La seconda parte dell'avvincente storia che porta l'uomo in cima al Cervino è fatta di avventure durate un decennio, di uomini d'altri tempi, tenaci e coraggiosi, di ideali patriottici che oggi sembrano spariti, di forza di volontà. La seconda parte della prima salita al Cervino è riassunta nella figura di un uomo, la guida valdostana di Valtournenche Jean-Antoine Carrel.
Descrivere una figura come quella di Jean-Antoine Carrel è cosa tutt'altro che semplice. Era chiamato “il Bersagliere”, perché aveva servito la patria nelle guerre di Indipendenza. Fu questa un'esperienza che lo rese un uomo dal forte spirito nazionalista ed orgoglioso di rappresentare l'Italia in quella che veniva considerata una missione simbolica. Salire il Cervino, pochi anni dopo l'Unità d'Italia, era il mezzo migliore per dichiarare al mondo la grande capacità e l'indipendenza del popolo italiano. Carrel fu addirittura incaricato da un esponente di spicco della politica italiana, l'allora Ministro delle Finanze e fondatore del CAI, il biellese Quintino Sella, di salire fino alla vetta del Cervino nel suo versante italiano, di salirla per dimostrare che il popolo italiano può superare i propri i limiti tramite atti di coraggio eroici (e c'è da fidarsi, centocinquanta anni fa salire sul Cervino era veramente un atto di eroismo).
Non era solo la "questione di stato" ad animare Carrel. Nonostante molte storie terribili venissero narrate sul conto della Gran Becca, Carrel era fermamente convinto di poter vincere quel "mostro" di roccia e ghiaccio. Fu l'unico, assieme all'amico-rivale Edward Whymper, a credere nella fattibilità dell'impresa.
Dal 1857, l'anno del primo tentativo, un po' pionieristico, con l'Abbé Gorret, passarono otto lunghi anni prima di poter salire in vetta. La "questione di stato" divenne in tutto e per tutto una questione personale per Carrel, che questa ascensione la sognò per troppo tempo. I tentativi furono tanti: con l'inglese Whymper, che lo scelse come guida in molteplici occasioni grazie alle formidabili doti di scalatore; con l'irlandese Tyndall, durante il quale tentativo, si fermarono sull'omonimo Pic Tyndall nel famoso passaggio dell'Enjambée; con il fratello Jean-Jacques, il solo con il quale avrebbe voluto veramente arrivare in vetta.
Carrel sapeva bene che l'unico rivale per la conquista del Cervino poteva solamente essere Whymper che, più organizzato e con maggiori mezzi a disposizione, ebbe infine la meglio. Come già raccontato nella prima parte del racconto (vedi post), le fasi che precedettero i tentativi del 14 luglio 1865 furono un concentrato di tatticismo raramente visto in precedenza in montagna. Whymper tenta la salita dalla cresta dell'Hörnli – quella secondo lui più facile da percorrere – Carrel riprova per l'ennesima volta dalla cresta del Leone – l'unica che potesse essere scalata per questioni di patria e per l'onore della Valtournenche. La corsa, il sogno di Carrel verso i 4478 metri si infrange sul passaggio della Cravate, da dove lui e i suoi uomini osservano la festa di Whymper e della sua cordata. La battaglia con l'inglese è persa, e mestamente tornano a Valtournenche, ignari della tragedia che colpì la discesa della spedizione vittoriosa sul Cervino. Il morale di Carrel è a terra. Serve tutto l'impegno di Felice Giordano e in particolar modo dell'Abbé Gorret, per risollevare l'umore di Carrel. Devono salire quella montagna, lo devono fare per la Valtournenche, per la Valle d'Aosta e per l'Italia. Lo devono fare senza clienti, Carrel non vuole mettere in pericolo i suoi compagni caricandosi la responsabilità di ulteriori clienti. Giordano non farà parte della spedizione, saranno Carrel e Gorret assieme ad altri due valligiani, Jean-Baptiste Bich e Jean-Augustine Meynet, a riprovare la salita.
Lascio che siano le parole di Guido Rey ne Il Monte Cervino a raccontare la prima ascesa italiana al Cervino.
