mercoledì 12 ottobre 2016

Ihr seid Helden - Il racconto della mia maratona di Berlino 2016

Raccontare questo nuovo confronto con i 42 chilometri e 195 metri, il numero otto, ha certamente un sapore diverso rispetto alle altre occasioni. Perché da questa maratona ne esco a pezzi fisicamente. Non solo con le gambe al limite della sopportazione, come è normale in maratona, ma anche senza un minuscolo pezzo di un osso del piede. Nonostante la frattura al tarso del piede destro questo non è un sapore amaro. Direi più... agrodolce. Se la gioia della maratona è stata in parte smorzata da un incidente (del quale ovviamente parlerò ampiamente) che mi ha impedito di puntare al personale, è ben presente la consapevolezza che essere arrivati in fondo, aver superato la linea del traguardo, è sempre un grande risultato. Farlo con un piede fratturato, con tutto ciò che ne consegue, è un risultato enorme, forse ancora superiore a tutti i personali del mondo.

Il sorriso dell'arrivo

La notte prima della maratona è, come spesso capita, una notte che mette insieme l'insonnia e il nervosismo della vigilia con la necessità di riposare le membra in vista del grande giorno. Le sensazioni non sono negative, anzi. La colazione è ovviamente ricca, con le solite cose di tutti i giorni, come yogurt e marmellata; la vestizione è lenta. Servono attenzione e cura.
Per raggiungere la zona della partenza c'è da prendere la S-Bahn, è il momento di decongestione tra la tensione dei primi preparativi e dell'attesa della partenza. In quei cinque minuti tra le stazioni di Zoologischer Garten e della Hauptbahnhof non devo pensare a niente, non devo fare niente. Il mio sguardo addormentato vaga qua e là nella carrozza che, come era prevedibile, è popolata dal popolo della maratona. Una ciurma che è facilmente riconoscibile dal sacchetto fornito per contenere i propri oggetti personali, e soprattutto dalle scarpe da corsa che si sfidano tra loro a chi è più variopinta. In quei minuti, guardo le facce ancora rilassate dei maratoneti, e mi giro solo per un attimo, quando il treno scavalca Straße des 17.Juni, da dove ha inizio la maratona: in quel punto avrò corso all'incirca 1500 metri.

Via alla maratona di Berlino! (© Fabrizio Bensch)

Davanti alla Hauptbahnhof fioccano i drappelli di maratoneti e aspiranti tali che ne approfittano per immortalarsi con un selfie di fronte all'avveniristica stazione ferroviaria di Berlino o con l'alba che sorge proprio dietro alla Fernsehturm lasciando riflessi arancioni sulla Sprea. Tutto questo prima di entrare nell'area della partenza e dell'arrivo, un'area blindatissima dove non è ammessa l'entrata di persone che non siano maratoneti e dove i controlli delle forze dell'ordine sono rigorosi. Non è solo questione di sicurezza (la maratona di Boston ha insegnato), è soprattutto per aiutare la gestione di una folla enorme, che a Berlino conta quarantamila persone assiepate nel viale che attraversa il Tiergarten.
Mi svesto e affronto il freddo della mattina berlinese di settembre, prima di lasciare il sacchetto con i cambi. Poi il riscaldamento e lo stretching e tra una serie e l'altra ci scappa sempre una fondamentale pausa-minzione (in compagnia, perché quasi tutti detestano fare la coda ai vespasiani, che non sono mai sufficienti). Tutto nella grande area verde di fronte alla Cancelleria, tutto di fronte agli sguardi divertiti della Polizei. Non ce ne voglia la Angela Merkel, ma i maratoneti devono rigorosamente partire vuoti.

