domenica 31 luglio 2016

31 luglio 1954 - K2, a tu per tu con la morte

"Quella notte sul K2, trail 30 e il 31 luglio 1954, io dovevo morire. Il fatto che sia invece sopravvissuto è dipeso soltanto da me."
Walter Bonatti, K2 - La verità
 
Il campo VIII lungo la salita al K2 (© Archivio Lino Lacedelli)

C'è impresa e impresa. Lo è sempre salire una vetta alpina mai calcata dall'uomo, lo è il più delle volte aprire una via nuova. Bonatti di imprese di questo genere ne ha firmate parecchie, sia di prime ascensioni (Grand Capucin, Gasherbrum IV) che di vie nuove (Dru, Cervino). Nel 1954 una straordinaria impresa, di quelle con la I maiuscola, porta con sé il nome di Walter Bonatti. È la discussa conquista del K2, la seconda montagna più alta della Terra, la più alta del Karakorum.
Dopo il 31 luglio 1954 il K2 verrà ribattezzata "la montagna degli italiani". In un dopoguerra in cui il mondo si confrontava non più con le bombe ma con i successi extrabellici, come la conquista dello spazio, anche l'alpinismo era fonte di accesi nazionalismi. Ogni paese provava ad accaparrarsi il suo pezzetto di gloria: sul K2, nelle intenzioni dell'Italia e del Club Alpino Italiano, doveva sventolare il tricolore. Una squadra di tredici alpinisti, il meglio (o quasi, data l'assenza di Riccardo Cassin) dell'alpinismo italiano, viene scelta per la conquista del K2. Agli ordini di Ardito Desio, il capo-spedizione, c'è anche un ventiquattrenne Walter Bonatti. Il più giovane del gruppo, forse anche troppo giovane per quell'esperienza: non tanto per le capacità tecniche - già indiscutibili e superiori alla media - ma per la saggezza necessaria ad affrontare quello che più che un dramma alpinistico si rivelerà un dramma umano.

Il gruppo della spedizione italiana al K2 (fonte: touringclub.it)

Dopo due mesi di fatica, con grande sforzo e dopo la perdita di un componente (la guida valdostana Mario Puchoz), la salita lungo la cresta sud-est, il famoso Sperone Abruzzi, sta per giungere al termine. La sera tra il 29 luglio e il 30 luglio a oltre 7600 metri, nella tenda del campo VIII, si trovano quattro uomini: Walter Bonatti, Pino Gallotti, Lino Lacedelli e Achille Compagnoni. Il piano di attacco alla vetta è questo: Lacedelli e Compagnoni partiranno la mattina seguente con il materiale per allestire il campo IX, piazzandolo a quota 7900 metri, affinché Bonatti e Gallotti possano scendere a recuperare le bombole d'ossigeno (essenziali oltre quota 8000 metri) al campo VII, per portarle dunque al campo IX. Il 31 luglio Lacedelli e Compagnoni, con le bombole d'ossigeno, sferreranno l'attacco decisivo agli 8611 metri del K2.

La via di salita lungo lo Sperone Abruzzi (fonte: commons.wikimedia.org)

Non tutto va per il verso giusto. Gallotti è esausto, ma fortunatamente al campo VII, Bonatti trova l'aiuto di un altro componente della spedizione, il bolzanino Erich Abram, e uno dei più forti portatori hunza, Amir Mahdi. In tre devono risalire settecento metri di dislivello, con l'assurdo carico delle bombole d'ossigeno, uno sforzo ai limiti del sovrumano. Un sforzo che ha come vittima proprio Abram, che esausto, deve ripiegare in fretta al campo VIII. A portare il pesante fardello rimangono Bonatti e Mahdi. Salgono fino al punto concordato con Lacedelli e Compagnoni. Che però non ci sono, come fossero spariti.

Walter Bonatti ed Erich Abram

Lacedelli e Compagnoni hanno montato il campo IX più in alto, in una zona apparentemente più sicura da pericoli, ma soprattutto, nascosta alla vista di Bonatti e Mahdi. I due provano a portarsi ancora più su, ma non li trovano. Lacedelli e Compagnoni si fanno vivi con una torcia solo all'imbrunire, mentre il vento ostacola ogni tipo di comunicazione. E intanto, sul Karakorum sopraggiunge la notte. Per i due non c'è scampo. Si trovano ad oltre ottomila metri, nella "zona della morte" (ossia dove la rarefazione dell'aria può essere letale) e devono affrontare una notte all'addiaccio, senza alcuna predisposizione in tal senso. Con loro non ci sono né tende da bivacco né tantomeno sacchi a pelo. In quelle condizioni, non si può dormire, si può solo cercare di sopravvivere. Cosa fare in quei casi, quando lo sconforto potrebbe cedere il passo alla disperazione? Cercare di fare tutto ciò che è concesso per mantenersi vivi. Vietato addormentarsi, muovere costantemente le mani e i piedi, battersi gli scarponi con la piccozza. Anche abbracciarsi al compagno di sventura. Bonatti ha un bel da fare, nella morsa del gelo e dell'incombente bufera notturna, nel trattenere Mahdi sul gradino di circa 60 centimetri scavato nel ghiaccio, dove trascorrere la notte. Il pakistano è in preda alla confusione più totale, è fuori di senno, e cerca più volte di scendere, esponendosi al pericolo di una discesa notturna senza luci.