Il giorno di domenica 16, dopo aver sentito la messa alla cappella di Breuil, la piccola squadra partì. Giordano rimase, triste e solo al Giomein. «Feci il grave sacrificio di attendere ancora ai piedi del picco, invece di salirlo, – egli scrive in altra sua lettera al Sella – e ti assicuro che questo fu per me un vivissimo dolore».
Li vide col cannocchiale attendarsi al solito bivacco ai piedi della Torre alle 2 pomeridiane. Amé Gorret ha narrato con giovanile entusiasmo questa salita: «Enfin nous traversons le Col du Lion et nous touchons à la pyramide du Mont Cervin. Ce Mont Cervin était donc là, devant moi; nous allions l'attaquer par un dernier et supreme effort; l'étais impressionné, et mes compagnons comme moi; mon coeur battait fort... j'aurais voulu pouvoir l'embrasser ce mont Cervin!»
Il giorno seguente proseguono la salita e raggiungono il segnale di Tyndall. «Nous allions entrer – scrive Gorret, - en pays inconnu, aucun n'êtant allé plus loin».
A questo punto si divisero le opinioni: Gorret proponeva di salire per la cresta e affrontare direttamente l'ultima torre, Carrel propendeva per svoltare a ponente del picco, e superarlo per il versante di Zmutt. Prevalse naturalmente il volere di Carrel, che era il capo e che malgrado la disfatta non aveva perduto l'abitudine del comando. Varcano il passo dell'Enjambée e costeggiano il pendio vertiginoso per afferrare la cresta di Zmutt. Un passo falso di uno della comitiva è una caduta di ghiaccioli dall'alto inducono a riprendere la linea diretta dell'ascesa, e questo tragitto per ritornare sulla cresta di Breuil riesce difficilissimo. Cade un sasso che ferisce Gorret al braccio.
Giungono infine alla base dell'ultima torre. «Nous nous trouvâmes – scrive Gorret – en un endroit presque raisonnable. Quoique cet endroit ne soit pas plus large de deux métres, et qu'il presente une inclinaison de 75 pour 100, nous l'âppelames de tous les noms favorables: le corridor, la galerie, le chemin de fer, etc, etc…»
Credettero di essere al termine delle difficoltà; ma un canalone di roccia che prima non avevano avvertito li separava dall'ultima cresta ove la via sarebbe stata facile. Scendere tutti quattro giù pel canalone non era prudente, giacché non si sapeva ove appendere la corda che avrebbe servito nel ritorno. Il tempo stringeva; convenne ridurre la squadra: Gorret fece il sacrificio, e con lui rimase Meynet. Poco tempo dopo Carrel e Bich erano sulla vetta, «et moi, - scrive Gorret, - pour ne pas me laisser prendre du sommeil, j'expliquais à Meynet la beauté des montagnes et des campagnes de la vallée».
Intanto al Giomein Giordano signora sul suo diario: «Bellissimo tempo; alle 9.30 veduto Carrel e uomini all'Epaule, poi non si videro più. Poi nebbia assai attorno alla cima. Verso le 3.30 si scoprì un poco e vedemmo la nostra bandiera sulla vetta di ponente del Cervino. La bandiera inglese pare uno sciallo nero posto sulla neve, al mezzo.
Dopo queste parole è tracciato sul taccuino un profilo della vetta con le due bandiere, e accanto ad una è scritto: Italia! Il giorno dopo a mezzodì giunsero di ritorno, sani e salvi, i vincitori. Nello scendere avevano veduto tutte le bandiere sventolare sul Giomein in segno di gioia; la fatica, l'ansia della lotta, l'emozione del pericolo erano scomparse. Il loro arrivo fu un trionfo.
La vetta era stata conquistata anche nel versante italiano. La Valtournenche era in festa.
Qualcuno, ancora oggi, si chiede chi abbia vinto. La vittoria è di Whymper, il primo a raggiungere la vetta ma che, anche per troppa fretta, subì le conseguenze del disastro nella discesa, o di Carrel, che vinse un versante più arduo (in condizioni sociali più difficili di quelle di Whymper), riportando sana e salva la spedizione intera? Non mi piace pensare all'alpinismo, o alla montagna in genere, come ad un terreno di sfide e di lotte per una vittoria. Mi piace pensare che siano stati entrambi, con i loro ideali, il loro coraggio e la loro ostinazione, a conquistare il Cervino. E a accendere la fiamma di un sogno che continua, immutato nel tempo se non più grande, a riscaldare il cuore degli appassionati della montagna.