L'ingresso nella strettoia di Friedrichstraße

I brividi non sono solo quelli di freddo, ma anche quelli di ansia che attraversano la schiena quindici minuti prima della partenza. La folla è tanta e gli ingressi nelle gabbie sono strettissimi, in più lo spazio all'interno della gabbia stessa pare essere sottostimato. Beh, ciò che succede è che rimango fermo "in coda", neanche mi trovassi sulla A1 tra Barberino del Mugello e Roncobilaccio. Quindici minuti di attesa impaziente, durante i quali vedo tutto il peggio dell'umanità che cerca disperatamente di entrare in gabbia: recinzioni scavalcate, spinte a destra e manca, cespugli sfondati e chissenefrega se ci si graffia. Comunque, mi va bene, alle 9.10 sono dentro. Giusto in tempo per la presentazione dei top runner, quelli che si giocheranno la vittoria sul traguardo davanti alla Porta di Brandeburgo e, in campo maschile, proveranno ad abbattere il record mondiale sulla distanza (quello femminile appare ora difficile da superare). Siamo costretti come polli in batteria, provare a fare ancora un po' di stretching è un'impresa.
Ecco, se devo trovare una pecca nel mio avvicinamento alla gara, la trovo qui: non sono riuscito ad entrare in gabbia sufficientemente prima per poter trovare ancora un po' di relax interiore, di riflessione, di tranquillità prima di bruciare nel fuoco della corsa.

Il fiume si divide di fronte alla Colonna della Vittoria (© Fabrizio Bensch)

Per la cronaca, a vincere la maratona maschile sarà poi l'etiope Kenenisa Bekele, davanti al keniota Wilson Kipsang - già vincitore della maratona di Berlino nel 2013 durante la quale aveva già stabilito la migliore prestazione mondiale. Ma non ci sarà il nuovo record del mondo: il fenomeno etiope, tre titoli olimpici e cinque titoli mondiali sui 5000 e sui 10000 metri piani (dei quali è anche il recordman mondiale), ferma il cronometro sul tempo di 2h03'03". A sei secondi dal record, sei secondi su un tempo di due ore! La differenza è infinitesima: per eguagliare il record, Bekele avrebbe dovuto correre ogni chilometro quattordici centesimi più veloce. Nulla.
Per quanto sia un tifoso di Kipsang, sono molto contento per la vittoria di Bekele, un atleta di valore enorme, uno dei più grandi della storia dell'atletica leggera, e che appartiene un po' ad una scuola più classica dell'atletica leggera, che preferisce l'avvicinamento alla distanza della maratona partendo da distanze tipiche del mezzofondo.

L'arrivo trionfante di Kenenisa Bekele (fonte: neweurope.eu)

Poi arriva il momento dello sparo, i palloncini bianchi che si alzano nel cielo azzurro sopra Berlino sono il segnale per noi che la maratona è cominciata. Ma la distanza fra me e la linea di partenza è ampia: ci sono ben quattro gabbie di gente più veloce di me (come scoprirò dopo, solo apparentemente). La folla è tale per cui sono necessari quasi sei minuti affinché riesca a raggiungere la linea sulla quale il mio chip viene rilevato e possa iniziare, finalmente, a correre. Segnatevi questo dato, sarà utile dopo: sei minuti tra lo sparo e il mio rilevamento alla partenza.
Vista dall'esterno, la Straße des 17.Juni, riempita fino all'orlo di oltre quarantamila maratoneti, è un grande spettacolo visivo, è il grande fiume della maratona. Ma essere lì dentro, tra podisti che vengono da tutto il mondo, lo è ancora di più. Nel cuore della maratona di Berlino, tra le due muraglie di alberi del Tiergarten, a cospetto della doratissima Colonna della Vittoria, correre è un privilegio monumentale. Gli sforzi fatti, fino dal momento della mia iscrizione, lo testimoniano.

