A giungere dal fondo del Breuil all'alloggio dell'amico Minuzzo che lo ha sottratto agli assalti più pressanti, Bonatti ha impiegato almeno mezz'ora, e in questo tempo abbiamo ammirato la sua pazienza, la buona grazia con cui baciava volti di bimbi sudici di marmellata, stringeva la mano a signore che non aveva mai visto, sostava per permettere a fotografi di sei o sette Paesi di ritrarlo ancora una volta contro la piramide del Cervino.
Poi è stato possibile chiuderlo a forza nell'alloggio dell'amico (la gente è rimasta fuori a premere con il naso contro i vetri, ed a noi, nell'interno, pareva di essere tanti pesci in un colossale acquario) e così abbiamo potuto constatare che Bonatti, pur con il suo organismo eccezionale, qualcosa ha sofferto nella sua drammatica scalata. Talvolta avevamo notato, all'aperto, che il suo passo era un po' vacillante, e adesso ne comprendevamo il perché: nella gran luce che lo ha avvolto sulla vetta, Bonatti è stato colpito da un'oftalmia violenta, che ora lo faceva strizzare gli occhi e lo obbligava a tenere in volto quei suoi enormi occhiali. Leggermente gonfio il volto per la continua esposizione al freddo siberiano, scalfite, lacerate, sanguinanti le mani, poderose come pinze d'acciaio, che adagio adagio hanno afferrato tutti gli appigli della muraglia Nord. E nient'altro: anzi, Bonatti non dimostrava affatto di aver voglia di andare a dormire. Qualcuno ha dovuto insistere per cavargli gli scarponi che si era infilati a Zermatt la mattina di mercoledì scorso, e Bonatti, chiacchierava, diventava polemico, rileggeva commosso il primo telegramma arrivatogli con i complimenti di Saragat, che è stato un bravo alpinista anche lui: «Felicitazioni vivissime per lo splendido successo che è il degno coronamento delle ardue imprese compiute nelle Alpi, nel Karakorum, nelle Ande».
Poi sono cominciate le telefonate: agenzie inglesi americane francesi tedesche volevano proprio da lui almeno una piccola dichiarazione esclusiva, e Bonatti correva su e giù per le scale a rispondere al telefono sempre pronto a ringraziare per qualche complimento, senza accorgersi che il tè veniva freddo, che gli occhi continuavano a dolergli, che arrivavano fattorini delle poste con altri fasci di telegrammi. Per potergli parlare, è stato necessario letteralmente chiuderlo a chiave in una stanza: solo così Bonatti ha potuto dipanare il filo ancora sconosciuto della sua lunga avventura.
«Come saprete — ha detto Bonatti — avevo deciso di conquistare la direttissima sulla Nord del Cervino a tutti i costi. Cioè (contravvenendo alle mie convinzioni più profonde), anche da solo. Panei e Tassotti, con i quali avevo compiuto il tentativo andato a vuoto per il maltempo, non potevano più essere con me. Così mercoledì scorso, dato che il tempo è tornato al bello, parto da Zermatt per un giretto in sci. In realtà, è un trucco per non far sapere che "vado su". Due amici fidatissimi mi hanno preceduto portando l'uno il sacco, l'altro corda, chiodi ed altro materiale. Li raggiungo ben lontano da Zermatt: la sorpresa è riuscita. Mi consegnano le loro cose, ci salutiamo sul ghiacciaio. Mi volto a guardarli con gli occhi gonfi di pianto: ecco, dico, ormai ogni rapporto con il mondo è finito, potrò tornare fra gli uomini soltanto passando per questa spaventosa muraglia che mi sta davanti: e guardo su, verso la sommità del Cervino, milleseicento metri quasi a picco sopra la mia testa. «Arrivo alla capanna dell’Hörnly, vi prendo i viveri deposti una settimana fa. Potrei dormirvi ed invece fuggo come spinto dal terrore: questa capanna mi ha sempre ispirato una strana paura. Preferisco dormire fuori, accucciato sotto la mia tendina ai piedi della Nord. Dormire, perlomeno, sarebbe la mia intenzione, ma il sonno non viene: sono troppo preoccupato.