Il versante italiano del Cervino (© Stefania Grasso) |
Descrivere una figura come quella di Jean-Antoine Carrel è cosa tutt'altro che semplice. Era chiamato “il Bersagliere”, perché aveva servito la patria nelle guerre di Indipendenza. Fu questa un'esperienza che lo rese un uomo dal forte spirito nazionalista ed orgoglioso di rappresentare l'Italia in quella che veniva considerata una missione simbolica. Salire il Cervino, pochi anni dopo l'Unità d'Italia, era il mezzo migliore per dichiarare al mondo la grande capacità e l'indipendenza del popolo italiano. Carrel fu addirittura incaricato da un esponente di spicco della politica italiana, l'allora Ministro delle Finanze e fondatore del CAI, il biellese Quintino Sella, di salire fino alla vetta del Cervino nel suo versante italiano, di salirla per dimostrare che il popolo italiano può superare i propri i limiti tramite atti di coraggio eroici (e c'è da fidarsi, centocinquanta anni fa salire sul Cervino era veramente un atto di eroismo).
Non era solo la "questione di stato" ad animare Carrel. Nonostante molte storie terribili venissero narrate sul conto della Gran Becca, Carrel era fermamente convinto di poter vincere quel "mostro" di roccia e ghiaccio. Fu l'unico, assieme all'amico-rivale Edward Whymper, a credere nella fattibilità dell'impresa.
Jean-Antoine Carrel nel disegno di Leonardo Bistolfi per Il Monte Cervino di Guido Rey |
Dal 1857, l'anno del primo tentativo, un po' pionieristico, con l'Abbé Gorret, passarono otto lunghi anni prima di poter salire in vetta. La "questione di stato" divenne in tutto e per tutto una questione personale per Carrel, che questa ascensione la sognò per troppo tempo. I tentativi furono tanti: con l'inglese Whymper, che lo scelse come guida in molteplici occasioni grazie alle formidabili doti di scalatore; con l'irlandese Tyndall, durante il quale tentativo, si fermarono sull'omonimo Pic Tyndall nel famoso passaggio dell'Enjambée; con il fratello Jean-Jacques, il solo con il quale avrebbe voluto veramente arrivare in vetta.
Carrel sapeva bene che l'unico rivale per la conquista del Cervino poteva solamente essere Whymper che, più organizzato e con maggiori mezzi a disposizione, ebbe infine la meglio. Come già raccontato nella prima parte del racconto (vedi post), le fasi che precedettero i tentativi del 14 luglio 1865 furono un concentrato di tatticismo raramente visto in precedenza in montagna. Whymper tenta la salita dalla cresta dell'Hörnli – quella secondo lui più facile da percorrere – Carrel riprova per l'ennesima volta dalla cresta del Leone – l'unica che potesse essere scalata per questioni di patria e per l'onore della Valtournenche. La corsa, il sogno di Carrel verso i 4478 metri si infrange sul passaggio della Cravate, da dove lui e i suoi uomini osservano la festa di Whymper e della sua cordata. La battaglia con l'inglese è persa, e mestamente tornano a Valtournenche, ignari della tragedia che colpì la discesa della spedizione vittoriosa sul Cervino. Il morale di Carrel è a terra. Serve tutto l'impegno di Felice Giordano e in particolar modo dell'Abbé Gorret, per risollevare l'umore di Carrel. Devono salire quella montagna, lo devono fare per la Valtournenche, per la Valle d'Aosta e per l'Italia. Lo devono fare senza clienti, Carrel non vuole mettere in pericolo i suoi compagni caricandosi la responsabilità di ulteriori clienti. Giordano non farà parte della spedizione, saranno Carrel e Gorret assieme ad altri due valligiani, Jean-Baptiste Bich e Jean-Augustine Meynet, a riprovare la salita.
Cervino e non solo |
Lascio che siano le parole di Guido Rey ne Il Monte Cervino a raccontare la prima ascesa italiana al Cervino.
Il giorno di domenica 16, dopo aver sentito la messa alla cappella di Breuil, la piccola squadra partì. Giordano rimase, triste e solo al Giomein. «Feci il grave sacrificio di attendere ancora ai piedi del picco, invece di salirlo, – egli scrive in altra sua lettera al Sella – e ti assicuro che questo fu per me un vivissimo dolore».