È quasi la mezza maratona, di fronte alla Kirche am Südstern

Mi rendo conto fin dall'inizio che i primi chilometri saranno di sofferenza. Non fisica, ma psicologica, puro stress mentale. Di fronte a me mi trovo un esercito di podisti che vanno veramente molto più piano di me. I primi chilometri se ne vanno ad un passo di circa 4'40"/km, già troppo lento per inseguire il miglioramento del personale. Ma sono i primi chilometri, nei quali strafare non è buona cosa, e poi ci sono sorpassi a raffica da effettuare. Tanti, troppi. Ci sono moltissimi podisti che corrono decisamente più piano della soglia di 5'/km. Ci sono curve che si trasformano in strettoie in cui si è giocoforza obbligati a rallentare l'andatura. Ci sono tratti che possono essere delle trappole. E in una di queste, appena superato il rilevamento dei cinque chilometri, ci sono proprio finito dentro.

Lottando per un sorpasso in Rosa-Luxemburg-Platz

Cadere correndo non è cosa frequente. E invece, per terra, ci sono andato.
La velocità della caduta è stata tale per cui il ricordo sbiadisce assai rapidamente. Sul momento ho pensato a due possibili teorie: o sono inciampato da solo (oppure scivolato) o qualcuno mi ha toccato da dietro, mentre ero in procinto di "mettere la freccia" e effettuare l'ennesimo, nervosissimo, sorpasso. Cose plausibili, che capitano di rado ma capitano, già viste durante altre corse. Alla luce di come mi è gonfiato il piede sinistro a poche ore dal termine della maratona, mi rendo conto che l'ipotesi più credibile sia stata una distorsione, una storta che mi ha spaccato il piede: due giorni dopo, gli esami strumentali evidenzieranno una frattura al cuboide del tarso sinistro. Ma il piede in realtà non farà mai particolarmente male durante il resto della corsa. Sentirò dolore solo in curva (dove il carico sul piede è distribuito diversamente), al quale rimedierò allargando il raggio con il quale imboccherò ogni svolta a sinistra e a destra.
Dopo la caduta, non ho escoriazioni sulle gambe, perché per terra quasi non ci sono andato. Trovandomi sul lato destro della carreggiata, e spostandomi sul bordo strada per provare a sorpassare, la mia caduta si è arrestata su uno di quei pali in ferro, alti un'ottantina di centimetri, usati come dissuasori di sosta. Impatto violentissimo, sul quale ho sentito più di un "uh!" da parte dei passanti e degli spettatori. A risentirne sono l'addome e la gamba destra. Il dolore all'addome scompare in fretta, alla gamba invece rimane ancora a lungo. Rimarrà per dieci chilometri, impedendomi di spingere a dovere. Infatti nei due settori 5-10 km e 10-15 km correrò alla media di rispettivamente 4'41"/km e 4'40"/km. La proiezione al quindicesimo chilometro è per un tempo finale di 3h16'48".

