Ciao a tutti!
Raccontare il
giorno della maratona, il giorno atteso da mesi, per non dire da un anno
intero, non è cosa facile. Parlare di ciò che hai dentro, di ciò che tieni
dentro per tanto tempo, paure, desideri, sogni, attimi, è impresa difficile. E
infatti sono necessarie ore di riflessione per mettermi finalmente sulla
tastiera di un computer e iniziare a battere tutto ciò che transita per la
mente riguardo a domenica scorsa.
Paure: quella di
arrivare in fondo con un ginocchio a pezzi non è mai realmente scomparsa del
tutto durante i mesi di preparazione. Al minimo dolorino i timori crescevano,
eccome se crescevano. E nell’ultima settimana i piccoli dolori, anche quelli
più stupidi diventano giganteschi. È tutto un effetto mentale, o chiamiamola
tensione, se preferite. Questa volta mi presento a Stra, alla partenza della
mia quinta maratona con un dilemma in più. Un banale incidente per le vie di
Torino, un’abrasione al ginocchio sinistro (non quello incriminato ma già
ferito quest’estate), e il dubbio: arriverò fino alla fine? Io credo di si, ma
quarantadue chilometri sono lunghi e in più di tre ore di cose ne possono
succedere veramente parecchie.
Desideri: beh,
prima di tutto arrivare in fondo, magari farlo anche alla grande. Un anno fa
realizzavo il mio personale, nel frattempo ho sofferto molto, più mentalmente
che fisicamente. Esserci nuovamente è già molto bello, esserci e migliorare
quanto fatto l’anno scorso sarebbe spaziale. Tornare e tornare più forti di
prima, questo è il sogno.
Il risveglio in
albergo è all’insegna dei grandi nervosismi pre-maratona: passeggio
concitatamente in camera, cercando di sistemare pettorale, cerotti e fascia
cardio. Giulia (fortunatamente per lei) dorme ancora e posso solo scaricare
parzialmente la mia tensione quando la saluto per andare a fare colazione, con
quel “torno presto” che accompagna ogni nostro distacco. La colazione è
velocissima: ho solamente venti minuti per ingerire quei carboidrati che
brucerò celermente nel giro di poche decine di minuti. Nella sala colazione
dell’albergo ci sono solo runner, talvolta accompagnati dalle loro mogli o
compagne. Tutti silenziosi, assorti nei loro pensieri. Magari avvolti anche
loro da un’aura di desideri. O coperti da una nube carica di angosce.
Inizio a star
meglio nel taxi che ci porta alla stazione ferroviaria di Mestre, da dove
partono i pullman per Stra. Con me ci sono due ragazzoni svedesi, al primo
appuntamento con la Venice Marathon. Sono cinque minuti piacevoli, racconto
loro un po’ del percorso, come per scaricarmi e allo stesso tempo ripassare il
percorso.
Fuori si gela. Ci
saranno cinque gradi, non di più. Nel frattempo arriva il tanto desiderato bus.
Dove potrò sedermi e cercare di trovare un po’ di tranquillità. Non ho
interlocutori o compagni di avventura, non è come a Torino in cui è per me
facile trovare qualche faccia conosciuta. Sono da solo, qui: saranno trenta
minuti in cui ora non so dire cosa ho fatto o pensato. Credo di aver fatto un
lungo viaggio in me stesso, infine. Perché una maratona è anche questo, un
lungo viaggio dentro se stessi, alla ricerca di qualcosa che ti porta a
compiere una fatica così grande. Ed è anche un grande viaggio nel passato, in
quello che sono stato giorni, mesi e anni fa, e nel presente, a ciò che sono
ora.
