giovedì 13 febbraio 2014

Quando la strada si rizza sotto i pedali

“Chi gli ha voluto bene, Marco Pantani se lo ricorderà così, con quella sua voglia di vivere, di vincere, di credere all'impossibile e di realizzarlo. Di correre oltre la forza di gravità, di sfidarla come nessuno, di aprirsi la strada in mezzo a mille tifosi lì, solo per lui, magari da ore se non dal giorno prima, giusto per vederlo passare anche solo un secondo, per dedicargli un applauso o per urlargli “dai Marco!”. Di lui ci rimane il mito, le vittorie straordinarie che ha saputo conquistare… L'Alpe-d'Huez, il regno degli scalatori, poi il Giro d'Italia, il Tour de France. Pantani vinceva a modo suo, un modo diverso unico. Aveva fantasia, coraggio, amore per l‘impresa, ti faceva battere il cuore, ti coinvolgeva, ti lasciava spesso con le lacrime agli occhi perché sapevi che ogni volta la sua capacità di osare e di soffrire l'avrebbe portato a realizzare ciò che nessuno credeva possibile. L'hanno buttato per terra mille volte con la sua bici. Quella sfortuna sembrava seguirlo ovunque, dietro ogni curva. Gli hanno spezzato una gamba che ci voleva un ferro lungo più di trenta centimetri per tenerla insieme. Eppure, ogni volta, lui ti insegnava che ci si può rialzare, e se ci credi veramente nulla ti può fermare, ogni volta puoi tornare a correre, più forte di prima. È per questo che la gente lo amava, lui ti faceva sognare, anche quando era fuori dalle corse riusciva a trovare il modo di sorridere, scherzare, cantare, come quel Giro che iniziava ogni giorno con la sigla interpretata da lui, che in corsa non ci poteva essere per le fratture alla gamba. Corridore, personaggio, tenace sulla bici e fragile nell'animo, durissimo con se stesso e generoso con gli altri. Tutti lo chiamavano “Pirata” per quella bandana che gettava al vento come gesto di sfida prima dell'attacco. I francesi ce lo invidiavano, avrebbero fatto carte false per averlo, uno così. Ma lui era romagnolo e si vedeva. Lui era il “Pirata”, e il suo cuore batteva forte, là, in alto, dove la terra si avvicina al cielo, prima di volarci dentro e lasciarci qui a guardarlo, un po' più soli, a pensare con un dolore forte nello stomaco… quanto ci mancherà...”
Davide De Zan

L'apoteosi del Tour 1998: Pantani da solo a Les Deux Alpes (fonte: cyclingnews.com)

Ciao a tutti!
Tornando con la mente indietro nel tempo, mi sembra ancora impossibile pensare che Marco non ci sia più. Fisicamente ci ha lasciato esattamente dieci anni fa, ma il suo spirito vive in tutti i ciclisti e appassionati del grande ciclismo. Non lo si poteva non amare, quello scricciolo di uomo così grande sui pedali. Lui faceva sognare l'Italia intera con i suoi scatti micidiali, con le sue fughe irresistibili, con quelle azioni letali per ogni avversario. Anch'io fui fulminato quando lo vidi per la prima volta in televisione, nel 1994 salire sul Mortirolo prima e sull'Aprica dopo con una facilità disarmante. Un altro fulmine, ben diverso, mi colpì dieci anni dopo, quando il freddo SMS inviatomi dalla TIM comunicava che Marco Pantani era morto.

Tour 1997: sui tornanti dell'Alpe-d'Huez (fonte: sport.sky.it)

Era il 14 febbraio 2004, un'umida sera di San Valentino. Ricorderò per sempre quel momento, doloroso. Ero in macchina con un amico – di lì a poco avrei preso anch'io la patente – quando ricevetti quel messaggio. Rimasi impietrito, la serata era rovinata. Un pezzo della mia infanzia ed adolescenza se n'era andato per sempre. Marco mi ha fatto innamorare della bici, del ciclismo. Ha insegnato a me, e non solo, all'Italia intera, il senso della lotta, del non mollare mai. Dare tutto ciò che si ha, sempre.