Piccolino, a destra - in mezzo ad una marea di gente molto più lenta di me

Ora mi tocca aprire, con dispiacere, una parentesi amara. Un incidente, di qualsiasi genere, è un avvenimento spesso aleatorio. Non credo di aver compiuto una manovra sbagliata prima di cadere. Con ogni probabilità doveva capitare, e basta. Ho avuto la sfortuna di rompermi un osso con una storta, cosa che mai mi era capitata prima, pur con tutte le storte in cui sono incappato. Ho avuto la sfortuna di impattare su un ostacolo tutt'altro che morbido, anzi, così duro che forse sarebbe stato meglio il cemento del marciapiede. Insomma, sfortuna.
Però, se non mi fossi trovato a dover sorpassare atleti così lenti, se non fossi stato costretto a cambiare continuamente traiettoria, probabilmente avrei rischiato molto meno di cadere. Attenzione: nella mia gabbia (la E) avrebbero dovuto esserci podisti che hanno corso in precedenza - o pensavano di correre, se alla prima partecipazione - un tempo tra le 3h15' e le 3h30'. In termini di passo, intorno a me avrebbero dovuto esserci runner in grado di mantenere una media tra 4'37"/km e 4'58"/km. Invece mi sono trovato di fronte atleti che correvano ben più piano di 5'/km. Lì per lì, ho maledetto il risultato della maratona di Amburgo, quelle 3h15'43" che ho dichiarato in fase di iscrizione e che dunque mi hanno costretto, dopo il sorteggio, a finire in una gabbia potenzialmente lenta per me - due mesi dopo l'iscrizione, alla maratona di Firenze, ho corso in 3h14'32", tempo che mi avrebbe dato il diritto di stare nella gabbia D, più veloce. Ma (e questo l'ho scoperto dopo) non era correre in una gabbia potenzialmente più lenta il motivo per cui ho dovuto sorpassare tutte queste lumache.
Il giorno dopo la maratona mi viene segnalata pagina web del quotidiano Berliner Morgenpost in cui è possibile trovare e scaricare gratuitamente una foto del proprio passaggio al chilometro 6.3, prima del ponte sulla Sprea in corrispondenza di Willy-Brandt-Straße. Per trovare la mia foto, devo sfogliare molte gallerie, quindi mi aiuto nella ricerca utilizzando la pagina ufficiale degli organizzazione con i risultati e i passaggi ai vari rilevamenti di TUTTI i partecipanti. E noto alcune cose strane: alcuni numeri di gara, passati al chilometro 5 prima di me, hanno poi finito la maratona ben oltre le tre ore e mezza, ma anche in quattro o cinque ore.
Guardate la foto in alto, scaricata dal sito di Berliner Morgenpost. Il numero 26284 è un bavarese che ha chiuso la maratona in 3h48'03". Non voglio pensare male. Avrà avuto una crisi, avrà sovrastimato (diciotto minuti...) le sue capacità. A pensar male si fa peccato ma spesso si indovina.
E infatti, sul sito web della maratona, trovo il numero 16775 (da Berlino) che chiude in 4h32', partito tre minuti dopo lo sparo; vedo il cinese con il numero 50164 che chiude in 4h51', partito dopo soli trentasei secondi dallo sparo; vedo il messicano con il numero 10889 che chiude in 5h02', partito dopo due minuti dallo sparo; vedo (e qui chiudo), il danese con il numero 22931 che chiude in 6h17' (sei ore!), partito due minuti e mezzo dopo lo sparo. Beh, io sono partito ben SEI minuti dopo lo sparo, quindi avrei dovuto essere sulla carta mooooolto più lento di questi individui. Avranno avuto una crisi, forse? Lo escludo, perché chi ha una crisi non corre a 6'-7' al chilometro fin dai primi chilometri. Questi sono solo alcuni esempi: cosa scrivo è tutto verificabile sul sito della maratona (http://www.bmw-berlin-marathon.com/en/).
Questo significa una cosa sola: tra i maratoneti c'è chi fa il furbo e si iscrive ad una corsa con tempi o falsi o clamorosamente sovrastimati. La geografia qui non conta un cazzo. Questa porcheria l'hanno fatta gli integerrimi tedeschi come i più infidi cinesi. Non sono loro ad avermi spaccato un piede, ma hanno messo in difficoltà me e tanti altri che come me si sono trovati costretti a rallentare, sorpassare ed accelerare in continuazione. Tutto ciò non è onesto e quindi, essendomi comportato onestamente, capirete che sia un tantino alterato. L'organizzazione poteva controllare di più? Se qualcuno ha barato negli ingressi in gabbia, sicuramente. All'iscrizione... forse si, ma in tutta sincerità, non posso affermarlo con certezza. Chiusa parentesi.