Quando si
raggiunge Stra non ho proprio voglia di scendere, il freddo è ancora tanto,
nonostante il sole sia già ampiamente alto in cielo. La Riviera del Brenta
accompagna me e i vari compagni di viaggio fino alla zona partenza, dove la
folla è già numerosa. Code per i servizi igienici, code per il tè caldo, code
anche per entrare nel tendone dove ci si ripara dal freddo prima di cominciare
a correre. Questo tendone puzza di creme riscaldanti, qualcosa di cui non
faccio uso ma sono un must per molti podisti. Io attendo qui il momento
propizio per spogliarmi e iniziare il riscaldamento. Mangio due gallette di
mais, senza un vero motivo. Poi controllo che tutto sia a posto nella borsa che
troverò all’arrivo. Quindi faccio che giocare un po’ con il cellulare: ogni
mezzo è buono per distrarsi. Poi arriva l’ora di togliersi la tuta. Ora si fa
sul serio: c’è da eseguire un po’ di riscaldamento e molto stretching. Queste
sono le operazioni che mettono in me molto nervosismo. In quei momenti non sai
mai se lo stai facendo bene o no. E poi ovviamente se c’è un piccolo fastidio,
voilà, eccolo che lo senti triplicato. Il ginocchio torna a bussare sui tuoi
nervi più scoperti. E c’è quella paura, quel timore che sì, ti porta a
scavalcare il guardrail, scendere in riva al Brenta e lasciare un piccolo
ricordo, una fugace testimonianza in dono alla natura.
Quando decido che
il riscaldamento è terminato, mi avvio verso le gabbie. La mia è la numero 2,
colore giallo. Passo davanti a Villa Pisani, una delle residenze più belle del
Brenta: si, l’inizio della Venice Marathon è veramente da brivido, in una tale
location. Quando entro nella gabbia manca ancora mezz’ora allo sparo che decreterà
il via alla maratona. In quei trenta minuti si pensa di tutto e si vede di
tutto. Sono molti i siparietti curiosi a cui ho assistito, come quello dei
runner in fila sulle transenne intenti a rimuovere gli ultimi liquidi, o come i
lanci di maglioni verso i prati di Villa Pisani, prontamente raccolti dagli
extracomunitari lì deliberatamente appostati. Però il più bello è anche quello
che sogno di poter vivere in prima persona un giorno: una mamma con il proprio
figlio, che tiene in mano un palloncino; sopra vi è scritto “forza papà”. Ecco,
la maratona è anche questo.
Arriva il momento
dello sparo. Sono molto vicino – inspiegabilmente, nonostante la gabbia -alla
linea di partenza, quindi so che il tempo che segnerà il cronometro all’arrivo
sarà molto vicino a quello netto. Ma per i calcoli non c’è molto tempo ancora. Bisogna
solo pensare a correre. Ovviamente parto abbastanza forte, senza neanche
rendermene conto. Sempre così, in maratona. L’attraversamento del primo comune,
Fiesso d’Artico, non aiuta a rallentare il mio ritmo, ma mi devo imporre una
condotta di gara più oculata rispetto ad un anno fa. Cosi sarà: fino ai trenta
chilometri il mio ritmo sarà veramente molto costante tra i 4’34”/km-4’38”/km.
Correre così mi permetterebbe di chiudere a Riva Sette Martiri in 3h14’.
Sognare è lecito, ma qui si tratta di qualcosa di impossibile. So di andare
troppo forte, so che pagherò in fondo. Però so anche che è un ritmo buono e
soprattutto molto costante.
Un anno fa a
rovinare parte della prestazione era stata l’alimentazione in corsa.
Quest’anno, memore dell’esperienza dell’anno scorso e dei consigli del prezioso
libro di Arcelli (vedi post), ho provveduto a rifornirmi di bustine di zucchero
per poter rifornirmi continuamente di glucosio, limitando così l’assunzione di
frutta sul percorso (che al sottoscritto lascia spiacevoli squilibri gastrici,
con un’influenza di circa 10” a rifornimento). La tecnica funziona: lo zucchero
scende giù molto più facilmente rispetto a banane e mele. Anche il rifornimento
alla mezza maratona, un anno fa ai limiti del letale, passa via in scioltezza.
La Riviera del
Brenta non delude. L’incoraggiamento è festoso dall’inizio alla fine, in tutti
i paesi. In particolare a Dolo e a Mira la folla è scatenata. Il clima è
veramente positivo, favorito anche dall’incredibile sole che splende sul
Brenta. Giornata perfetta per correre: c’è anche un po’ di venticello, molto
gradito, in quanto mi permetterà di non sudare per quasi venticinque chilometri
di corsa.