Giro 1998: in fuga con Beppe Guerini sulle rampe del Passo Fedaia (fonte: news.sirotti.it)

Le sue imprese più belle, le ho ancora stampate negli occhi adesso. Mi viene in mente il trionfo a L'Alpe-d'Huez nel 1995, quando staccò tutti scattando sull'attacco della salita, lo rividero in cima. Era una giornata di sole ma fresca. Non avevo ancora compiuto dieci anni e provavo, probabilmente con scarso successo, a fare i compiti delle vacanze, mentre mia mamma, che stava stirando, gettava un occhio sulle mie attività. Oh, la testa non pensava ai compiti in quel momento. Ero rapito da quel corridore, un po' brutto, ma che in salita menava come nessun altro. Laggiù in cima, dove iniziano gli orrendi condomini dell'Alpe-d'Huez, i tifosi sono migliaia, decine di migliaia. Come Mosè separava le acque, Pantani divideva i tifosi in due ali di folla impazzita.

Tour 2000: il diavolo e l'acquasanta sul terribile Mont Ventoux (fonte: giornalettismo.com)

L'Alpe-d'Huez è una salita speciale. Quei ventuno tornanti sono la leggenda del ciclismo. Laggiù hanno vinto solamente i più forti. Coppi, Zoetemelk, Bugno, tanto per citarne alcuni. È la storia del Tour de France. Ho avuto modo di partecipare agli arrivi di tappa del 2008 e del 2011, quando a vincere furono Carlos Sastre e Pierre Rolland. Su quell'asfalto ho pensato alle incredibili pagine di storia sportiva che vi scrisse Pantani. Come nel Tour del 1997. Nessuno fino ad oggi, dopo sedici edizioni del Tour e otto arrivi di tappa all'Alpe-d'Huez ha saputo ripetere quella performance, neanche il re del doping Lance Armstrong. Stavolta ero in vacanza con i miei genitori a Selva di Cadore. Quel pomeriggio io e mio papà rimanemmo in casa, semplicemente perché “c'era Pantani”. Dopo due anni di sofferenze, quell'urlo feroce all'arrivo, tutto solo… Brividi…

Giro 1999: una rimonta incredibile ad Oropa (fonte:cyclingjournal.blogspot.com)

Poi venne l'anno magico, il 1998. Era un giovedì di attesa, quel 4 giugno. Pantani aveva già conquistato la maglia rosa nell'epica tappa della Marmolada, che avevo potuto vedere solo impostando il videoregistratore (ah, che tempi quelli delle VHS). Ma non aveva il vantaggio necessario per difendersi nella cronometro conclusiva. Quella tappa a Plan di Montecampione era decisiva. Lo sapeva anche mio papà che quel giorno decise di entrare prima a lavoro per poter essere anticipatamente a casa a godersi lo spettacolo. E spettacolo fu, quella salita infinita fu il teatro del duello tra Pantani e l'unico antagonista rimasto, il russo Pavel Tonkov. Incollati al divano, rapiti dalla grinta di Marco e dalla poetica telecronaca di Adriano De Zan e Davide Cassani. Solo sulla linea del traguardo, alzò la testa e si lasciò andare in un sospiro di liberazione. Il Giro era suo, e lui aveva fatto esultare tutti gli italiani.

Giro 1998: il duello finale con Tonkov a Plan di Montecampione (fonte: cyclingnews.com)