Li vedete quei pali? Ci sono caduto sopra. Screenshot da Google Street View

«È finita». Quando mi rialzo per riprendere la corsa, ammetto, ho pensato di ritirarmi. La botta è di quelle che fanno male. Ma questo attimo di scoramento dura pochi centesimi di secondo. E riparto. La gamba, soprattutto, fa veramente male. Lo scoramento ritorna, in forma ben diversa, in quanto non ho più la certezza di riuscire di poter quantomeno arrivare fino in fondo alla maratona. Correre su una gamba dolorante può essere motivo di sofferenze atroci, dopo trenta chilometri. Intanto, un chilometro dopo l'altro, la maratona continua e poco per volta cerco di iniziare a chiudere chilometri a ritmi più veloci. Ma non è affatto facile, perché capita anche di trovare punti in cui non è possibile continuare con i sorpassi. Al fondo di Reinhardtstraße (chilometro 8), ad esempio, c'è una curva a novanta gradi che conduce in Friedrichstraße: è una strettoia micidiale, in cui mi trovo a correre anche oltre i 5'/km. Dannazione, non si va avanti.

Markgrafenstraße, meno di due chilometri - e si vede

Sarò schietto, dopo quindici chilometri, dopo aver superato il tratto più settentrionale della maratona, mi sono reso conto che queste mie gambe, non potevano portarmi in fondo ai 42 chilometri con il mio miglior tempo. Non ero stanco, ma in corsa il corpo lancia costantemente dei segnali, che un maratoneta di esperienza sa leggere ed interpretare. Forse sarà stato anche una corsa scorretta (la botta alla gamba, il piede inconsapevolmente rotto potrebbero aver influito sulla resa nel gesto della corsa), forse sarà stato il demoralizzarsi nei chilometri successivi alla caduta, ma il mio passo non è mai stato particolarmente brillante. Di terminare una maratona, senza però neanche provare a migliorarsi, non se ne parla nemmeno. Nel bel mezzo di Kreuzberg, inizio ad incrementare la mia velocità e finalmente riprendo a stampare chilometri con un ritmo più vicino alle mie aspettative. Dopo la curva che porta all'area di Bergmannkiez, inizio a correre regolarmente su ritmi tra i 4'30" e i 4'40"/km, il ritmo che ci va per potermi migliorare. Il tifo che nei quartieri di Kreuzberg e Schöneberg è costante, passionale, ininterrotto. Questo certamente mi aiuta a tenere un buon passo.

Chilometro 12, recuperando la botta

I settori seguenti al chilometro 15 mi vedono correre ancora ad un buon ritmo, 4'35"/km nel settore 15-20 km, 4'37"/km nel settore 20-25 km. Sarei anche abbastanza costante, se non fosse per i caotici rifornimenti, in cui gli urti tra gli atleti sono la regola. Ma so che non è un passo che posso tenere ancora a lungo. Il decadimento della prestazione è inevitabile, e già nel settore successivo, 25-30 km, il 4'44"/km medio è già sintomatico dell'inesorabile calo. Il triste confine tra i quartieri di Tempelhof-Schöneberg e Charlottenburg-Wilmersdorf, segna l'inizio della lenta discesa. Inizio a rallentare sulla salita, l'unica in pratica sul percorso, di Lentzeallee. E poi ogni chilometro sarà sempre più lento. Sull'Hohenzollerndamm, effettivamente il viale più povero di tifo ma in leggera discesa, provo ad attaccarmi con i denti ad un passo intorno ai 4'45"/km.

Maratoneti, gente eccentrica (© Norbert Wilhelmi)