Li vide col cannocchiale attendarsi al solito bivacco ai piedi della Torre alle 2 pomeridiane. Amé Gorret ha narrato con giovanile entusiasmo questa salita: «Enfin nous traversons le Col du Lion et nous touchons à la pyramide du Mont Cervin. Ce Mont Cervin était donc là, devant moi; nous allions l'attaquer par un dernier et supreme effort; l'étais impressionné, et mes compagnons comme moi; mon coeur battait fort... j'aurais voulu pouvoir l'embrasser ce mont Cervin!»
Il giorno seguente proseguono la salita e raggiungono il segnale di Tyndall. «Nous allions entrer – scrive Gorret, - en pays inconnu, aucun n'êtant allé plus loin».
A questo punto si divisero le opinioni: Gorret proponeva di salire per la cresta e affrontare direttamente l'ultima torre, Carrel propendeva per svoltare a ponente del picco, e superarlo per il versante di Zmutt. Prevalse naturalmente il volere di Carrel, che era il capo e che malgrado la disfatta non aveva perduto l'abitudine del comando. Varcano il passo dell'Enjambée e costeggiano il pendio vertiginoso per afferrare la cresta di Zmutt. Un passo falso di uno della comitiva è una caduta di ghiaccioli dall'alto inducono a riprendere la linea diretta dell'ascesa, e questo tragitto per ritornare sulla cresta di Breuil riesce difficilissimo. Cade un sasso che ferisce Gorret al braccio.
Giungono infine alla base dell'ultima torre. «Nous nous trouvâmes – scrive Gorret – en un endroit presque raisonnable. Quoique cet endroit ne soit pas plus large de deux métres, et qu'il presente une inclinaison de 75 pour 100, nous l'âppelames de tous les noms favorables: le corridor, la galerie, le chemin de fer, etc, etc…»
Credettero di essere al termine delle difficoltà; ma un canalone di roccia che prima non avevano avvertito li separava dall'ultima cresta ove la via sarebbe stata facile. Scendere tutti quattro giù pel canalone non era prudente, giacché non si sapeva ove appendere la corda che avrebbe servito nel ritorno. Il tempo stringeva; convenne ridurre la squadra: Gorret fece il sacrificio, e con lui rimase Meynet. Poco tempo dopo Carrel e Bich erano sulla vetta, «et moi, - scrive Gorret, - pour ne pas me laisser prendre du sommeil, j'expliquais à Meynet la beauté des montagnes et des campagnes de la vallée».
Intanto al Giomein Giordano signora sul suo diario: «Bellissimo tempo; alle 9.30 veduto Carrel e uomini all'Epaule, poi non si videro più. Poi nebbia assai attorno alla cima. Verso le 3.30 si scoprì un poco e vedemmo la nostra bandiera sulla vetta di ponente del Cervino. La bandiera inglese pare uno sciallo nero posto sulla neve, al mezzo.
Dopo queste parole è tracciato sul taccuino un profilo della vetta con le due bandiere, e accanto ad una è scritto: Italia! Il giorno dopo a mezzodì giunsero di ritorno, sani e salvi, i vincitori. Nello scendere avevano veduto tutte le bandiere sventolare sul Giomein in segno di gioia; la fatica, l'ansia della lotta, l'emozione del pericolo erano scomparse. Il loro arrivo fu un trionfo.
Tutta la maestosità della parete sud del Cervino (© Enzo Verga) |
La vetta era stata conquistata anche nel versante italiano. La Valtournenche era in festa.
Qualcuno, ancora oggi, si chiede chi abbia vinto. La vittoria è di Whymper, il primo a raggiungere la vetta ma che, anche per troppa fretta, subì le conseguenze del disastro nella discesa, o di Carrel, che vinse un versante più arduo (in condizioni sociali più difficili di quelle di Whymper), riportando sana e salva la spedizione intera? Non mi piace pensare all'alpinismo, o alla montagna in genere, come ad un terreno di sfide e di lotte per una vittoria. Mi piace pensare che siano stati entrambi, con i loro ideali, il loro coraggio e la loro ostinazione, a conquistare il Cervino. E a accendere la fiamma di un sogno che continua, immutato nel tempo se non più grande, a riscaldare il cuore degli appassionati della montagna.
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