Il momento più indimenticabile arrivò però due mesi dopo circa. Lunedì 27 luglio 1998, si corre la tappa che da Grenoble porta a Les Deux Alpes. Piove a dirotto sulle Alpi francesi, le immagini riprese dai motooperatori della televisione francese sono continuamente disturbate. Piove anche in Italia, fa quasi freddo. Quel lunedì lo ricordo come se fosse ieri. Sguardo incollato allo schermo, ad un metro o forse anche meno di distanza, in attesa DELLO scatto. L'audio di scarsa qualità della telecronaca di De Zan e Cassani si mischia con il chiacchericcio di mia mamma e di mia nonna intente a preparare i vasetti di giardiniera. Che giorno, quel lunedì. Marco scatta a pochi chilometri dalla cima del Col du Galibier, una fucilata. Stacca tutti quanti, incrementa il vantaggio in discesa e completa l'opera con un assolo magistrale a Les Deux Alpes. La maglia gialla, il tedesco Jan Ullrich, arriva a nove minuti. Quel giorno si compie il più grande exploit del ciclismo moderno. La domenica successiva è il momento del trionfo finale, quello di Marco in maglia gialla a Parigi, davanti all'Arc de Triomphe, con un commosso Felice Gimondi (allora ultimo italiano in maglia gialla) che alza il braccio di Marco al cielo. Sono sincero, qualche lacrima mi scende ancora adesso, mentre scrivo…

Tour 1998: la rasoiata sul Col du Galibier, non ce ne sarà per nessuno (fonte: philmazzarello.com)

Il 1999 fu l'anno di vittorie strabilianti, da solo nella nebbia del Gran Sasso, una formidabile rimonta al Santuario di Oropa e il capolavoro solitario a Madonna di Campiglio. Poi venne ciò che tutti sanno.
A chi dice che era solo “un dopato di merda” io rispondo dicendo che non fu mai trovato positivo ad alcun test antidoping. Che l'ematocrito alto è un parametro che non stabilisce se un'atleta è pulito o no. Che nessun compagno di squadra lo accusò in seguito di aver fatto pratiche dopanti (come è successo ad esempio al texano). Che lo volevano fare fuori perché era il più forte, e dava fastidio a chi sarebbe dovuto venire dopo di lui. La sua unica colpa era quella di far sognare i tifosi con i suoi scatti.

Felice Gimondi passa il testimone a Marco Pantani alla premiazione del Tour 1998 (fonte: corriere.it)

Ha fatto sognare anche me, ovviamente. Ogni volta era una festa. Al termine di una tappa in cui aveva posto il suo suggello vittorioso, mi sentivo come… libero. Nel segno di questa libertà “ritrovata”, era normalità salire in sella e provare ad emulare le gesta del Pirata sulle uniche salitelle del mio paese, quelle dei ponti sul torrente Lemina. Scattare, come se in cima a quell'insignificante strappo ci fosse un traguardo da tagliare a mani levate. Pensare a lui mi ha fatto crescere in me la voglia di provare una bici da corsa, di provare – anche se con incostanza – salite vere, come il Sestriere. Le sue imprese hanno lasciato in me il desiderio di seguire dal vivo questo mondo così duro ma meraviglioso, quello della fatica e del sudore sui pedali. E in fondo, ha lasciato anche il recondito insegnamento che si può cadere tante volte ma si deve sempre trovare la forza per rialzarsi. Lottare, sempre.

Tour 1997: c'è solo rabbia nel suo urlo di vittoria all'Alpe-d'Huez, dopo due anni di sofferenze (fonte: testepelate.it) 

La crudeltà del mondo ciclistico l'ha portato via. E manca ancora troppo a questo mondo, così povero di personaggi che sappiano avvicinare le folle. Dopo l'estro e l'imprevedibilità di Marco, è venuto il tempo del ciclismo degli allenamenti scientifici: l'americano figlio del doping e il keniota bianco Chris Froome, tanto per fare due esempi. Nessuna benché minima traccia della poesia che era Pantani in salita.
Il ciclismo di Pantani non esiste più, o forse non c'era mai stato. Probabilmente era solo lui l'astro isolato che splendeva nel povero panorama che gli ruotava attorno. Ma non c'è solo quello. Manca un po' di spensieratezza, quella sensazione innata che ti porta ad attaccare una strada ripida quando a nessuno verrebbe mai in mente. Manca quell'intensità di vivere che ti porta a guardare una maglia di colore rosa, con gli occhi di un bambino che ha visto per la prima volta il mare. Combattere per un sogno…
Bis bald!
Stefano

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