Correre di fianco
al Brenta è veramente piacevole e nella prima parte di gara, grazie al
paesaggio, all’atmosfera festante, ad un meteo eccezionale, non ci si accorge
che si sta correndo una maratona. Tutto pare eccezionalmente facile, ma è
sempre così, in ogni maratona. Si arriva dunque alla mezza maratona senza alcun
intoppo, fatta eccezione per il cerotto kinesio applicato sul “famoso”
ginocchio destro: non regge e dà solo noia, meglio toglierlo. L’attraversamento
di Marghera è invece qualcosa di notevolmente fastidioso. Tralasciando la
bruttezza della zona industriale, vi è un sottopassaggio che conduce a Mestre
che attira a sé molte maledizioni, soprattutto a causa della risalita, forse
più ripida di qualsiasi altro ponte in Venezia. A Mestre ci accoglie una folla
nutrita: l’anno scorso mi diede modo di imprimere una bella accelerazione (che
pagai alla fine); quest’anno mi contengo, memore delle fatiche di un anno fa.
Si può dire che a
Mestre inizi veramente la maratona. Le mie gambe stanno bene e il morale è
alto, avendo battezzato le “lepri” giuste per una decina di chilometri. Ma in
uscita dalla città iniziano anche le prime difficoltà. Innanzitutto, il vento
si fa più accentuato ed il sole diventa una presenza continua: essendo già le
11, si avverte il caldo. Poi, cominciano i primi dolori. Prima, la fitta al
ginocchio destro, quello incriminato. Poi, un ginocchio sinistro (tutto quanto)
che pare addormentato, come fatto secco da un’iniezione di morfina. Tutto
passa, fino ad un certo punto. Dopo, dolori continui, fino alla fine. In
realtà, le difficoltà, quelle vere, che arriveranno, sono altre.
Il momento chiave
della mia maratona e del mio rendimento in corsa è ancora una volta al Parco
San Giuliano, dove cade il chilometro 30. Qui si corrono circa 3-4 chilometri
in totale, che iniziano con un lungo e insidioso ponte. Dopo, un tortuoso
saliscendi che conduce al Ponte della Libertà. È un tratto che molti non amano,
a causa delle salite e delle numerose curve che lo contraddistingue. Io ci
arrivo con un’ottima gamba, tanti altri no. Inizio a sorpassare e,
galvanizzato, non metto freno all’entusiasmo. Sorpasso in continuazione, scendo
anche sotto i 4’30”/km. Questo è troppo per le mie gambe. Di lì a poco pagherò
con gli interessi. La salita che porta al Ponte della Libertà prima, e il ponte
stesso, dopo, mi porteranno a correre anche venti secondi in più ad ogni
chilometro. Sul Ponte della Libertà, rispetto ad un anno fa, c’è il vantaggio
psicologico di poter già vedere lo skyline di Venezia. Si, i campanili di
Venezia sono un bel punto di riferimento, ma quando soffia il vento è
inevitabile dover rallentare il ritmo. Si fa più fatica respirare e il proprio
corpo necessita di consumare più ossigeno per mantenere lo stesso passo. Si,
faccio veramente fatica. Anche qui trovo una “lepre”. È un ragazzo che forse si
chiama Stefano, o Simone, o Sergio, che ne so, ma ci sorpassiamo e
controsorpassiamo a vicenda sull’ampia carreggiata del Ponte della Libertà, e
ci diamo un notevole vantaggio psicologico. Intanto, stringendo i denti e
cercando le più recondite energie interiori, questi tanto maledetti quanto
scenograficamente meravigliosi chilometri giungono al termine: si entra
finalmente a Venezia!
L’ingresso a
Venezia avviene ovviamente dal lato ovest dell’isola, quello sicuramente meno
interessante: qui la scena è dominata da un mare di asfalto e cemento. Questa è
la zona del Tronchetto, di piazzale Roma e del porto, inutile aggiungere altro.
