbraccio, come è giusto fare in occasione di una canzone che mette per un attimo da parte l'irruenza rock, per diventare estrema dolcezza.

Il popolo del Liga ha sempre ragione

Le canzoni del nuovo album sono a mio parere da rivedere in versione “live”. Ciò che rimane di noi non è stata perfettamente arrangiata (o forse il sound in curva non era dei migliori?), mentre da Siamo chi siamo, secondo me la canzone più interessante del disco, mi aspettavo maggiore grinta. Emozionante invece il momento di La neve se ne frega: improvvisamente – non si sa da dove – spuntano migliaia di palloncini bianchi che si elevano nel cielo sopra San Siro, a simulare una fantomatica nevicata di inizio giugno. Nessuna delusione invece da Tu sei lei e Per sempre, due dei singoli estratti da Mondovisione: interpretazione perfetta e incredibile risposta del pubblico, che le conosceva alla perfezione. In Per sempre Ligabue si apre definitivamente al suo pubblico: alle sue spalle scorre un carillon di immagini di famiglia, splendida cornice ad un memorabile testo in cui racconta e si racconta. L'affetto è grande per un'altra delle migliori canzoni del disco, Sono sempre i sogni a dare forma al mondo, anche grazie a un'ottimamente predisposta introduzione parlata del Liga.

Stile e classe per Il muro del suono

Uno dei momenti più forti del concerto arriva con Il sale della terra, il primo singolo estratto dal nuovo album. Una serie di frasi di personaggi famosi, tra cui Hendrix, Kissinger e Montanelli, introduce il brano, un inno contro tutto il male insito nelle diverse forme di potere, un testo di rabbia (sottolineato dall'indicazione dei 23 miliardi di euro di costi diretti ed indiretti della politica in Italia) ma anche testo di speranza per tutti coloro che la speranza invece, l'hanno persa. Il brano più impegnato socialmente dell'album richiama l'urlo di San Siro.

Le tre chitarre

Il sale della terra chiude la fase più interiore e più meditativa del concerto. Dopo, solo più spazio alla gioia, all'amore, alla speranza, alla musica. Un filotto di quattro canzoni, una più urlata (dal pubblico) dell'altra: si comincia con la fiducia di Il meglio deve ancora venire, si continua con l'ode alla musica Tra palco e realtà e le dediche di Quella che non sei, per chiudere con la canzone più amata degli Anni '90, Certe notti. È uno di quei testi che avrà anche vent'anni, ma non passa mai di moda. Una volta si estraevano gli accendini, ora si illuminano gli iPhone, questa è l'unica differenza tra il 1995 ed oggi. Da sempre ammirata in radio o su cd, Certe notti cantata da Ligabue, è tutt'altra cosa. È, parafrasando Il giorno dei giorni, “lacrime e brividi”. Non serve molto accompagnamento, ci pensa quel filo di voce che rimane ancora in gola al pubblico di San Siro. Questo è un brano che tutti conoscono, un momento eterno della musica italiana.

A tutto rock!

La nevicata

Purtroppo arriva anche il momento dei saluti. Mi sarei aspettato una chiusura col botto, magari con Balliamo sul mondo o Urlando contro il cielo, ma essendo già state suonate, non immaginavo come avrebbe potuto chiudersi questa incredibile serata. Ligabue ci dà la soluzione: perché siamo tutti qui, insieme, in questo stadio, in questo caldo? Siamo qui… Con la scusa del rock'n'roll, questo il brano di chiusura. Poi arriva il momento più doloroso, più difficile, quello dei saluti, perché in fondo si vorrebbe che l'allegria che in più di due ore Ligabue ci ha dato non finisse mai, anche se la forza per continuare a cantare ormai è ancora poca. Forse perché ci sono ancora alcune canzoni che vorresti sentire, come Una vita da mediano che – pur non essendo un tifoso dell'Inter, anzi – era perfetta per essere suonata a San Siro, o come alcuni brani di Miss Mondo o Fuori come va?, album che nella scaletta sono stati trascurati.

La band di Ligabue ai saluti

Il gioco è bello quando dura poco, questo si sa. Bello, fantastico, lo è stato veramente, anzi, indimenticabile. Ligabue vuole chiudere il concerto con un ringraziamento speciale per il pubblico della sua decima volta a San Siro: “Se aveste visto cosa ho visto io da qui…grazie di cuore. Non potevo chiedere di più da questa serata incredibile”. Devo dirla tutta? Anch'io…
A presto!
Stefano

LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...