Dopo il trentesimo chilometro passo attimi difficilissimi. È il muro. È già arrivato, e arriva troppo presto. Ripenso a chilometri corsi troppo forte, alle accelerazioni e alle decelerazioni continue dei primi quindici chilometri, alla caduta. Quel muro che avrebbe dovuto presentarsi negli ultimi chilometri presenta il conto salatissimo a poco più di due terzi di corsa. Manca ancora un'ora di corsa, se va bene, e la devo fare con il coltello tra i denti. Il cronometro segna passi veramente prossimi ai 5'/km, un passo al quale non voglio correre. Mi attacco con tutto ciò che ho ad ogni residuo di energia rimasta, perché intravedo la possibilità di restare quantomeno sotto le 3h20', un tempo comunque dignitoso. Inizio con i calcoli, anche se non dovrei, perché quando non ne hai più, bisognerebbe lasciar perdere l'orologio e i calcoli con i secondi, per lasciare sull'asfalto tutto ciò che rimane. I cartelli con il chilometraggio scorrono uno dopo l'altro. Un altro momento di criticità arriva quando mi trovo tra la Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche e il centro commerciale conosciuto come KaDeWe, ed è già il chilometro 35. Negli ultimi cinque chilometri ho corso a 4'56"/km. Mi pare di non sentire più alcun tifo in questi viali così larghi. Qui non c'è più nessuno da sorpassare, perché i muscoli non vogliono più saperne di lavorare e di accelerare, in più le distanze tra un maratoneta e l'altro si allargano sempre di più. Ogni maratoneta può essere un riferimento da seguire per essere "trainato" in fondo, ma non sempre è così. Qualcuno va veramente troppo forte, altri sono ancora messi peggio.

Lingua fuori!

Gli ultimi sei-sette chilometri sono il romanzo della maratona, che a Berlino sono ancora più speciali e rendono unica questa maratona. Un'altra bella botta la sento quando mi sto per avvicinare alla Kulturforum. Prima della curva che conduce dalla Berliner Philharmonie al Sony Center, la strada tende leggermente a salire (scopro successivamente, riguardando la mappa, che è un ponte su un canale). Che mazzata sulle gambe. Trovo l'unico conforto nel guardare la fede che da quattro mesi ho al mio anulare sinistro.
Si iniziano a vedere i grattacieli di Potsdamer Platz. Mi rianimo, perché sento che lì troverò molte persone acclamanti. Non mi sbaglio. Se il tifo è caldo... ma quanto è freddo correre in Potsdamer Platz? Quei grattacieli, la loro ombra, creano un alone gelido che raffredda decisamente un corpo sudato e scaldato dal sole che ormai ha raggiunto il suo apice in cielo. Ma Potsdamer Platz non delude. Correre tra due folte ali di sostenitori, sormontati da un tetto di grattacieli di vetro fa venire ancora di più i brividi. E pur essendo al chilometro 39, è inevitabile scoprirsi ad accelerare sotto la spinta di un luogo impressionante per dimensioni e sotto l'incitamento continuo di berlinesi e di tifosi lì per incoraggiare i propri maratoneti.

Potsdamer Platz, chilometro 39 (© Norbert Wilhelmi)

Gli ultimi tre chilometri del percorso della maratona di Berlino li avevo studiati bene. Leipziger Straße sarebbe stato ed è effettivamente stato un viale infinito. Da Potsdamer Platz fino alla curva che conduce in Jerusalemer Straße c'è circa un chilometro e garantisco che questo chilometro è veramente atroce. Il chilometro più difficile. So di dover girare a sinistra, per iniziare l'avvicinamento a Unter den Linden, che vorrebbe dire traguardo, ma quella curva proprio non vuole arrivare. Quando finalmente arriva, è il chilometro 40. Non si molla, sono arrivate le ultime curve. Si, il piede fa un po' male, ma quelle curve ridanno speranza, non manca tanto. Mentalmente iniziano processi che corrono sul confine dell'illogico, come immaginare di essere sui percorsi di casa, immaginare di trovarsi su quella piccola salita della Mainradweg che dista due chilometri da casa. «No, non manca tanto, sono già sullo strappo», penso. «Dieci minuti e ci sono», ripenso. Dieci minuti possono essere tantissimo tempo, possono essere un'inezia. Dipende dall'intensità con quale si decide di affrontare questo lasso di tempo. La mia fortuna è quella di arrivare integro (non era vero, ma in quel momento ne ero ancora ignaro) al chilometro 40, quando inizia un'altra corsa, quando inizia un altro sport. Quando il capitale di risorse energetiche a disposizione è azzerato, quando il conto corrente dell'energia rimasta nei muscoli è definitivamente in rosso. Così rosso che gli ultimi cinque chilometri li ho corsi a 5'02"/km.
In quel momento iniziano quei minuti in cui possono succedere due cose. O si odierà la maratona e non la si vorrà mai più affrontare. O la si amerà al punto tale da domandarsi quando la si correrà la prossima volta. Nel secondo caso, questa domanda, fidatevi, ce la si pone appena superato il traguardo.