«Giovedì mattina. Spero che il barometro sia disceso, per avere una scusa e tornare indietro. Nemmeno per sogno: è sul bello stabile. Basta con gli indugi: mi slancio verso la parete. Dei nostri chiodi, non ce n'è più uno: li avevamo tolti tutti. Cominciano così manovre estenuanti: salgo senza sacco, conficcando chiodi, torno a prendere il sacco, risalgo. Potrò dire di aver percorso il Cervino tre volte: due in salita, una in discesa. La giornata è un susseguirsi di operazioni monotone: come un equilibrista che cammini per ore sul filo teso tra due abissi. A sera mi fermo sul "canalino bianco". Mi assicuro con chiodi, resto appeso come un sacco, passo così la notte (ed allo stesso modo trascorrerò anche tutte le altre notti in parete, senza dormire, immerso al massimo in un dormiveglia popolato di incubi).
«Venerdì mattina. Nella notte il tempo è cambiato, mi pare che stia per nevicare. Quasi quasi vorrei discendere, ma il barometro continua a segnare il bello stabile. Dò retta al barometro e continuo a salire. Per la prima volta nella mia vita noto uno strano fenomeno: il fatto di non poter parlare con anima viva, mi fa concentrare tanto in me stesso che talvolta mi pare di essere in preda ad una ipnosi. Devo sostare appeso a qualche chiodo e forzarmi a ragionare. In serata attraverso il "passaggio degli angeli" (come camminare su gigantesche tegole in precario equilibrio, incrostate di ghiaccio) e mi piazzo per la notte al punto in cui, nel tentativo fallito, avevamo deciso di ripiegare.
«Sabato. È il terzo giorno di arrampicata, non ho più cibo né bevanda, ma non mi sento stanco. Eccomi nella zona dei grandi strapiombi; se mi sfugge una pietra di sotto gli scarponi, la vedo filare dritta sotto di me fino a colpire il ghiacciaio mille metri più in basso. Alla sera ho superato questo tragico «passaggio chiave» Vedo palpitare laggiù, in un oceano di tenebra, le luci di Zermatt. Non è uno spettacolo confortante, anzi mi fa sentire ancor più quanto io ne sia lontano.
«Domenica, quarto giorno di arrampicata. Non una nuvola in cielo. Mi sento in ottima forma, anche se un paio di prugne devono servirmi per colazione, pranzo e cena. Mi trovo in una zona di "canne d'organo": ciclopiche colonne. Qual è il canalone della salvezza? Un po' d'istinto, un po di ragionamento, ne infilo uno che mi pare buono: in effetti mi porta ad un terrazzino largo trenta centimetri su cui posso passare la notte con la testa fra le ginocchia.
«Lunedi, quinto giorno. Come colazione, quaranta metri di sesto grado puro senza poter piantare un chiodo perché tutto sembra crollare. Odo voci dall'alto: devono essere guide che mi chiamano. Urlo per rispondere, poi non li sento più. Dove sarà la vetta? Uscendo da questo pozzo, non la si vede. Vado un po' a caso, verso il cielo, sempre più in alto. Poi non posso più salire, perché sono più alto del Cervino. Sono le 15,15: abbraccio la croce, faccio qualche foto. Mi sento perfettamente felice. Arrivano un paio di aeroplani, passano ad una decina di metri. Ora devo ridiscendere. Verso Zermatt o verso Cervinia? Avevo previsto Zermatt, ma ora mi accorgo che gli occhi soffrono, che mi prende un certo torpore, e preferisco calarmi verso il Breuil perché da quella parte posso seguire le grandi orme lasciate dalle guide che erano venute a cercarmi».
Questa è la semplice storia di Bonatti e della sua vittoria. Dopo la conquista della direttissima Nord ha ancora bivaccato all'aperto sopra la capanna Amedeo, oggi è sceso adagio al Riondé dove erano saliti il direttore della scuola di sci Jean Bich e due allievi e nel pomeriggio ha ricevuto l'abbraccio di Cervinia. Soltanto a tardissima sera, dopo un banchetto offertogli dalle guide, si è ricordato che doveva riposare un poco. E domani tornerà a Zermatt dove lo aspettano accoglienze altrettanto calorose."
Carlo Moriondo, La Stampa, 24 febbraio 1965
Bonatti trionfante a Cervinia, nelle pagine de La Stampa del 24 febbraio 1965 |
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