Rispetto a un anno fa c’è una brutta sorpresa. La rampa di accesso all’isola
viene completamente attraversata dalla corsa, e non elusa da un apposito
sottopassaggio. È una discreta salita che i podisti si ritrovano al chilometro
37 di corsa. Non fa piacere, ecco. La fatica è tanta e l’acido lattico, ahimè,
fa già male. Si, c’è una bella discesa, dopo, utile per rilassare braccia e
gambe. Ma una salita seguita da un’importante discesa è tuttavia molto più
deleteria in termini cronometrici di un’unica leggera discesa.
Beh, questa
salita non vuole finire mai. Gli ultimi metri dello strappo sono accompagnati
da molti incoraggiamenti e ce n’è un gran bisogno. Il sole annerisce l’asfalto
e assieme al vento crea le peggiori condizioni di corsa fino a quel momento. Ma
tutte le fatiche, prima o dopo, devono giungere al termine.
C’è più di un
chilometro da correre nella zona portuale. Da una parte ci sono gli stabili del
porto, dall’altra le navi di MSC e Costa, impetuose. Indubbiamente ci si sente
piccoli piccoli. È un piccolo pensiero, un piccolo diversivo dalla fatica
costante che si sta provando. Una sorta di zig zag tra quelli che sembrano
essere magazzini e poi si inizia a vedere il Canale della Giudecca. Poi c’è il
primo ponte. Ne seguiranno altri tredici. La quantomai lunga e al contempo breve
“cavalcata” di quattro chilometri all’interno della città più bella del mondo,
verso Piazza San Marco e verso Riva dei Sette Martiri, ha qui inizio.
Tutto è perfetto.
C’è una folla che ti sprona a non mollare – e come potremmo – anche
pronunciando il tuo nome. Il canale della Giudecca raggiunge stupefacenti
picchi di bellezza. Mare e cielo, tutto quel blu. Il lastricato delle
fondamenta del sestiere Dorsoduro, la facciata della chiesa dei Gesuati, tutto
quel bianco. È meraviglioso esserci, è fantastico essere parte di questa scena,
un piccolo puntino che corre ai bordi di Venezia.
La strada, o
meglio, il passaggio, si fa veramente stretto quando ci si avvicina a Punta
della Dogana. C’è spazio praticamente per un solo corridore, o quasi. Mi
ritrovo una coppia di podisti e non è facile sorpassarla. Quando lo faccio mi
ritrovo sul ponte che attraversa il Canal Grande. Stupore, come sempre
d’altronde. Sono poche centinaia di metri, ma sono parte di ciò che dalla tua
mente non scapperà mai più via. Non so perché corro, non so quanto forte corro,
ma corro e basta, con la testa costantemente rivolta verso sinistra, verso
qualcosa di magico. Non so se sto soffrendo, ma dentro e fuori di me c’è un
sorriso enorme, che rimarrà impresso nell’obiettivo del fotografo appostato al
termine del ponte.
Il passo
successivo è Piazza San Marco. Il momento più atteso, da quando iniziai a
coltivare l’idea di tornare a Venezia per la Venice Marathon. C’è un piccolo
tratto sotto gli alberi subito dopo il ponte sul Canal Grande. Qualche
bancarella di souvenir, poi un minuscolo ponticello, quasi impercettibile.
Palazzo Ducale è già lì, inconfondibile, con il suo incantevole colonnato in
stile gotico veneziano, dietro alla colonna con il leone marciano. Si, ci
siamo. Ci sono, Piazza San Marco è qui. È qui che si concentra la maggior parte
dei tifosi e degli accompagnatori. Anche Giulia mi sta aspettando qua, come l’anno
scorso, da qualche ora. Devo fare attenzione a vederla, oltre che a schivare le
pozzanghere presenti nelle depressioni della piazza. So che mi attende all’incirca
all’altezza del Caffè Florian, come un anno fa. La vedo, finalmente, e questa è
una delle immagini più belle dei miei 42,195 chilometri. Non solo perché lei è
bellissima, come sempre d’altronde, ma perché protrae le sue braccia verso di
me, distese come a voler afferrare qualcosa. La preda sono io, e non oppongo
resistenza. Io non so ancora bene ora cosa sia successo in quei sedici secondi
(si, sono proprio sedici), da questo punto di vista l’amore fa brutti scherzi.