Bonatti e Viotto impegnati ad attrezzare la salita (© Archivio Lino Lacedelli)

La notte, quella lunga notte tra il 30 e il 31 luglio del 1954, passa. Bonatti e Mahdi, rimangono vivi e riescono, all'alba del nuovo giorno, a riparare al campo VIII. Bonatti, indubbiamente il più tenace alpinista della spedizione, ha ancora la lucidità necessaria per ripulirle dalla neve scesa nella notte, in modo da renderle visibili a Compagnoni e Lacedelli.
Il resto della storia è noto. I due prescelti per la salita in cima recuperano le bombole e con queste, alle 18 del 31 luglio 1954, toccheranno l'inviolata vetta del K2. Ben note sono anche le scandalose vicende che seguiranno, scaturite dalle discrepanze tra la versione (corretta) raccontata ne Le mie montagne da Bonatti, e la versione ufficiale dei fatti (errata) nel libro La conquista del K2 di Ardito Desio. Versione quest'ultima, in cui non vi è traccia alcuna del fondamentale apporto di Bonatti al successo della spedizione. Inoltre, si afferma che Compagnoni e Lacedelli sono arrivati in vetta senza ossigeno. Una verità di comodo per l'Italia, ma in realtà una grande menzogna.

Campo alto con vista sul Ghiacciaio Godwin Austen (© Archivio Lino Lacedelli)

Bonatti dovrà convivere per cinquant'anni con la ferita del K2. Nel 1964, dieci anni dopo la spedizione, gli verranno mosse pesanti ed infamanti accuse. Bonatti avrebbe provato a corrompere Mahdi per salire assieme a lui il K2 con le bombole d'ossigeno (si, ma con quali erogatori? - li aveva Compagnoni). Bonatti avrebbe respirato dell'ossigeno durante il bivacco notturno, rischiando di compromettere l'esito della spedizione e mettendo a rischio l'incolumità di Lacedelli e Compagnoni (nuovamente, con quali erogatori?). Bonatti avrebbe addirittura abbandonato Mahdi al suo destino, fatto supportato dai congelamenti a mani e piedi del portatore hunza (che Bonatti evitò grazie al migliore equipaggiamento degli alpinisti italiani). Accuse che Bonatti respingerà con rabbia nei suoi libri e in numerose interviste. Accuse che verranno cancellate solo nel 2004 con la revisione della relazione di Desio. Ma l'intera vita di Bonatti sarà segnata da questo evento, come disse in un'intervista: «La lezione che mi ha dato la natura non me l'ha data l'uomo, l'uomo mi ha dato una lezione più dura».

Bonatti tra Gallotti e Compagnoni (fonte: touringclub.it)

Questo post non vuole celebrare l'impresa di Desio, Compagnoni e Lacedelli. In questo post si vuole rendere solo omaggio all'impresa di Bonatti. Un'impresa che ha valore doppio. Perché non solo Bonatti compì un sacrificio grandissimo per il bene della spedizione - e per la gloria dell'Italia, ma anche perché sopravvivere in quelle condizioni proibitive è qualcosa che è possibile solo per un fuoriclasse. Quello che Bonatti e Mahdi vissero quella tragica notte è spiegato perfettamente da Bonatti stesso ne K2 - La verità, di cui riporto di seguito i passaggi più salienti e drammatici.

Al centro, il giovane Bonatti durante la spedizione al K2 (fonte: xedizioni.it)

"Istintivamente comincio ad annaspare alla cieca con la piccozza, nell'intento di tagliare sul pendio un gradino largo abbastanza da potervi stare tutti e due seduti, uno di fianco all'altro. Mentre lavoro, penso e mi arrovello in visioni angosciose. E a un tratto mi sorprendo a gridare: «No, non voglio morire! Non devo morire! Lino! Achille! Non potete non sentirci! Aiutateci! Maledetti!». Quindi prendo a minacciarli, pesantemente: «Vi denuncerò al mio rientro!». Vivo una crisi di ribellione e di rabbia insieme, che mi è difficile placare. Oltre che ignobilmente abbandonato mi sento profondamente tradito. Infine, come se mi svegliassi da un brutto sogno, mi rendo conto di aver scavato un discreto ripiano. Anche Mahdi ora sembra più calmo e rassegnato, benché risponda a ogni mia proposta con un lamentoso: «No, Sab!». E riprende a tremare e gemere dal freddo. [...] Come un marchio di fuoco sento che qualcosa di grave si sta imprimendo nel mio animo. [...] Il gelo atroce ci sta paralizzando. Siamo scossi a intervalli da lunghi fremiti. Ci stringiamo l'un l'altro, riducendo il più possibile il contatto con il ghiaccio su cui stiamo accovacciati. Più volte avverto che sono sul punto di perdere la sensibilità a un arto, allora lotto con ogni mezzo per vincere il pericoloso torpore. Spesso non bastano più i movimenti delle gambe o delle braccia, né i massaggi dove il gelo attacca. Allora impugno la piccozza e batto ripetutamente là dove perdo sensibilità. [...] Improvvisa e cruda ci colpisce in viso, come uno schiaffo, la prima folata di nevischio. Poi un'altra, e un'altra ancora. In breve ci avvolge una vera bufera, con turbini tanto violenti da colmarci di polvere gelata ovunque, sopra e sotto gli indumenti. A stento riusciamo, con le mani, a proteggerci il naso e la bocca per non soffocare; gli occhi sono quasi accecati. è una tortura, e la lotta si fa via via più disperata. Presto non ci rendiamo conto se lottiamo per vivere o soltanto perché continuiamo a vivere."
Walter Bonatti, K2 - La verità

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