venerdì 20 settembre 2013

Pietre e spine

Ciao a tutti!
C’è ancora un ultimo racconto della Donauradweg da portare a termine. L’ho tenuto per ultimo, alla fine. Perché è il più difficile: è assai dura trovare le parole - e quelle giuste, peraltro - quando ti trovi di fronte all'ardua realtà della storia. Ma era doveroso scriverlo. Quando si entra nel campo di concentramento nazista di Mauthausen-Gusen, tutti i sorrisi, tutta la gioia, che derivano da un’esperienza memorabile come quella trascorsa quest’estate in Austria, vengono meno. Si lascia spazio al silenzio della morte che ivi ha regnato, nient’altro.

Una delle immagini per me più forti della visita a Mauthausen: la rete elettrificata di filo spinato

È necessario fare un notevole sforzo mentale per riuscire a comprendere fino in fondo la crudeltà dell’animo umano, qui a Mauthausen: del lager rimangono qualche mura, qualche baracca in cui venivano stipati i prigionieri, il filo spinato, la cava di granito presso cui lavoravano e assai frequentemente trovavano la morte i deportati. Molto di questo campo non ha conservato lo spirito della Seconda Guerra Mondiale. Proprio per questo, la visita del lager non mi ha scioccato del tutto. È molto difficile ricostruire ed immaginare certa violenza. Non ci sono riuscito del tutto, neanche alla visione delle camere a gas e dei forni crematori. Si parla pur sempre di costruzioni, anonime se inconsci che ciò che stai osservando è stato strumento di morte.

Il piazzale dell'appello del lager di Mauthausen

Eppure qui è si consumata la tragedia dell’eccidio di massa praticato dal Terzo Reich, non tanto di ebrei ma di avversari politici, prigionieri di guerra, omosessuali, professori dissidenti e persone appartenenti ad etnie di minoranza. Più di 130.000 i morti in questo lager (di cui 5750 italiani), uccisi nelle maniere più feroci e svariate: fucilati sulla “scala della morte” che portava alla cava, bruciati vivi nei forni crematori, asfissiati nelle camere a gas, assiderati nel gelido inverno austriaco, avvelenati con sostanze diaboliche, finiti dall'estenuante fatica del lavoro forzato. O suicidati, il gettarsi contro il filo spinato elettrificato era il modo più dolce per morire e per non lasciarsi spersonalizzare dai micidiali metodi attuati sistematicamente dalle SS.

Il monumento eretto in memoria dei 5750 deportati italiani che morirono a Mauthausen

Solo il museo è stato in grado di realizzare in me piena consapevolezza di ciò che stavo vedendo. Foto, documenti, testimonianze, oggetti, alcuni di essi anche “forti”. Questo è stato in grado di riportarmi al vero senso della malvagità umana infusa dal Terzo Reich al popolo tedesco. Precisazione: solo durante la dominazione nazista, i tedeschi sono in realtà lungi dall'essere “malvagi”.

Uno dei forni crematori di Mauthausen

Le fortificazioni di Mauthausen sono una sorta di ossimoro psico-visivo: essere qui, in un luogo che segnò spietatezza e morte ed al contempo in un luogo dalla cornice visiva splendida (dalla collina dove si trova il lager si gode di uno splendido panorama sul Danubio) fa stridere l’animo. Questo è un luogo che non sarebbe mai dovuto esistere ma proprio perché è stato e ha rappresentato il lato più brutale dell’umanità (se vogliamo chiamarla così), deve continuare a sussistere perché rimanga in imperitura memoria a testimonianza. Perché le generazioni che verranno continuino a conoscere ciò che mai più deve succedere.

Anche dal male si può risorgere...

Chiudo con una citazione tratta dal libro Mauthausen – I 186 gradini di Christian Bernadac: “Fortezza... Contemporaneamente fortino e acropoli, muraglie gigantesche. Granito e cemento armato dominanti il Danubio: strani speroni coperti da cappelli cinesi; fili spinati e porcellana intreccianti un'insuperabile rete elettrica di protezione. Sì! La più formidabile cittadella costruita sulla Terra dal Medio Evo. Mauthausen. Mauthausen in Austria. Mauthausen dai 155.000 morti.”

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