Un abbraccio, forse. Un bacio, probabilmente. Una promessa che vale una vita
intera, sicuramente.
Poi riparto. Al
traguardo di Riva dei Sette Martiri manca ancora più di un chilometro. Ho
ancora un personale da conquistare.
Non si vorrebbe
mai lasciare Piazza San Marco: questa piazza è speciale, emana un’atmosfera
distensiva, di pace. Ma è una maratona. Quando corri questa distanza ciò che
hai sotto i piedi scivola via imperturbabile, senza alcuna possibilità di
accorgersene. E anche Piazza San Marco scorre, passando di fronte alla
Basilica, alla Porta della Carta e a Palazzo Ducale. Inizia Riva degli
Schiavoni e lo fa con il suo ponte più duro, il Ponte della Paglia, un nome che
non dimentico da un anno. Lo superi. Poi un largo spiazzo, fino al ponte
successivo. Così via fino all’Arsenale. C’è tanta gente attorno a te, sui ponti
le grida sono ben definite. È una fatica che sembra non finire mai, ma
paradossalmente finisce troppo in fretta. Si, corro ancora veloce, nonostante i
ponti chiudo il quarantaduesimo chilometro in meno di cinque minuti. Gli attimi
dell’arrivo…beh, quelli vorresti non finissero mai. La gente che ti incita e tu
chiedi a gran voce il suo sostegno (con l’ultimo fiato che rimane), il sole che
batte in faccia, una linea da oltrepassare. Dopo, tanta gioia, tanta fatica. L’ultima
goccia di energia la uso per alzare le braccia al cielo. Stavolta non urlo. Guardo
la foto del mio arrivo. C’è tutta la grinta di chi non ha voluto mollare dopo i
dolori dell’inverno, la rabbia per i tanti mesi in cui non ho potuto correre,
la liberazione da tutti i dubbi che hanno attanagliato la mente. Poi, guardo il
cronometro. Il tempo che esso segna non può essere quello esatto ma è quanto
basta per poter dire che ho stabilito il nuovo personale sulla distanza della
maratona. La soddisfazione è ovviamente doppia.
Poco più avanti,
dopo un cambio e un piccolo recupero di energia e carboidrati, rivedo Giulia.
Il nostro abbraccio è la fine di un mese durissimo, fatto di tanti sacrifici: i
miei, quelli in allenamento; i suoi, quelli dell’attesa solitaria di tante sere
durante le mie corse; i nostri, quelli del conciliare tutto ciò con i lavori per
una casa nuova, in un paese straniero. È un abbraccio che vuol dire tanto,
tantissimo.
3h17’21”, è questo
il tempo ufficiale all’arrivo: 441esima posizione (su 4687 giunti all’arrivo),
71esima di categoria. Sono quarantasei i secondi di miglioramento all’arrivo.
Più o meno era quello che mi aspettavo. Certo, non ci fosse stato quel vento
sul Ponte della Libertà… non ci fosse stato quel ponte all’ingresso di Venezia…
non ci fosse stato tutto quel caldo all’arrivo. Ma alla fine ho corso solo un’ora
peggio dei professionisti: il vincitore, l’etiope Ketema Mamo, ha trionfato con
il tempo di 2h16’45”, che è un crono altissimo. Anche la prestazione dei top
runner è stata dunque decisamente influenzata dalle condizioni meteo, dal vento
in particolare.
Ma a conti fatti
non mi interessa tutto ciò. So di aver fatto qualcosa di importante, di bello.
Per me e per i miei cari. Sono altre le cose che ti rimangono dentro. Cose che
non si possono spiegare, cose che si potranno dissolvere solo alla fine dei
nostri giorni.
Bis bald!
Stefano
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