Uno sfondo indimenticabile

Ma il traguardo è ancora "lontano". Ci sono ancora cinque curve. Jerusalemer Straße, Mohrenstraße, dunque Markgrafenstraße. La sagoma del Deutscher Dom guarda quello che all'inizio era un fiume in piena diventare un minuscolo ruscello che scorre lungo il letto di un grande fiume in secca. Le distanze tra un atleta e l'altro si sentono, ci sono i metri, non più i centimetri. L'ampiezza di Markgrafenstraße, di fronte al Deutscher Dom e al Französischer Dom, è sterminata. Affronto la curva che porta in Französische Straße come un motociclista che può disegnare la traiettoria migliore, non sento nessuno attorno a me: c'è una fotografia, che adoro, in cui sono davanti a tutti. Davanti a tutti quelli dietro di me, naturalmente, perché davanti a me ce n'erano circa quattromila. In quelle foto ho espressioni facciali al limite dello spasmo. La fatica, che sfascia senza alcuna pietà ogni singola cellula, si legge prima di tutto nel volto di ogni maratoneta. Ma anche la felicità.

Il Reichstag invaso (© Buddy Bartelsen)

E quando svolto in Glinkastraße, il mio viso non poteva che essere felice. Ho appena superato il chilometro 41, intravedo Unter den Linden, sento la musica che accompagna i maratoneti fino all'arrivo. È giunto il momento che il maratoneta attende da mesi, il traguardo. Ancora una curva per arrivare nell'ultimo rettilineo. È una curva a sinistra. Poi settecento metri e la Porta di Brandeburgo. Unter den Linden è scatenata, la folla non smette di aiutarci a correre quella manciata di metri verso la linea di arrivo.
Sono quei momenti in cui comprendi a fondo il potere che ha la mente nel comandare il resto del corpo. Sento che sto correndo forte e allora guardo il cronometro che, un po' rassegnato, non guardavo più. E segna 4'23"/km, media sul chilometro in corso. 4'23"/km è un passo che non ho corso in tutta la maratona, non l'ho corso neanche nei momenti migliori. Lo corro ora, alla fine, dopo quarantadue chilometri di corsa mista a sofferenza, quando è tutto l'organismo che si trova in un vero e proprio conflitto di interessi, tra il desiderio di accelerare per accorciare la durata di questo dolore e la tentazione di rallentare per ridurre quel dolore muscolare. Lo corro dopo una caduta che poteva compromettere tutto.
Guardo la Porta di Brandeburgo e ripenso a due anni fa. Lì avevo promesso a me stesso che sarei tornato un giorno in Pariser Platz per correre sotto l'arco della Porta di Brandeburgo. Allora io e Giulia non eravamo ancora sposati, non vivevamo ancora in Germania. Quante cose sono successe nel frattempo. È inevitabile, mentre sto per passare sotto il monumento simbolo di Berlino, mentre inizio a vedere il cartellone blu dell'arrivo, ripensare alla mia vita, a mia moglie e (in sua assenza) dare un bacio alla fede.

Stop al cronometro: 3h20'08"

Ormai l'arrivo è ben visibile. Mancano...trecento metri, credo. Non so se sono andato forte o piano, la mente è in uno stato di estatico oblio. La gioia della maratona è come oppio, cancella la lucidità e annebbia in parte la coscienza. Cosciente di cosa sto facendo, incosciente di concludere una maratona con un osso del piede rotto. La grandezza del Tiergarten è immensa, e al suo interno sento come perdere l'incitamento della folla all'arrivo. La arringo, come spesso ho fatto in altre occasioni, per prendere tutto ciò che posso dall'urlo di Berlino, per forzare l'uso di energie di provenienza sconosciuta. Poi, un cartello. Chilometro 42. Meno di duecento metri. Le gambe continuano a mulinare, ma non è più un movimento controllabile. Vanno da sole, come il topo che ha avvistato il formaggio. Il formaggio è il tappeto blu degli ultimi metri.
Braccia in alto. Sono arrivato, nonostante la sfortuna che decide di farmi uno scherzo dopo pochissimo dal via, a muscoli quasi freddi, nonostante una botta che ha del sanguinoso contro un elemento coriaceo ma assai meno ferreo della forza di volontà di un maratoneta, nonostante un piede deplorante ad ogni curva, nonostante tutti i coglioni che terminano una maratona in sei ore partendo dalla gabbia delle tre ore e che ho dovuto sorpassare, nonostante il piede rotto che non sapevo di avere.

Le meritate medaglie dei finisher (fonte: uk.sports.yahoo.com)

Subito non so che tempo ho fatto. Mi accascio per un attimo, sfinito, poi vado a prendermi la medaglia e farmi immortalare con essa. Acqua, sali, banane, albicocche. Rimetto subito calorie in un corpo sta implorando nuove energie e tanto riposo. Quando poi l'eccitazione dell'arrivo inizia a scemare, cerco il tempo e scopro che il mio tempo finale è 3h20'08", posizione 3916 su ventiseimila arrivati al traguardo, posizione 668 di categoria su 3182. Peccato per quegli otto secondi. Peccato per l'occasione gettata di stabilire un nuovo personale, correndo sul tracciato più veloce che ci sia, e che veloce lo è veramente. Saprò rifarmi, piede permettendo, il prossimo anno. Sono convinto che l'infortunio saprà darmi nuova linfa verso nuovi obiettivi.

"Foto con medaglia"

Ora, francamente ritengo che il tempo fatto segnare a Berlino fosse comunque sintomatico della condizione fisica con la quale ho corso la maratona: non al meglio. Nell'ultimo mese la forma fisica è venuta meno progressivamente. Probabilmente la preparazione è stata troppo lunga, perché il picco della forma l'ho raggiunto ad un mese dalla gara. Ma questi sono dettagli su quali ora avrò tutto il tempo di riflettere.
La caduta mi ha fatto perdere non più di cinque secondi. La botta, il male alla coscia, non mi ha tolto più di un minuto. Il dolore in curva potrebbe avermi penalizzato di dieci/quindici secondi. Al di là della caduta, che comunque ha anche influito mentalmente, in negativo, il tempo è stato determinato dalla condizione fisica che ritengo, alla luce delle sensazioni percepite in gara, fosse lontana dal miglior apice. Nessuna scusa, quindi. E non voglio sentire dire "eh, ma con un piede rotto è un gran tempo". Si, col senno di poi sono felice, felicissimo, di aver chiuso così, ovviamente. Mi godo la soddisfazione, ma non voglio scuse. Si, sono arrivato in fondo nonostante tutto, ma non sono soddisfatto. Berlino è stata una tappa di passaggio verso un miglioramento che è possibile e alla portata. So di poter migliorare il tempo fatto segnare dieci mesi fa a Firenze. So di poterlo fare e sarebbe bello riprovarci a Berlino, con la quale maratona ho un discorso aperto. Che dite, mi dovrei iscrivere con un personal best di 2h30', per non correre rischi?
Bis bald!
Stefano

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